Protasi (invocazione alla musa)

Cantami l’ira, o Diva, d’Achille figliuol di Pelèo
funesta, che agli Achei fu causa di doglie infinite,
e molte alme d’eroi gagliardi travolse nell’Orco,
e i corpi abbandonò preda ai cani, banchetto agli augelli.
Ebbe così compimento di Giove Croníde il volere,
dal dí che furon prima divisi da un’aspra contesa
l’Atríde re, signore di genti, ed Achille divino.

Antefatto: Crise, sacerdote di Apollo, prega inutilmente Agamennone di ridargli la figlia Criseide; Agamennone lo insulta e lo caccia; Crise invoca su di lui la vendetta di Apollo


Quale or dei Numi alla lite li spinse, alla zuffa? Di Giove
fu, di Latona il figlio. Crucciato col re, su le schiere
un morbo ei suscitò maligno, e perivan le genti,
perché l’Atride aveva lanciato l’oltraggio su Crise,
suo sacerdote. Costui, degli Achivi alle rapide navi
giunto era, a riscattare sua figlia; ed innumeri doni
recava, e in man le bende d’Apollo che lungi saetta,
sopra lo scettro d’oro. E tutti pregava gli Achivi,
e piú di tutti i due figli d’Atrèo, conduttori di genti:
«Atrídi, e tutti voi, Achei da le belle gambiere,
possano a voi concedere i Numi ch’àn sede in Olimpo
che la città prendiate di Priamo, ed in patria torniate.
Ma or la figlia mia liberate, e i miei doni gradite,
e rispettate Apollo, l’arciero figliuolo di Giove».
E qui gridaron tutti gli Achei, che prestar si dovesse
al sacerdote onore, gradirne i bellissimi doni.
Solo contento non fu dell’Atrìde magnanimo il cuore;
anzi via lo scacciò, soggiunse parole superbe:
« Ch’io non ti colga più mai vicino alle navi, o vecchiardo,
né or, se v’indugiassi, né poi, se tornassi: ché schermo
non ti sarebbero allora le bende e lo scettro del Nume.
Libera io non farò tua figlia: ché prima, vecchiaia
cogliere in casa mia la deve, lontan dalla patria,
in Argo, al letto mio compagna, ed intenta al telaio.
Or va, né m’irritare, se vuoi ritornar sano e salvo ».
Cosí disse. Obbedí, sgomento a quei detti, il vegliardo,
e muto andò lunghessa la riva del mare sonante;
e molte preci poi, venuto in disparte, innalzava
al figlio di Latona dai fulgidi crini, ad Apollo:
«Odimi, o re dall’arco d’argento, che Crisa proteggi,
la Santa Cilla, e sei di Tènedo salda signore,
odi, o Smintèo. Se mai di fiori ho velato il tuo tempio,
se mai, per farti onore, di capre e di tori su l’ara
t’ho pingui cosce bruciate, compiscimi questa preghiera:
faccian le tue saette ai Dànai scontare il mio pianto»

Apollo scende dall’Olimpo e semina la pestilenza


Queste parole disse di prece. L’udí Febo Apollo,
e dalle vette scese d’Olimpo, col cruccio nel cuore,
e su le spalle l’arco reggeva, e la chiusa faretra;
e mentre egli adirato moveva, sugli omeri a lui
squillavano le frecce: scendeva, pareva una notte.
Lungi ancor dalle navi ristava, lanciava uno strale;
e orrendo si levò clangore dall’arco d’argento.
Prima rivolse la mira sui muli e sui cani veloci,
poi, sugli stessi Achei lanciando amarissimi dardi,
li sterminava; e fitte le pire ardean sempre dei morti.

Achille convoca un’assemblea e interroga l’indovino Calcante

Ben nove giorni sul campo volaron le frecce del Nume:
a parlamento chiamò nel decimo Achille le genti,
come ispirato lo aveva la Dea dalle candide braccia,
che si crucciò pei Dànai, perché ne vedea tanto scempio.
Ora, poi che fûr tutti chiamati, fûr tutti raccolti,
surse fra loro Achille dai piedi veloci a parlare:
«Atride, ora davvero credo io che di nuovo errabondi
ritorneremo in patria, se pur fuggiremo la morte,
se peste e guerra insieme si accordano contro gli Achivi.
Su, dunque, interroghiamo, se alcun sacerdote o profeta
o interprete di sogni — ché viene anche il sogno da Giove —
dire ci sappia perché contro noi tanto Febo s’adira,
se prece inadempiuta lo cruccia, o se forse ecatombe;
e se l’omento pingue di pecore e capre perfette
voglia gradire, e lungi da noi trattenere la peste».
Dette queste parole, sedeva. E degli àuguri il primo
surse a parlare fra loro, di Tèstore il figlio, Calcante,
che conosceva gli eventi che furono e sono e saranno,
e sino ad Ilio aveva guidate le navi d’Acaia,
mercè dell’arte sua profetica, dono d’Apollo.
Pensando al loro bene, cosí prese questi a parlare:
«Tu mi comandi, Achille diletto ai Celesti, ch’io dica
perché l’ira divampa del Nume che lunge saetta;
ed io te lo dirò; ma tu intendimi, e fa’ giuramento
che pronto aiuto a me darai di parole e di mano:
perché s’adirerà, credo io, l’uom che a tutti gli Argivi
comanda, al cui volere si piegano tutti gli Achivi.
Troppo è possente un re, se contro il più debol si adira:
ché, pur se sul momento perviene a frenare lo sdegno,
serba il rancore poi, sin ch’egli non l’abbia sfogato,
chiuso nel cuore profondo. Tu di’, se salvarmi prometti».
E Achille pie’ veloce rispose con queste parole:
«Fa’ cuore, il vaticinio di’ pur come tu l’hai veduto:
ch’io giuro a fe’ d’Apollo diletto di Giove, a cui preci
levando, tu, Calcante, ai Dànai scopri gli augúri,
niuno, sin ch’io vivrò, sinché terrò aperti questi occhi,
ardirà mai su te gittar vïolente le mani,
niuno fra i Dànai tutti, neppur se Agamènnone dica,
che or d’essere il primo si vanta fra tutti gli Achivi».
Fatto allor cuore, disse cosí l’infallibile vate:
«Non già d’inadempiuta preghiera, non già d’ecatombe:
pel sacerdote, il Nume si lagna: ché il figlio d’Atrèo
l’offese, e non gli sciolse la figlia, né accolse i suoi doni.
Vi diede e vi darà tormenti per questo, l’Arciere;
né dagli Achei lontane terrà la rovina e la peste,
prima che la fanciulla dagli occhi fulgenti, a suo padre
resa non abbiano, senza riscatto né prezzo, ed a Crisa
rechino un’ecatombe. Potremo in tal modo placarlo».

Agamennone accetta di restituire Criseide solo se Achille gli donerà Briseide

Dunque, cosí parlato, Calcante sedette. E fra loro
surse Agamènnone, figlio d’Atrèo, potentissimo eroe,
pieno di cruccio. L’alma sua negra era colma di furia,
riscintillante fuoco parevano gli occhi. E Calcante
prima guardò biecamente, volgendogli queste parole:
«Profeta di sciagure, tu mai cosa grata al mio cuore
detta non m’hai: ti piace predire mai sempre malanni:
nulla di buono mai né dici né compier sapesti.
Ed anche ora, fra i Dànai cianciando l’oracolo vai
che queste doglie avventa fra loro l’Arciere celeste
perché della figliuola di Crise respinsi il riscatto,
respinsi i doni belli, tener preferii la fanciulla:
ché più di Clitennestra, legittima sposa, io la pregio,
ché non val punto meno di lei, di bellezza, di forme,
d’intelligenza, ed è sperta del pari in ogni opera bella.
Rendere pur tuttavia la voglio, se questo è pel meglio:
ch’io voglio salva, non voglio distrutta veder la mia gente.
Ma un dono tosto a me preparate, ché sol fra gli Argivi
io non rimanga senza compenso: ché ingiusto sarebbe;
perché tutti vedete qual premio a me adesso s’invola».

Achille si rifiuta e minaccia di andarsene

E a lui cosí rispose Achille dai piedi veloci:
«Avido più che niun altri, famoso figliuolo d’Atrèo,
come tal dono offrirti potranno i magnanimi Achivi?
Noi non sappiamo che ancora ci sian molte prede indivise:
quanto nelle città fu predato, fu tutto spartito,
né tutto accomunare vorranno di nuovo le schiere.
Al Dio tu la fanciulla rendi ora; e compenso gli Achivi
triplice a te daranno, quadruplice, quando la rocca
saccheggeranno, se Giove concederlo voglia, di Troia».
E a lui queste parole rispose Agamènnone prode:
«Non lusingarti, Achille divino, per quanto sei scaltro,
di superarmi in astuzia, di trarmi convinto all’inganno.
Tu, per tenerti il tuo dono, vorresti davvero che privo
io rimanessi del mio, che al padre rendessi la figlia?
Dare mi debbono un altro compenso i magnanimi Achivi,
che le mie brame appaghi, che all’altro sia pari di pregio.
Se poi rifiuteranno di darmelo, andrò da me stesso,
e il dono piglierò d’Aiace, oppur quello d’Ulisse,
oppure, Achille, il tuo: potrà sin che vuole adirarsi
quello a cui toccherà. Ma di ciò parleremo più tardi.
Ora una nave negra si spinga nel mare divino,
e rematori in quella s’accolgano, e dentro si ponga
una ecatombe, e anch’essa la bella figliuola di Criso,
vi salga; e guida sia qualcuno dei duci assennati —
Aiace, Idomenèo, Ulisse divino, o tu stesso,
figliuolo di Pelèo, tremendo fra gli uomini tutti —
ché con le offerte plachi il Nume che lungi saetta».
E Achille pie’ veloce, guatandolo bieco, rispose:
«Ahimè, anima avara, vestita di spudoratezza!
E chi mai degli Achei vorrà di buon grado obbedirti,
sia quando a campo si muove, sia quando si pugna da forti?
Non son venuto già per odio dei prodi Troiani
a questa guerra, io no: ché mai non mi fecero torto,
mai rapito non mi hanno cavalli né mandre di bovi,
non hanno mai distrutte le messi nei solchi di Ftia
fertile, altrice di genti: ché sono fra l’isola e loro
molte montagne ombrose, e il mare dall’eco sonora;
ma, svergognato, per te ti seguimmo, per farti contento,
per vendicar Menelao dall’offesa troiana, e te stesso,
ceffo di cane; ma tu non ci pensi, ma nulla t’importa.
Ed or vai minacciando che vuoi ripigliarmi il mio premio,
che dato m’han gli Achivi, che tanta fatica mi costa!
Pari alla tua non è mai la mia parte, allorché dei Troiani
mettono a sacco qualche città popolosa gli Achivi:
ché anzi, quando infuria la guerra, la parte più dura
la compion queste mani; ma quando si sparte il bottino,
è la tua parte più grossa di molto, piccina è la mia;
e me ne torno, stanco di pugne, con quella a miei legni.
Ma questa volta, a Ftia me ne torno; ché val molto meglio
salir le navi, e in patria tornare: non vo’ senza onore
accumulare qui per te sostanze e ricchezze».
Ed Agamènnone, re di genti, cosí gli rispose:
«Fuggi, se l’animo tuo ti spinge, ché io non ti prego
di rimanere per me. Ci sono a me presso altri molti
che mi faranno onore: c’è, primo, il saggissimo Giove.
Fra i re, di Giove alunni, tu sei l’odioso fra tutti,
ché sempre a te son care le risse le guerre le zuffe.
Se tu sei tanto forte, d’un Nume è pur dono la forza.
Vattene pure a Ftia, con le navi, e ai Mirmídoni imparti
ordini, ai tuoi compagni. Pensiero di te non mi piglio,
né perché tu t’adiri mi cruccio. Ma questo t’avviso:
ora che Febo Apollo mi strappa la figlia di Crise,
io dagli amici miei la farò su le navi condurre;
ma io ti prenderò la bella Brisèide, il tuo premio:
alla tua tenda io stesso verrò, si che tu vegga bene
quanto io sono di te più forte; e sgomenti chiunque
credersi pari a me presuma, ed oppormisi contro».

Achille vorrebbe quasi uccidere Agamennone, ma arriva Atena a fermarlo


Disse. E da crudo cruccio fu invaso il Pelíde; e fra due
il cuore gli ondeggiò nel petto villoso: se fuori
tratta, da presso al fianco, l’aguzza sua spada, dovesse
scostar quanti eran quivi presenti, ed uccider l’Atríde;
oppur se trattenersi dovesse, e por freno al furore.
Or, mentre queste idee volgea nella mente e nel cuore,
e già dalla guaina la spada traeva, dal cielo
Atèna giunse: ed Era sospinta l’aveva, ch’entrambi
prediligeva gli eroi, d’entrambi si dava pensiero.
Dietro al Pelíde ristie’, lo ghermí per la chioma sua bionda,
né alcun la scorse: ch’ella solo era visibile a lui.
Achille trasalí, si voltò, riconobbe di colpo
Pallade Atena. Aveva negli occhi terribile un lampo;
e a lei volse il discorso, parlò queste alate parole:
«Perché qui vieni ancora, figliuola di Giove? Vedere
la tracotanza vuoi d’Agamènnone figlio d’Atrèo?
Ma chiaro io ciò ti dico, che tu vedrai presto compiuto:
con la sua vita costui scontare dovrà l’arroganza».
E Atena a lui, la Diva d’azzurra pupilla, rispose:
«Dal cielo io son discesa per fare che cessi il tuo sdegno,
se udirmi vuoi. Mi manda la Dea dalle candide braccia,
Era, ch’entrambi v’ama, d’entrambi si piglia pensiero.
Su, dalla rissa desisti, non mettere mano alla spada,
e coprilo d’oltraggi, comunque ti vengano detti.
Perché questo ti dico, ed esito avrà ciò ch’io dico:
giorno verrà che doni tre volte avrai tanti, stupendi,
per compensar questo affronto. Su, frénati, e fa’ ciò ch’io dico».
E a lei rispose Achille veloce con queste parole:
«Essere docili, o Dea, conviene, se voi comandate,
anche se l’ira il cuore ci gonfia: ché questo è pel meglio:
prima d’ogni altro i Numi ascoltano chi li obbedisce».
Disse, e la grave mano trattenne sull’elsa d’argento,
nella guaina la spada respinse, e ribelle al comando
non fu d’Atena. E Atena di nuovo tornò su l’Olimpo,
nella dimora di Giove, dell’ègida re, fra i Celesti.

Achille si limita ad insultare Agamennone


E con terribili detti, di nuovo il figliuol di Pelèo
contro l’Atríde si volse, ché l’ira non s’era placata:
«Avvinazzato, ch’ài ceffo di cane, ch’ài cuore di cervo,
mai di vestire l’armi, d’andar con le turbe alla pugna,
d’andare coi piú forti guerrieri d’Acaia agli agguati,
non t’è bastato il cuore: piú duro ti par della morte.
Di certo, è meglio assai, nell’esercito grande d’Acaia,
togliere i doni a chi si levi, e contrasti i tuoi detti!
Buono per te che a gente da nulla comandi, sovrano
divoratore del popolo tuo! Se no, questo sarebbe
l’ultimo oltraggio tuo. Ma ora, ti dico e ti giuro
solennemente, per questo mio scettro, che foglie né rami
non gitterà piú mai, poi che il tronco sui monti ha lasciato,
né piú rinverdirà, ché foglia e corteccia recise
furono intorno intorno dal bronzo; ed i giudici Achivi
lo stringono ora in pugno, che sono custodi alle leggi
per volontà di Giove: sia dunque tal giuro solenne:
avranno forse un giorno desire d’Achille gli Achivi
tutti; ché tu non potrai, per quanto ti dolga, aiutarli,
allor che tanti e tanti morenti cadran sotto i colpi
d’Ettore sterminatore: tu allor dovrai roderti il cuore
nel cruccio tuo, che il piú forte negasti onorar degli Achivi».
Il figlio di Pelèo cosí disse, ed a terra lo scettro
di borchie d’oro ornato batté; poi sedette egli stesso.

Il saggio Nestore prova a placare gli animi


Ma furïava il figlio d’Atrèo, dal suo canto. Ed allora
Nèstore surse, il re dei Pilî, l’arguto oratore,
dalla cui bocca l’eloquio fluiva piú dolce del miele.
D’uomini due progenie vedute egli aveva già spente,
ch’erano ai tempi suoi venute alla luce e cresciute
nell’arenosa Pilo: sovrano era adesso alla terza.
Questi, pensando il bene d’entrambi, cosí prese a dire:
«Ahi! che gran doglia sopra la terra d’Acaia s’aggrava!
Priamo adesso dovrà godere, e di Priamo i figli,
dovranno tutti gli altri Troiani allegrarsi di cuore,
quando sapranno di voi, che state cosí contendendo,
voi che i piú saggi siete fra i Dànai, che siete i piú forti!
Su via, datemi retta: ch’entrambi piú giovani siete
di me: ch’io son vissuto con uomini piú valorosi
che voi non siete; ed essi pur mai non mi tennero a vile.
Ché tali uomini mai non vidi né penso vedere,
come Pirítoo, come Driante pastore di genti,
come Esadío, Cenèo, Polifèmo, l’uguale dei Numi,
come Tesèo, figliuolo d’Egèo, ch’era pari ai Celesti.
Fortissimi eran questi fra quante avea genti la terra:
erano questi i piú forti, che guerra facean coi piú forti,
con i Centauri alpestri; e scempio ne fecero orrendo.
E a campo mossi anch’io con essi, venuto da Pilo,
e anch’io lottai per quanto potevo: pugnare con essi
nessun uomo potrebbe, fra quanti ora vivono al mondo.
E m’ascoltavano essi, non erano sordi ai consigli.
Datemi ascolto anche voi, ché questo è il partito migliore.
Tu non volergli, per quanto sii forte, rapir la fanciulla,
lasciagli il dono che a lui gli Achivi assegnarono un giorno.
E tu, poi, non volere, Pelíde, lottar col sovrano
a faccia a faccia. Ha diritto, ben piú che niun altri, al rispetto
un re di scettro, a cui die’ Giove la gloria del trono.
Se tu sei tanto forte, se a luce ti diede una Dea,
questi, poiché piú genti comanda, è di te piú possente.
E tu frena lo sdegno, figliuolo d’Atrèo: te ne prego,
la furia contro Achille deponi: ch’egli è baluardo,
in questa dura guerra, per tutte le genti d’Acaia».

Ultimo scambio di battute tra Achille e Agamennone, e chiusura dell’Assemblea


Ed Agamènnone, il re possente, cosí gli rispose:
«Sí, le parole ch’ài dette, vegliardo, son sagge parole;
ma primo sopra tutti vuol essere sempre quest’uomo,
vuol comandare a tutti, di tutti vuol esser padrone,
dettare leggi a tutti; ed io non lo vo’ sopportare.
Se valoroso in guerra l’han fatto gli Dei sempiterni,
gli hanno perciò concesso che gli altri egli copra d’ingiurie?».
Ma l’interruppe Achille divino, e cosí gli rispose:
«Certo, un dappoco, un uomo da nulla chiamato sarei,
se a te, qualunque cosa tu ordini, ceder dovessi.
Questi comandi ad altri rivolgi, a me no: dètta legge
agli altri, non a me: ch’io non sono disposto a ubbidirti.
Ed una cosa ancora ti dico, e tu figgila in mente:
io non intendo alle mani venire con te né con altri,
per la fanciulla che un giorno mi deste, che or mi togliete;
ma di quanto altro contiene la negra veloce mia nave,
nulla potrai rapire, portare con te, ch’io non voglia.
Fanne la prova, su, ché possan vedere anche questi:
súbito intrisa sarà la mia lancia del nero tuo sangue».
Poi ch’ebbero cosí conteso con dure parole,
sursero; e l’assemblea vicino alle navi si sciolse.



Agamennone predispone la restituzione di Criseide

Andò verso le navi sue snelle e la tenda il Pelíde,
e di Menezio il figlio con gli altri compagni era seco.
L’Atríde spinse poi nel pelago un rapido legno,
venti remigatori trascelse, e pel Nume vi pose
un’ecatombe, vi fece salire la figlia di Crise;
e guida Ulisse fu, l’eroe dall’accorto consiglio.
Or questi, asceso il legno, solcavano l’umide strade.
Quindi alle turbe ordinò l’Atríde di rendersi monde.
E si mondarono tutti, nel mare gittâr le sozzure,
e sacrifizio ad Apollo offriron di capre e di tori,
scelta ecatombe, presso la sponda del mare infecondo;
e il pingue odore al cielo salia con le spire del fumo.
Erano intente a ciò le schiere; né il figlio d’Atrèo
dimenticò la minaccia che aveva rivolta al Pelíde:
anzi ad Euríbate queste parole rivolse, e a Taltíbio,
ch’erano araldi suoi, suoi fidi zelanti ministri:
«Recatevi alla tenda d’Achille figliuol di Pelèo,
fatevi dare, e a me recate Brisèïde bella.
Se poi ve la rifiuta, son pronto a pigliarmela io stesso,
con molta gente; e questo sarà ben più amaro per lui».
Disse cosí, l’inviò con questo comando superbo.

Gli Araldi vanno presso la tenda di Achille per portargli via Briseide e consegnarla ad Agamennone


Mossero quelli a malgrado, lunghessa la spiaggia del mare,
e giunti furon presso le tende Mirmídoni e i legni.
E lui trovaron, presso la tenda seduto, e la nave
negra; né lieto fu, vedendoli giungere, Achille.
Stettero innanzi al re, quei due, fra rispetto e paura,
né gli volgean veruna parola, veruna dimanda.
Ma bene Achille intese, che ad essi cosí si rivolse:
«I benvenuti siate, di Giove e degli uomini araldi:
fatevi presso: vostra la colpa non è, ma del figlio
d’Atrèo, che a prender qui vi manda la figlia di Brise.
Su via, Pàtroclo, alunno di Giove, la figlia di Brise
guida e consegna a costoro. Ma siate voi due testimoni
dinanzi ai Numi eterni beati, dinanzi ai mortali,
dinanzi al re scortese, se un giorno verrà che bisogno
ci sia di me, ch’io debba tenere lontan dalle schiere
la peste e la rovina. Ma già, pazzo è quello, ed infuria,
né la sua mente sa guardare al passato e al futuro,
per far che presso ai legni combattan securi gli Achivi».
Cosí parlava. E pronto fu Pàtroclo; e fuor dalla tenda,
come il compagno bramava, condusse Brisèïde bella,
la consegnò. Di nuovo tornarono quelli a le navi
d’Acaia; e a mal suo grado moveva con essi la donna.

Achille racconta tutto alla madre Teti

Ma dai compagni lungi, piangendo, alla spiaggia del mare
sedeva Achille, gli occhi figgendo nel mare infinito;
e lunghe preci, tese le mani, volgeva a sua madre:
«Madre, poiché sí breve la vita sarà che mi desti,
onore almen concesso m’avesse d’Olimpo il Signore,
Giove che tuona dall’alto! Ma or me ne toglie sin l’ombra,
tanto oltraggiato m’ha l’Atríde Agamènnone, il sire
possente: il dono mio m’ha preso per forza, e lo gode!»
Cosí disse piangendo. L’udí la divina sua madre,
che presso il vecchio padre sedea negli abissi del mare,
e dalle spume emerse del pelago, e parve una nebbia;
e presso al figlio suo, che pianto versava, seduta,
a carezzarlo stese la mano, lo chiamò, gli disse:
«Figlio, che piangi? Che cruccio ti grava su l’anima? Parla,
non lo tenere nascosto: dobbiamo conoscerlo entrambi!».
E a lei rispose Achille veloce, con gemito lungo:
«Lo sai: perché dovrei narrare a chi sa tutto quanto?
Iti eravamo alla sacra città d’Evetíone, a Tebe,
e la ponemmo a sacco, recammo ogni preda alle navi.
Con equa legge qui spartirono tutto gli Achivi,
e diedero all’Atríde, per giunta, la figlia di Crise.
E Crise, sacerdote d’Apollo che lungi saetta,
venne dei prodi Achei loricati di bronzo alle navi,
per riscattare la figlia; e seco infiniti presenti
recava, e nelle mani le bende del Dio che saetta
sopra lo scettro d’oro; e tutti pregava gli Achivi,
e piú di tutti i due figli d’Atrèo, conduttori di genti.
Tutti gridarono allora gli Achei che prestar si dovesse
al sacerdote onore, gradirne i bellissimi doni:
solo contento non fu dell’Atríde magnanimo il cuore,
anzi via lo scacciò, soggiungendo parole superbe.
Colmo d’ira, partí dal campo il vegliardo; ed Apollo
udí la prece sua; ché molto lo amava; e uno strale
lanciò sopra gli Achivi, funesto, e morivan le genti,
l’uno su l’altro: su loro volavan le frecce del Nume,
per tutto l’ampio campo dei figli d’Acaia. E Calcante,
che tutto ben sapeva, ci schiuse i responsi di Febo.
Quivi primo dissi io che placare dovessimo il Nume;
ma fu dall’ira invaso l’Atríde; e in pie’ subito surto,
una minaccia a me rivolse, ch’ebbe or compimento,
perché gli Achei, pupille fulgenti, condotta sui legni
han la fanciulla Crise, di doni hanno Febo onorato;
ma qui vennero araldi, che tolta Briseïde m’hanno,
quella che un giorno a me donarono i figli d’Acaia.

Achille prega Teti di convincere Giove ad aiutare i Troiani

Ora, se tu lo puoi, proteggi il figliuolo tuo prode:
sali all’Olimpo, e a Giove rivolgi la prece, se mai
soccorso alcuno egli ebbe da te, di parole o di fatti.
Però ch’io nella casa paterna t’ho udita sovente
narrare come al figlio di Crono dai nuvoli negri
sola fra tutti gli Dei tu valesti evitar la ruina,
quel dí che gli altri Numi d’Olimpo, Posídone, Atèna,
Pallade ed Era, in combutta, volevano in ceppi legarlo.
Ed ecco, o Diva, tu giungesti a salvarlo dai ceppi,
presto nell’ampio Olimpo chiamando il centímane, il mostro
ch’è Briarèo chiamato dai Numi, dagli uomini tutti
Egèo, ch’era del padre Posídone ancora piú forte.
Questi sedé, glorïoso di forza, vicino al Croníde;
e lo temerono i Numi, né Giove fu stretto nei ceppi.
Récati or presso a lui, ricordagli ciò, le ginocchia
stringigli, sí ch’ei voglia recare soccorso ai Troiani,
e ai legni, al mar gli Achivi ricacci, ne faccia sterminio,
sicché possano tutti godere del loro sovrano,
e veda anche l’Atríde possente, Agamènnone sire,
quanta rovina fu degli Achivi oltraggiare il piú forte».
E a lui cosí rispose, cosparsa di lagrime, Teti:
«Ahi! figlio mio, perché t’ho dato in mal punto alla luce,
t’ho nutricato? Almeno, giacché la tua vita è sí breve,
vivere senza pianto potessi tu, senza cordoglio!
Invece, hai vita breve, e sei piú d’ogni altro infelice:
t’ho partorito perché tu avessi un destino di pene!
Andrò dunque all’Olimpo coperto di neve, ed a Giove
re della folgore, tutto dirò, se pur voglia ascoltarmi.
Or tu, fermo rimani vicino alle navi, e lo sdegno
contro gli Achei mantieni, né prender piú parte alla guerra.
Ché Giove andato è presso gli Etíopi innocenti a banchetto,
d’Ocèano ai lidi, ieri, seguendolo tutti i Celesti.
Ritorno esso farà fra dodici giorni all’Olimpo;
e allora, io nella casa di Giove dal bronzeo suolo
andrò, l’abbraccerò, e spero di farlo convinto».

Criseide viene restituita al padre da Odisseo

Detto cosí, partí la Diva; ed il figlio rimase,
pieno di cruccio il cuore, pensando alla donna sua bella,
che contro voglia, a forza rapita gli avevano. E Ulisse
giunse frattanto a Crise, recando la sacra ecatombe.
E poi che furon giunti nel seno del porto profondo,
ammainaron le vele, le posero dentro la nave,
l’albero nella corsía deposer, mollando gli stragli
rapidamente; e a forza la spinser coi remi all’approdo.
L’àncora poi gittaron, legarono l’orza a la spiaggia;
scesero quindi anch’essi sovressa la spiaggia del mare,
e al Nume offrîr che lungi saetta, la sacra ecatombe.
Discese anche dal legno veloce la figlia di Crise;
e allora, presso all’ara guidandola, Ulisse lo scaltro,
la consegnò nelle mani del padre, con queste parole:
«A te mi manda il re di genti Agamènnone, o Crise,
ch’io la tua figlia a te conduca, e una sacra ecatombe
offra ad Apollo, da parte dei Dànai, ché il Nume si plachi,
che tanto pianto e tanti cordogli ora infligge agli Argivi».
Detto cosí, nelle mani del padre la diede; e gioendo
quegli sua figlia accolse. Frattanto, le vittime sacre
quelli su l’ara bella ponevano in ordine; quindi
diedero l’acqua alle mani, spartirono i chicchi dell’orzo;
e Crise ambe le mani levò, fece questa preghiera:
«Odimi, o Dio dall’arco d’argento, signore di Crisa,
tu che di Cilla sacra signore e di Tènedo sei:
se le mie preci udisti pur dianzi, quando io ti pregavo,
e a me rendesti onore, colpisti gli Achei fieramente:
esaudisci la nuova preghiera che adesso ti volgo:
tieni lontana oramai dai Dànai l’orribile peste».
Disse cosí pregando: e udì Febo Apollo la prece.
Ora, poi ch’ebber pregato, cosparsi i granelli dell’orzo,
tratte le gole in su, sgozzaron, scoiarono l’ostie,
tagliarono le cosce, le avvolsero d’adipe grasso,
fattone un doppio strato, minuzzoli sopra di carne
vi posero; indi il vecchio le infuse di fulgido vino
sopra fiammanti legne: garzoni reggevan gli spiedi.
E poi che furon cotte le cosce, e divise l’entragne,
tutte divisero in pezzi le carni, e infilâr sugli spiedi;
e quando furon cotte a punto, le tolser dal fuoco.
E poi che fu il lavoro cessato, e imbandita la mensa,
qui banchettarono; e niuno restò con la voglia di cibo.
Quando sopita fu la brama del cibo e del vino,
i giovanetti, colmati di vin, sino all’orlo, i cratèri,
dopo libato agli Dei, riempirono a tutti le coppe.
E degli Achivi i figli col canto molcevano il Nume,
sino che giunse la sera: levarono in gloria di Febo
l’armonïoso peana; l’udiva, e allegravasi il Nume.
Appena il sol s’immerse nel mare, e la tènebra scese,
presso la poppa del legno si stesero, e il sonno li colse.
E come Aurora poi comparve ch’à rose fra i diti,
verso l’esercito grande salparono ancor degli Achivi.
Fece per essi il Nume levare una prospera brezza:
l’albero alzarono allora, vi steser la candida vela:
gonfiò la brezza a mezzo la vela; e d’intorno a la chiglia
romoreggiava, volando la nave, il purpurëo flutto.
Corse lunghessi i flutti, compiendo il viaggio, la nave;
e poi che degli Achei fûr giunti all’esercito grande,
prima la nave negra tirarono in secco a la spiaggia,
alto, sovra la sabbia, vi stesero sotto i puntelli,
poi si sbandarono via, d’intorno alle tende e alle navi.
Ma si rodeva intanto di cruccio, vicino alle navi,
Achille, il pie’ veloce divino figliuol di Pelèo;
né mai dell’assemblea moveva a le nobili gare,
né fra le pugne mai; ma, quivi restando, il suo cuore
struggeva nel desio delle pugne e dell’urlo di guerra.

Gli dei tornano nell’Olimpo e Teti prega Giove di far vincere i Troiani

Or, come poi spuntò dopo questo il duodecimo giorno,
ecco, tornarono i Numi che vita han perenne, in Olimpo,
tutti, e, lor duce, Giove. Né Tètide pose in oblio
quanto le aveva chiesto suo figlio. Dai flutti del mare,
simile a nuvola emerse, al cielo s’aderse e all’Olimpo.
Ed il Croníde trovò seduto in disparte dagli altri,
sopra la vetta eccelsa, fra i vertici fitti d’Olimpo.
E stette innanzi a lui, con la manca gli strinse i ginocchi,
a carezzargli il mento la destra distese, e, pregando,
queste parole a Giove figliuolo di Crono rivolse:
«Se di parola mai, se d’opere aiuto ti porsi
fra gl’Immortali, o Giove, compiscimi questa preghiera:
onore al figlio mio concedi, che vita piú breve
ebbe d’ogni altro; e adesso gli fece Agamènnone oltraggio:
il dono ch’era suo gli ha preso, e per forza lo tiene.
Rendigli onore tu, Croníde signore d’Olimpo:
la forza e la vittoria concedi ai Troiani, sin quando
facciano ammenda a mio figlio, d’onore lo colmin gli Achivi».
Disse cosí. Ma Giove risposta non diede; ed a lungo
muto restò. Ma Teti, tenendogli stretti i ginocchi,
ferma restando ov’era, gli volse novella preghiera:
«Dammi sicura promessa, col cenno del capo, o diniego –
ché d’uopo tu non hai di ritegno – ch’io possa sapere
quanto io sono la meno pregiata fra tutte le Dive».
E assai crucciato, Giove che i nuvoli aduna, rispose:
«Certo, saranno guai, se io debbo farmi nemica
Era, che certo vorrà coprirmi d’ingiurie e d’oltraggi,
che sempre, anche cosí, mi offende fra tutti i Celesti:
ch’io nella guerra, dice, parteggio in favor dei Troiani.
Ma tu parti or di qui, ché Era di nulla si accorga;
ed io provvederò che quello che brami si compia.
E cenno ti farò, perché tu mi creda, col capo:
questa è la piú solenne promessa ch’io faccia tra i Numi:
ché nulla mai potrà revocarsi, negarsi per frode,
né rimanere incompiuto, se cenno avrò fatto del capo».
Disse; e coi bruni cigli fe’ cenno il figliuolo di Crono:
le chiome ambrosie sopra la fronte immortale del Sire
ecco ondeggiarono; e tutto si scosse l’Olimpo infinito.
Preso cosí l’accordo, via mossero entrambi. La Diva
balzò giú da la vetta del fulgido Olimpo nel mare,
alla sua casa Giove tornò. Si levarono tutti
dinanzi al padre loro i Numi; né alcuno rimase
fermo, mentre egli avanzava; ma incontro gli mossero lutti.

Era intuisce l’accordo tra Teti e Giove


E quivi egli sede’ sul trono. Ma d’Era agli sguardi
non era già sfuggito che Tèti dai piedi d’argento
figlia del Vecchio del mare, avea seco preso gli accordi;
e con parole pungenti, di súbito a Giove si volse:
«Quale dei Numi ha tramato con te, tessitore d’inganni?
È sempre un gran piacere per te macchinare disegni,
prender partiti di furto, quando io non ci sono: svelarmi
mai di buon grado un motto volesti di ciò che tu pensi».
E questo a lei rispose dei Numi e degli uomini il padre:
«I miei disegni, no, non sperar di conoscerli tutti,
Era: benché mia sposa tu sii, ti sarebbero duri.
Quello che lecito è sapere, nessuno dei Numi
prima di te lo saprà, nessuno degli uomini: quello
che stabilire invece voglio io, di nascosto dei Numi,
non dimandare nulla di ciò, non cercar di saperlo».
Ed Era dai grandi occhi, rispose con queste parole:
«Quale parola mai, Croníde terribile, hai detta!
Nulla sin qui, purtroppo, t’ho mai dimandato, né chiesto;
e tu mi dici quello che vuoi, senza ch’io ti molesti.
Ma in capo or m’è l’idea venuta che t’abbia sedotto
Tèti dai pie’ d’argento, la figlia del Vecchio del mare.
Essa l’Olimpo ascese, ti strinse pregando i ginocchi;
e temo io che promesso tu le abbia che Achille d’onore
sia colmo, e molti Achei soccombano presso le navi».
E Giove, il Dio che aduna le nuvole, questo rispose:
«Sempre sospetti, demonio, né valgo a nasconderti nulla;
eppur, nulla otterrai cosí; ma lontana piú sempre
sarai da questo cuore: malanno per te molto amaro.
Se ciò che dici avvenne, avvenne perché lo volevo.
Ma ora siedi e taci, e a quello ch’io dico obbedisci,
perché correr non debbano invano a soccorrerti i Numi
tutti, se mai gittassi su te le invincibili mani».
Cosí disse; ed invase terrore la Dea dai grandi occhi,
e senza far parola sede’, reprimendo il suo cruccio;
e nella casa di Giove turbati rimasero i Numi.

Interviene Efesto a distendere gli animi e a mescere il vino


Ma prese Efèsto, d’arti maestro famoso, a parlare,
per sollevare sua madre, la Dea dalle candide braccia:
«Lutto e malanno sarà, che piú tollerar non si deve,
se voi siete cosí, per causa degli uomini, in lite,
ed eccitate la rissa fra i Numi. Dei dolci conviti
spenta sarà la gioia, se il peggio dovrà prevalere.
Onde io mia madre esorto, per quanto ella pure abbia senno,
che faccia quanto a Giove riesce gradito, ché il padre
crucciare non si debba di nuovo, e turbare il banchetto.
Perché, se mai volesse, l’Olimpio che i folgori avventa
ci scrollerebbe dai seggi, ché tanto è di noi piú gagliardo.
Ora, su via, tentate placarlo con molli parole,
e a tutti voi sarà benigno il signore d’Olimpo».
E cosí detto, e in piedi balzato, una gèmina coppa
porse alla madre cara, volgendole queste parole:
«Abbi pazienza, o madre, sopporta, se pure tu soffri,
ch’io con questi occhi mai veder non ti debba percossa:
sebbene tanto io t’amo, soccorrerti allor non potrei,
per quanto io mi crucciassi: ché duro è contender con Giove!
Anche quell’altra volta ch’io volli difenderti, a un piede
egli mi strinse, e giù mi scagliò dalla volta del cielo.
Rimasi un giorno intero per aria; e al tramonto del sole,
in Lemno caddi; e poco di spirito ancor mi restava:
la gente Sintia qui mi raccolse, dov’ero caduto»”.
Disse cosí. Sorrise la Dea dalle candide braccia,
e sorridendo prese la coppa che il figlio le offriva.
E, cominciando allora da destra, un dolcissimo vino
a tutti i Numi Efèsto mesce’, che attingea dal cratère;
e inestinguibile riso si sparse fra tutti i Celesti,
quando cosí nella sala lo videro tutto in faccende.
Dunque, tutto quel dí, sin che il Sole fu giunto al tramonto,
stettero a mensa, e niuno restò con la brama del cibo,
né della cetera bella che Apolline stesso sonava,
né delle Muse, che al canto spiegavan la voce soave.
E poi che fu sommersa la fulgida vampa del sole,
alla sua casa ognuno tornò dei Celesti, a dormire,
dove a ciascuno aveva costrutta la solida casa
l’inclito Efèsto, senno scaltrissimo ed agili braccia.
E Giove andò, l’Olimpio che i folgori scaglia, al suo letto
dove solea dormire, qualor lo vincesse il sopore.
Quivi dormiva; ed Era dall’aureo trono a lui presso.
Giove manda ad Agamennone un sogno ingannatore che lo invoglia ad attaccare i Troiani
Or, gli altri Numi, e i guerrieri maestri di carri, nel sonno
erano immersi. Solo per Giove il soave sopore
non discendeva: ché andava pensando in che modo potesse
fare ad Achille onore, distrugger gran copia d’Achivi,
presso alle navi. E questo gli parve il partito migliore:
ad Agamènnone Atríde mandar l’ingannevole Sogno.
E lo chiamò, gli volse cosí la veloce parola:
«Sogno ingannevole, va’ degli Achivi alle rapide navi.
Come alla tenda sarai d’Agamènnone figlio d’Atrèo,
a lui precisamente di’ tutto come io te lo impongo:
digli che faccia armare gli Achei dalle floride chiome,
senza verun indugio: ché adesso espugnare potranno
Troia, la bella città; perché dell’Olimpo i Signori
discordi piú non sono: che tutti convincerli seppe
Era, pregando; e lutti già incombono sopra i Troiani».
Disse. Ed il Sogno tosto partí ch’ebbe udito il comando,
e degli Achivi giunse ben tosto alle rapide navi,
e mosse verso il figlio d’Atrèo. Lo trovò nella tenda:
quivi giaceva l’eroe, circonfuso da dolce sopore.
Stie’ sul suo capo; e assunte le forme di Nèstore aveva,
cui venerava piú d’ogni altro vegliardo l’Atríde.
Simile a questo, dunque, cosí disse il Sogno divino:
«Dormi, figliuolo d’Atrèo, domator di corsieri prudente?
L’uomo a cui sono affidate le genti, che regge i consigli,
che tante cose cura, non deve dormir tutta notte.
Ora comprendimi presto: ché nunzio di Giove a te giungo,
che si dà cura di te, sebbene lontano, e si duole.
Egli t’impone che tu faccia armare gli Achivi chiomati,
senza verun indugio: ché adesso espugnar tu potrai
Troia, la bella città; perché dell’Olimpo i signori
discordi piú non sono, ma tutti convincerli seppe
Era, pregando; e lutti già incombono sopra i Troiani,
come vuol Giove. In mente tu físsati ciò ch’io ti dico,
né oblio te colga, quando vanisca il dolcissimo sonno».
E cosí detto, andò lontano, lasciando l’Atríde
a vagheggiare ciò che compiersi poi non doveva:
ch’egli sperava quel giorno la rocca espugnar dei Troiani,
stolto!, e ignorava ciò che nel cuore volgeva il Croníde:
ché doglie ancora, ancora doveva negli aspri cimenti
infligger pianti il figlio di Crono agli Achivi e ai Troiani.
Dal sonno si destò che ancora la voce divina
sonava a lui d’attorno. Levato, sede’ sul giaciglio;
poscia indossò la tunica fulgida bella, ed il manto
cinse su quella, legò sotto i piedi i leggiadri calzari,
gittò sopra le spalle la spada dai chiovi d’argento,
prese lo scettro del padre, lavoro immortale d’Efèsto,
ch’esso impugnava quando movea fra le navi e le schiere.
Agammennone convoca prima l’assemblea degli anziani e dei re; racconta il sogno e le sue intenzioni.

Già la divina Aurora le vette ascendeva d’Olimpo,
per annunciare a Giove la luce, ed agli altri Immortali,
quando agli araldi, voci canore, diede ordin l’Atríde
che a parlamento chiamasser gli Achei dalle floride chiome.
Fecero quelli il bando, gli Achei si adunarono in fretta.
Prima il consiglio tenne dei vecchi, magnanimi cuori,
presso la tenda del re di Pilo, di Nestore saggio.
E favellò, poi che li ebbe raccolti, avvedute parole:
«Amici, udite: un Sogno celeste a me giunse nel sonno,
nella divina notte, che a Nestore uguale agli Olimpi
simile proprio in tutto sembrava, di volto e di forme.
Stette sul capo mio, mi volse cosí la parola:
«Dormi, figliuolo d’Atrèo, domator di corsieri prudente?
L’uomo a cui sono affidate le genti, che regge i consigli,
che tante cose cura, non deve dormir tutta notte.
Ora, comprendimi presto: ché nunzio di Giove a te giungo,
che si dà cura di te, sebbene lontano, e si duole.
Egli t’impone che tu faccia armare gli Achivi chiomati,
senza verun indugio: ché adesso espugnare potrai
Troia la bella città; perché dell’Olimpo i Signori
discordi piú non sono, ma tutti convincerli seppe
Era, pregando; e lutti già incombono sopra i Troiani,
come vuol Giove. In mente tu fíggiti ciò ch’io ti dico».
Ciò detto, a volo sparve: da me fuggí pure il sopore.
Dunque, su via, vediamo se a guerra eccitiamo gli Achivi.
Prima io li tenterò, ché il meglio mi par, con parole,
comanderò che a fuga si volgan le rapide navi;
e voi, chi qua, chi là, tratteneteli allor con parole».
Come ebbe detto ciò, sedette; e fra loro a parlare
Nestore surse, ch’era sovrano di Pilo arenosa.
Questi, pensando al bene di tutti, parlava, e diceva:
«Amici miei, che siete condottieri e re degli Argivi,
se degli Achei ci avesse tal sogno narrato alcun altro,
lo crederemmo un inganno, saremmo da lui ben discordi.
Ma visto ha quei ch’à vanto di primo fra tutti gli Achivi.
Dunque, vediamo se a guerra possiamo eccitare le schiere».
Poi ch’ebbe detto cosí, s’avviò per uscir dal consiglio.
Agamennone mette alla prova i suoi uomini lasciandogli pensare che sia meglio ritirarsi
E, surti anch’essi, i re scettrati, al pastore di genti
diedero ascolto. Ed ecco, si misero in moto le turbe.
Come le stirpi vanno dell’api a fittissime schiere
sui fior’ di primavera, volando, e di grappoli han forma,
e queste vanno qui svolazzando a gran sciami, lí quelle:
cosí le fitte schiere d’Achei, dalle navi e le tende
si raccoglievano in file, lunghessa la spiaggia profonda,
a parlamento, in frotte. Ardeva fra loro una voce
che li spingeva, aralda di Giove; e movevano tutti.
Sconvolto era il consiglio, la terra sonava, calpesta
dalle accorrenti schiere, tutto era frastuono. E coi gridi
nove tentavan araldi frenarli, se tregua al clamore
porre volessero, e udire di Giove gli alunni, i sovrani.
Stettero infine le turbe, rimasero immote sui seggi,
ogni clamore cessò. Surse allora Agamènnone, il sire
grande; e reggeva in pugno lo scettro foggiato da Efèsto.
L’aveva Efèsto a Giove figliuolo di Crono donato;
e Giove al Nume ch’Argo trafisse, che l’anime guida,
a Ermète: Ermète al re, di cavalli maestro lo diede
Pèlope: Atrèo, pastore di genti, da Pèlope l’ebbe:
morendo, Atrèo lo diede al ricco di greggi Tieste:
ad Agamènnone infine lo lasciò, da portarlo, Tieste,
segno sovra Argo tutta d’imperio, e sovra isole molte.
Poggiato a questo, dunque, cosí favellava agli Argivi:
«Dànai guerrieri, a me diletti, seguaci di Marte,
Giove figliuolo di Crono m’avvinse ad un tristo destino,
che mi promise, crudele, convenne col cenno del capo
ch’io la città di Troia prendessi, e tornassi alla patria;
ed ora un tristo inganno mi tese, e m’impone che ad Argo
dopo che tanta gente perdei, senza gloria ritorni.
Turpe di certo parrà anche ai posteri, quando l’udranno,
che tale e tanta turba d’Achivi abbia invano pugnato,
abbia condotto una guerra che priva di frutto rimase,
contro piú scarsa gente: ché il fine tuttor non si vede.
Perché, se un fido patto volessimo Achivi e Troiani
giurar di tregua, e poi contar quanti siam gli uni e gli altri,
e s’adunassero quanti guerrieri hanno in Troia dimora,
e invece tutti noi ci adunassimo in gruppi di dieci,
e ciascun gruppo eleggesse, per mescere vino, un troiano,
certo dovrebbe a molte diecine mancare il coppiere:
tanto, io vi dico, i figli d’Acaia son piú dei Troiani
ch’abitan d’Ilio dentro la rocca. Ma in loro soccorso
uomini giunser da molte città, vibratori di lancia,
che me tengon lontano, né lascian, quantunque lo brami,
ch’Ilio espugnare io possa, la rocca di popol frequente.
Nove anni sono già di Giove possente trascorsi,
fradicio il legno è già delle navi, marcite le funi,
le nostre spose, i figli che ancora non sanno parlare
dentro le case stanno, ci attendono; e l’opera nostra
cosí resta incompiuta, per cui siamo a Troia venuti.
Ora, su dunque, tutti facciamo cosí come io dico:
sopra le navi fuggiamo, torniamo alla patria diletta,
ché mai Troia dall’ampie contrade espugnare potremo».
Cosí disse; ed a tutti commosse lo spirito in seno,
a tutti della turba, che nulla sapean del consiglio.
E l’assemblea s’agitò, come i gran cavalloni del mare,
quando nel Ponto Icario li scuote con Èuro Noto
che sovra loro piombò, dalle nubi del figlio di Crono.
Come se Zefiro un campo di biade profonde sconvolge,
impetuoso spirando, che tutte s’inclinan le spighe:
tutta cosí s’agitava la folla; e con alto clamore
verso le navi correvano; e polvere in alto sorgeva
di sotto ai piedi loro. Andava l’un l’altro esortando
di prendere le navi, di spingerle al mare divino:
purgavano i fossati, traevan di sotto i puntelli,
per il desio del ritorno: salivano al cielo le grida.
Era manda Atena a fermare gli Achei che corrono alle navi per tornare a casa. Atena manda Ulisse a parlare alle truppe per convincerli a tornare a combattere
 
E qui, contro il destino, tornavano in patria gli Achivi,
se non avesse cosí detto Era divina ad Atena:
«Ahimè!, di Giove, re dell’ègida, indomita figlia,
dunque gli Argivi cosí fuggiranno alle case, alla cara
terra paterna, sopra la stesa del mare infinito,
e lasceranno, vanto per Priamo, per tutti i Troiani,
Elena argiva, per cui, sottesse le mura di Troia,
caddero tanti Achei lontani alla patria diletta!
Scendi alle schiere, su via, degli Achei dall’usbergo di bronzo,
ad uno ad uno tutti trattieni con blande parole,
e non lasciar che in mare trascinin le rapide navi».
Disse cosí; né fu tarda la Diva degli occhi azzurrini,
ma si lanciò, discese dai vertici sommi d’Olimpo,
velocemente raggiunse le rapide navi d’Acaia.
E Ulisse qui trovò, che a Giove era uguale nel senno,
fermo: ché pur toccata la negra sua solida nave
ei non avea: ché cruccio gli empieva lo spirito e il cuore.
Gli stette accanto, e disse la Diva dagli occhi azzurrini:
«Figlio divin di Laerte, Ulisse dai molti laccioli,
vi gitterete dunque cosí nelle rapide navi,
ritornerete cosí di nuovo alla casa, alla patria,
e lascerete, vanto per Priamo e per tutti i Troiani,
Elena Argiva, per cui, sottesse le mura di Troia,
caddero tanti Achivi, lontani alla patria diletta?
Non esitare, muovi, su via, fra le genti d’Acaia,
ad uno ad uno tutti trattieni con blande parole,
e non lasciar che in mare trascinin le rapide navi».
Cosí diceva. Ulisse conobbe la voce d’Atena.
Corse, ed il manto gittò lontano da sé: lo raccolse
Euríbate itacense, l’araldo che ognor lo seguiva.
Ed egli venne ov’era l’Atride Agamènnone; e tolse
lo scettro a lui, paterno retaggio, di tempra perenne.
E quello in pugno stretto, movea fra le navi d’Acaia,
E quando alcuno, o re, trovasse, od insigne guerriero,
gli si faceva presso, con blande parole, a frenarlo:
«Bennato, oh!, non conviene che tu fugga, al pari d’un tristo:
anzi, fermare ti devi, e indurre a fermarsi le turbe.
Perché tu non sai bene qual è dell’Atríde il disegno:
ora alla prova mette gli Achei; ma già pronto è il castigo.
Non tutti quanti udimmo quanto egli dicea nel consiglio:
vedi che in ira non salga, che danno non rechi agli Achivi:
pericolosa è l’ira dei principi alunni di Giove,
ché l’onor loro da Giove proviene, ché a Giove son cari».
Se alcuno poi del volgo vedea, lo coglieva che urlasse,
lo percotea con lo scettro, diceva, levando la voce:
«Férmati, maledetto, da’ retta ai consigli degli altri
che valgon piú di te, che sei senza forza ed imbelle,
e che non conti nulla, né in guerra, né a dare consigli.
Re non saremo, no, quanti Achivi qui siamo: ché un bene
non è, no, quando molti comandano: un solo il signore,
uno il re sia, quei ch’ebbe dal figlio di Crono lo scettro».
Cosí, come un sovrano correva pel campo; e di nuovo
la gente in assemblea s’adunò, dalle navi e le tende,
con alta romba, come se il flutto del mare sonante
sopra una spiaggia grande s’avventa, e il ponto rimbomba.
Stavano dunque gli altri, restavano fermi ai lor seggi.
Tersite non vuole combattere e accusa Agamennone
Solo Tersíte ancora gracchiava parole importune.
Piena la mente aveva costui di propositi goffi,
per leticare coi re, senza garbo, ma come pur fosse,
solo ch’ei presumesse che rider potesser gli Argivi.
Era l’uomo piú brutto venuto all’assedio di Troia:
era sbilenco, storto d’un piede, le spalle curvate
indentro, verso il petto: di sopra a le spalle, la testa
sorgeva aguzza, e sopra spuntava una rada peluria.
Inviso era costui su tutti ad Achille e ad Ulisse,
ch’egli insultava sempre. Ma contro Agamènnone allora
ei con acute grida l’ingiuria avventava; e gli Achivi
erano contro lui già pieni di cruccio e di sdegno.
Esso, con alti strilli, copriva d’ingiurie l’Atríde:
«Atríde, e di che altro ti lagni? Che altro ti manca?
Son le tue tende piene di bronzo, son piene di donne,
tante, le piú vezzose, che a te date abbiamo per primo
noialtri Achivi, quando cadea qualche rocca nemica.
Forse hai bisogno ancora dell’oro che alcun dei Troiani
ti porti dalla rocca di Troia, a riscatto del figlio
che io t’avrò condotto legato, o qual sia degli Achivi?
O d’una giovinetta, che tu te la goda in amore,
che te la tenga in disparte per te? Non dovrebbe un sovrano
spingere in tanto abisso di mali i figliuoli d’Acaia!
Bordaglia, gente frolla, Achivi non piú, bensí Achive,
sopra le navi a casa torniamo, e lasciamo costui
che digerisca in Troia i doni ch’egli ebbe; e che veda
se noi di qualche aiuto gli siamo, oppur no. Ché pur ora
Achille egli privò d’onore, che tanto migliore
era di lui, per forza gli tolse il suo dono, e lo tenne.
Ma pure Achille, no, non ha fegato, è un cuore infingardo;
se no, questo era, figlio d’Atrèo, per te l’ultimo giorno».
Queste parole Tersíte diceva, a insultare l’Atríde.
Ulisse rimprovera Tersite e lo picchia
Ma presto a lui vicino Ulisse divino si fece,
e bieco lo guardò, lo investí con amare parole:
«Tersíte, ch’ài pur voce squillante, ma sciocca parola,
chétati, e non volere, tu solo, rissare coi prenci.
Io dico che di te non c’è verun uomo piú tristo
fra quanti son venuti sotto Ilio, col figlio d’Atrèo.
Perciò non ti sciacquare la bocca, parlando dei prenci,
non li coprire d’ingiurie, cercando che a casa si torni.
Noi non sappiamo bene che fine avrà questa ventura,
se bene oppure è male che tornino i figli d’Acaia.
Ma questo ora ti dico, che certo compiuto vedrai:
se ancor ti troverò, che tu faccia, come ora, lo stolto,
piú rimanere non debba sul tronco ad Ulisse la testa,
niuno mi debba piú chiamar di Telèmaco padre,
se io non ti ghermisco, ti strappo di dosso le vesti,
la tunica e il mantello, con cui le vergogne nascondi,
e ti rimando cosí, piangente, alle rapide navi,
lungi dall’assemblea, segnato di sconce percosse».
Detto cosí, gli vibrò su le spalle e la schiena lo scettro.
E quegli si curvò, gli sgorgarono lagrime fitte,
e un livido sanguigno gli apparve sul dorso, pel colpo
dell’aureo scettro; e giú sedette sgomento, nicchiando,
volgendo attorno l’occhio smarrito, tergendosi il pianto.
Ma risero di cuore, sebbene crucciati, gli Achivi:
e si guardavano, e andavano l’uno con’l’altro dicendo:
«Càspita, mille gesta mirabili Ulisse ha compiute,
vuoi nei consigli, vuoi guidando le schiere a battaglia;
ma questo è certo il fatto piú insigne ch’egli abbia compiuto,
ché mise a posto questo maledico senza vergogna.
Piú non lo spingerà davvero il cuor suo temerario
ad inveir contro i re, con tante parole d’obbrobrio».
Ulisse convince gli Achei che è giusto continuare la battaglia
Cosí dicea la folla. E Ulisse, di rocche eversore,
stette impugnando lo scettro. E Atena occhi glauca, a lui presso,
forma d’araldo assunta, silenzio imponeva alle turbe,
perché le prime file e l’ultime insiem degli Achivi
le sue parole udite, ponessero mente al consiglio.
Ed ei, pensando al bene, parlò, disse queste parole:
«Atríde, ora davvero, signore, ti voglion gli Achivi
rendere il piú biasimato fra quanti sono uomini al mondo,
né la promessa mantengon, che pure ti fecero un giorno,
quando dal suolo d’Argo qui vennero teco, che solo
dopo distrutta Troia ritorno faresti alla patria!
Al pari ora di nuovi fanciulli, di vedove al pari,
piangono l’uno con l’altro, che vogliono a casa tornare.
Certo si può, pel lungo fastidio, bramare il ritorno:
ché pur chi resta un mese soltanto lontan da la sposa,
sui banchi della nave si angustia, se mai le procelle
del verno, e il mar che i flutti levò, lo trattengono lungi;
e noi, sono di già nove anni, col volger del tempo,
che rimaniamo qui: non biasimo quindi gli Achivi,
quando si cruccian presso le navi ricurve; ma turpe
è, con le mani vuote tornar dopo indugio sí lungo.
Pazienza, amici miei; restate anche un po’, che si sappia
se vere cose il vate Calcante predisse, oppur false.
Ché questo noi sappiamo di certo, e attestar lo potete
ben voi, quanti rapiti non foste dall’avide Parche.
E ieri fu, ier l’altro! Convennero in Aulide i legni
d’Acaia, che malanni portavano a Priamo e ad Ilio.
E noi, sopra gli altari, vicini ad un’acqua sorgiva,
immolavamo ai Signori d’Olimpo perfette ecatombi,
sotto un bel platano, donde sgorgava purissima l’acqua.
Quivi un portento apparve: un drago dal dorso sanguigno,
orrido: Giove stesso l’aveva sospinto alla luce.
Balzò di sotto l’ara, strisciò verso il platano. Quivi
erano i teneri figli d’un passero, ancor senza voce,
sopra l’estremo ramo, nascosti nel fitto fogliame:
otto eran essi; e nove la madre dei piccoli alati.
Tutti li divorò, che gemevan con pígolo triste.
E svolazzava ai figli d’intorno, la madre, e piangeva.
Snodò le spire il drago, la strinse, fra i lagni, ad un’ala.
Ma quando ebbe cosí divorati i figliuoli e la madre,
il Dio che spinto a luce l’avea, di lui fece un prodigio:
ché lo converse in pietra, di Crono il saggissimo figlio.
Meravigliati noi stavamo di tale portento;
e poi ch’ebbe il prodigio turbate le sacre ecatombi,
súbito prese a parlare Calcante profetici detti:
«Perché restate, Achei dalla florida chioma, in silenzio?
Questo prodigio a voi mostrava il saggissimo Giove,
che tardo effetto avrà, ma significa gloria immortale.
Come vorato ha il drago con otto pulcini la madre,
e nona fu la madre che dati li aveva alla luce,
cosí nove anni noi dovremo trascorrere in guerra,
e prenderemo la rocca di Troia nel decimo». Questo
disse Calcante; e tutto com’egli ci disse, or si compie.
Su dunque, tutti, Achei dai vaghi schinieri, restate,
finché non sia la grande città dei Troiani espugnata».
Anche Nestore parla in favore del proseguimento della battaglia
Cosí disse. E grandi urli levaron gli Argivi; e le navi
terribilmente intorno sonavan, percosse dai gridi,
mentre plaudivan gli Achei le parole di Ulisse divino.
Nèstore poi, cavaliere gerenio, cosí prese a dire:
«Ahimè! nell’adunanza se voi favellate, sembrate
simili a sciocchi bambini, che nulla s’intendon di guerra.
Or, dove sono andati per voi giuramenti e promesse?
Vadano al fuoco disegni, consigli degli uomini, e patti
e libagioni, e strette di mano, in cui fede si aveva:
ch’or disputiamo qui con inutili ciance, e trovare
via non sappiam di salvezza, da tanto che pur siamo in campo
Atríde, anche ora tu, come prima, incrollabile serba
il tuo disegno, e guida gli Argivi alle pugne crudeli;
e manda alla malora, ché tanto niun séguito avranno,
quest’uno o due che dànno consiglio, né approvan gli Achivi,
che si ritorni ad Argo, né qui si rimanga, a cercare
se il vero o il falso a noi promise l’egíoco Giove.
Ché fausto cenno diede, mi sembra, il figliuolo di Crono,
quel dí che su le navi dal corso veloce, gli Argivi
ascesero, la Parca recando ai Troiani, e la morte.
Da destra ei folgorò, ci die’ questo cenno d’augurio.
Perciò, niuno abbia fretta di fare ritorno alla patria,
pria che non abbia ciascuno la sposa di alcun dei Troiani,
a vendicare i travagli sofferti per Elena, e i pianti.
Ma pur, se troppo fiera taluno pungesse la brama
di ritornare in patria, può mettere in mar la sua nave,
sicché prima degli altri pervenga al suo fato e a la morte.
Dunque, consígliati bene, né d’altri spregiare il consiglio,
o re: da gittar via non mi pare che sia ciò ch’io dico.
Dividi per tribù, per genti, l’esercito, o Atride,
sí che tribù e tribù s’assista, parente e parente.
Se tu cosí farai, se ascolto gli Achei ti daranno,
presto conoscerai, fra i duci e fra tutte le genti,
prode chi sia, chi dappoco: ché andremo distinti alla pugna.
Anche vedrai se alla presa di Troia si oppongono i Numi,
oppur viltà di gente, che ignori il mestier della guerra».
Agamennone scioglie l’assemblea e tutti vanno a pranzare e fare preghiere e sacrifici
E a lui queste parole rispose Agamènnone prode:
«Nella parola, davvero, gli Achei tutti superi, o vecchio!
Deh!, Giove padre, e Atena, figliuola di Giove, ed Apollo,
dieci altri pari a te consiglieri nel campo io m’avessi!
Presto, dico io, la città di Priamo dovrebbe crollare,
da noi presto, dico io, dovrebbe cadere espugnata.
Giove Croníde, invece, dell’ègida re, mi tormenta,
che in mezzo a vane risse mi gitta, ed a vani litigi.
Ché abbiamo, Achille ed io, per una fanciulla, conteso
con vïolente parole, né io fui secondo all’offesa.
Ma, se concordi ancora saremo, schivare il malanno
Troia più non potrà, neppure per poco. A banchetto
ora si vada, e poi s’impegni la zuffa. Alla lancia
ciascuno il filo dia, metta bene in assetto lo scudo,
nutrichi bene i suoi cavalli dal piede veloce,
bene esamini il cocchio, pensando che muove a la pugna.
Perché l’intero di misurarci dovremo in battaglia,
perché non ci sarà respiro, neppure un momento,
pria che a spartir la furia degli uomini giunga la notte.
Il bàlteo gronderà di sudore sul petto a più d’uno
dell’alto scudo, stanca sarà sopra l’asta la mano,
ansimerà sotto il carro tornito a più d’uno il cavallo.
Ma chi vedrò che lungi tenere si vuol dalla pugna,
e rimanere presso le navi ricurve, di certo
credo che non potrà sfuggire agli uccelli ed ai cani».
Cosí disse; e gli Achei strepitarono, simili a un flutto
sopra una eccelsa spiaggia, se Noto, giungendo, lo spinge,
contro uno scoglio sporgente, cui mai non disertano l’onde
spinte da tutti i venti che giungon da un lato o dall’altro.
E, surti in piedi, sparsi si mossero verso le navi,
presso le tende il fuoco accesero, e fecero il pranzo.
Chi l’uno, poi, chi l’altro pregava dei Numi, che scampo
da morte e da ferite gli desse, ed offria sacrifizi.
Quindi, Agamènnone, re di genti, immolava un gran bove,
pingue, che aveva cinque anni, di Crono al possente figliuolo,
e i vecchi a sé chiamava, e i primi di tutti gli Achivi.
Nèstore primo di tutti chiamava, ed il sire Idomène,
e l’uno e l’altro Aiace dopo essi, e il figliuol di Tidèo,
e quindi, sesto, Ulisse, che i Numi uguagliava nel senno:
venne da sé Menelao, possente nell’urlo di guerra.
Stettero al bove intorno, poi l’orzo recarono sacro.
E questa prece levò tra loro Agamènnone grande:
«Giove che i nugoli aduni, che abiti l’ètra, di gloria
sommo e di possa, il sole non cada, e non giunga la notte,
prima ch’io prono al suolo non gitti di Priamo il tetto
fumido, e il fuoco infesto non spiri sovresse le porte,
e d’Ettore sul petto non squarci la tunica a brani
con la mia spada, e a lui d’intorno, procombano a terra
molti compagni, e proni, la polvere mordan coi denti».
Cosí diceva. E Giove compiuti non volle i suoi voti,
ma, ricevute le offerte, per lui crebbe ancóra i travagli.
Com’ebber poi pregato, cosperse le vittime d’orzo,
alte le gole a quelle levando, v’immersero il ferro;
poi le scoiaron, tagliaron le cosce, le avvolser d’omento
a doppio strato, sopra vi poser minuzzi di carne.
Misero il resto, poi, su rami sfrondati, a bruciare,
e, negli spiedi infitte l’entragne, tenean su la fiamma.
Poi, quando furono arse le cosce, e gustate l’entragne,
fecero a brani il resto, l’infissero negli schidioni,
e l’arrostiron con cura, levaron poi tutto dal fuoco.
Cessata che fu poi la fatica, e allestita la mensa,
qui banchettarono; e niuno restò con la brama del cibo.
Gli Araldi chiamano gli Achei alla guerra; elenco dei guerrieri

E poi che fu bandita la brama del cibo e del vino,
Nèstore, di cavalli maestro, cosí prese a dire:
«Sommo fra i re, coperto di gloria Agamènnone Atríde,
qui non si resti, a fare le solite ciance, né a lungo
più si rimandi l’opra che compiere un Dio ci consente.
Lungo le navi, su via, degli Achei loricati, le turbe
raccolgano gli araldi, levando a gran voce l’appello,
e noi, stretti cosí, moviam per l’esercito achivo,
sí che possiamo più presto levare la furia di guerra».
Nèstore disse cosí, né fu sordo Agamènnone ai detti.
Súbito comandò che gli araldi di voce canora
chiamassero alla guerra gli Achei dalle floride chiome.
Questi lanciaron l’appello, fûr quelli ben presto raccolti.
E i re, di Giove alunni, raccolti d’intorno all’Atride,
li disponevano, pieni d’ardore; ed Atena fra loro,
l’ègida sacra immune da morte o vecchiezza, reggeva.
Ben cento fiocchi ad essa d’intorno svolazzano, tutti
con grande arte intrecciati, che valgono ognun cento bovi.
Movea con questa, tutta raggiante di luce, pel campo,
ed eccitava gli Achivi. Nel seno a ciascuno infondeva
forza, ché senza posa lo scontro affrontasse, e la zuffa:
sí che la guerra ad essi piú dolce sembrò, che tornare
alla diletta patria, sovresse le fulgide navi.
Come arde un fuoco, tutto struggendo, un’immane foresta
sopra le vette d’un monte, che lungi si vede la fiamma:
cosí, movendo quelli, da mille armature sprizzava
un folgorio, che il lampo spandeva per l’ètere al cielo.
E come fitti stormi d’augelli si librano a volo,
d’oche, di gru, di cigni dall’agile collo, nei prati
d’Asio fiorenti, o dove fiorisce il Caístro, e superbi
delle lor penne, vanno di qua, di là svolazzando,
poi con alto schiamazzo si posano, e il prato rimbomba:
cosí le fitte file d’Achei, verso il pian di Scamandro
si riversavan, da navi, da tende; ed orrendo levava
la terra, sotto il pie’ dei cavalli e dei fanti, un rimbombo.
E simiglianti a sciami, che brulican fitti, di mosche,
che dei pastori vanno girando qua e là pei tuguri,
a primavera, quando riboccano i secchi di latte:
tanti, contro i Troiani, gli Achei dalle floride chiome,
stavano fermi al piano, bramosi di guerra e sterminio.
E come i pecorari le mandre di capre sbandate,
che fûr nella pastura confuse, distinguono presto:
cosí di qua di là li andavano i duci ordinando
per la battaglia. E in mezzo moveva Agamènnone prode,
che somigliava a Giove possente nel capo e negli occhi,
nella cintura a Marte, nel petto al Signore del mare.
E come un toro va distinto fra tutta la greggia,
ch’egli spicca fra quante giovenche gli sono d’intorno:
tale sembianza diede quel giorno il Croníde all’Atríde,
ch’egli fra tutti eccellesse, distinto fra tutti gli eroi.
Ditemi adesso, o Muse che avete dimora in Olimpo,
che Dive siete a tutto presenti, che tutto sapete,
e noi la fama udimmo soltanto, ma nulla vedemmo,
ditemi i prenci dei Dànai, che a guerra guidavan le schiere.
Di certo io non potrei dire il numero e il nome di tutti,
neppur se dieci lingue, neppur se avessi io dieci bocche,
ed una voce che mai non si spezza, ed un cuore di bronzo,
se pur le Olimpie Muse, le figlie di Giove possente,
non mi vorranno a memoria tornar quanti vennero in Ilio;
ma pur dei legni i duci, dirò tutti quanti, e le navi.
Erano dei Beoti signori Penèlëo, Lito,
Arcesilao, Protoènore, Clonio; ed i loro compagni
Iria abitavano, e il suolo roccioso d’Àulide, e Scino,
e Scòlo, ed Eteòne, coperto di valli e di selve,
e Tespia, e Micalesso dall’ampie contrade, ed Ilesio,
e Graia; ed altri ad Arma d’intorno abitavano, a Erítra,
altri Eleóna poi tenevan, Petèone ed Ila,
con Medeòna, città di solide mura, Ecalía,
e Copa, Eutrèsi, e Tisbe, nutrice di tante colombe:
altri, ancora, Alïarte, di pascoli ricca, e Platèa
tenevan, Coronèa: Glisanta abitavano questi,
e quegli altri Ipotèbe, città dalle solide mura,
e Onchèsto sacra, ov’è di Posídone il fulgido bosco:
altri abitavano Arne di grappoli ricca, e Midèa,
Nisa la sacra, e Antèdo, che sorge agli estremi confini.
Cinquanta eran venuti dei loro navigli: in ciascuno
erano centoventi venuti guerrieri Beoti.
Quelli poi che abitavano Asplèdone e Orcòmeno minio,
avean duci Ascalàfo e Iàlmeno, figli di Marte,
cui generati aveva Astíoche, pura fanciulla,
d’Àttore, figlio d’Azèo nella casa: ché Marte possente,
nelle superbe stanze, di furto l’aveva sedotta.
Le schiere dei Focesi guidavano Epístrofo e Scedio
d’Ìfito figli, prole di Nàubole, cuore animoso,
che Ciparísso e Pitona rocciosa abitavano, e Crisa,
città santa fra tutte, con Dàulide, con Panopèa;
ed altri Anemorèa tenevano e Iàmpoli; ed altri
vivean presso le dive correnti del fiume Cefiso,
ed altri del Cefiso sovresse le fonti, a Lilaia.
Eran quaranta negri navigli venuti con essi.
Or dei Focèi le schiere mettevano in ordine i duci,
presso ai Beoti, al lato mancino, già pronte alla pugna.
Guidava i Locri Aiace, veloce figliuol d’Oilèo:
era minore d’Aiace, figliuol di Telàmone, molto
minore: piccolo era, di lino un corsale indossava;
ma con la lancia tutti gli Achei superava, e gli Ellèni.
I Locri, dunque, Cino, Callíaro abitavano, e Bessa,
Scarfa, Opoenta e Augeia ridente, con Tarfa e con Tronio,
e presso le correnti del fiume Boagrio. Con lui
venuti erano insieme quaranta navigli dei Locri,
che dirimpetto all’Eubèa dimorano, all’isola sacra.
Ed i signori d’Eubèa d’ardire frementi, gli Abanti,
e quei ch’Eretria ricca di grappoli, e Calcide e Istièa,
Cerinto, ch’è, sul mare, scosceso castello di Giove,
e quelli di Caristo, e quelli che tengono Stura,
era Elefènore duce di tutti, rampollo di Marte,
di Calcodonte figlio, signor dei magnanimi Abanti:
e seco eran venuti gli Abanti, veloci, chiomati,
di lancie vibratori gagliardi, anelanti a spezzare
gli usberghi sovra i petti nemici coi frassini tesi.
Quaranta negre navi seguíto l’avevano a Troia.
E quelli ch’abitavan d’Atene la solida rocca,
la terra d’Erettèo magnanimo, a cui nascimento
diede la fertile zolla, e Atena divina lo crebbe,
ed in Atene, nel ricco suo tempio, signore lo pose;
e quivi agnelli e tori, per renderlo ad essi propizio,
ad ogni volger d’anno gl’immolano i figli d’Atene.
Era lor condottiere Menèsteo, figlio di Pitio.
Niuno, fra quanti sono terrestri, con lui contendeva
nell’ordinare alla pugna cavalli né uomini armati.
Nèstore solo con lui gareggiava; ma d’anni più grave.
Cinquanta negre navi seguito l’avevano a Troia.
Da Salamina, Aiace giunto era con dodici navi;
e collocò le schiere dov’eran le schiere d’Atene.
E quei ch’Argo e Tirinto tenevano cinta di mura,
ed Ermïone ed Asíne, costrutte sul golfo profondo,
ed Epidauro, ricca di vigne, ed Eione e Trezène,
e quei figli d’Acaia che avevano Egina e Maseta,
guidati eran costoro dal prò’ Dïomede, e dal caro
figlio di Capanèo famoso, da Stènelo; e terzo
Euríalo iva con essi, l’eroe che sembrava un celeste,
figlio di Mecistèo sovrano, figliuol di Telone.
Ma tutti quanti poi guidava il guerrier Dïomede;
e ottanta negre navi seguíti li avevano a Troia.
E quei che di Micene tenevan la solida rocca,
e l’opulenta città di Corinto, e la bella Cleòna,
e quelli che abitavan la vaga Aretíre, ed Ornèa,
e Sicïone, ond’ebbe Adrasto per primo lo scettro,
e quelli d’Iperèsia, con quelli de l’alta Gonessa
e di Pellène, e quelli che intorno abitavano ad Egio,
sopra l’Egíafo tutto, e ad Èlica vasta d’intorno.
Cento navi di questi guidava Agamènnone, il figlio
d’Atrèo possente: seco le genti piú fitte e piú prodi
eran venute; e, chiuso nel fulgido bronzo, fra loro
ei primeggiava, e andava distinto fra tutti gli eroi,
ch’era il piú prode, e aveva con sé maggior copia di genti.
Ed altri ne mandò Lacedèmone cinta di balze
concave, e Fari, e Sparta, e Messène, città di colombe.
Ed altri da Brisèa, dall’amabile Augèa, dalla rocca
d’Elo venian, ch’eccelsa si leva sul mare, e da Amícla;
e questi Laia, quelli tenevano d’Òitilo i campi.
A questi Menelao, fratel dell’Atríde, era duce:
avean sessanta navi. S’armarono tutti in disparte.
Movea fra loro il duce, sicuro nel proprio coraggio,
e li spingeva alla zuffa: ché il cuore gli ardeva di brama
di vendicare le smanie patite per Elena, e i crucci.
E quei che aveano in Pilo soggiorno, e in Arène la bella
e in Àipo ben costrutta, e in Trio, sul passaggio d’Alfeo,
e quei d’Amfigenía, di Ciparissenta, di Ptelio,
e quei d’Elo, e di Dorio, là dove le Muse, incontrato
Tamíri, il tracio vate, che qui dalla casa d’Euríto
d’Oïcalía giungeva, sul labbro gli spensero il canto,
perché vantato s’era che vinta egli avrebbe la gara,
pure se avesser cantate le Muse figliuole di Giove.
Esse, adirate, cieco lo resero, e il canto divino
tolsero a lui, della cetra scordare gli fecero l’arte.
Nèstore a questi era duce, gerenio signor di corsieri:
novanta cavi legni per lui si schieravano in mare.
Quanti occupavano, ai pie’ di Cillène, l’eccelsa montagna,
d’Èpito presso alla tomba, l’Arcadia che madre è di genti,
prodi a pugnar faccia a faccia, e quelli d’Orcòmeno, madre
di greggi, e quei di Ripe, di Stratia, d’Enispe ventosa,
e quei che Mantinèa la bella, e abitavan Tegèa,
e Stíntalo occupavano, aveano dimora in Parrasia:
era Agapènore, figlio d’Ancaio, di questi signore.
Avea sessanta navi: salivano dentro ciascuna
molti campioni d’Arcadia, maestri nell’arte di guerra.
Aveva dato a loro l’Atríde signore di genti,
per traversare il mare, le navi dai solidi banchi;
poiché gli Arcadi nulla sapean delle cose di mare.
Quelli poi che Buprasio tenevano, e l’Èlide sacra,
per tutta quanta la terra che in mezzo racchiudon fra loro
la rupe Olenia, Alisio, e Irmína con Mírsino estrema,
aveano quattro duci: seguiti a ciascuno di questi
erano dieci navi: fittissimi v’erano ascesi
gli Epèi guerrieri. Agli uni duci erano Anfímaco e Calpio,
quello di Ctèato, questo figliuolo d’Eurito, nipoti
d’Àttore entrambi: agli altri duce era il figliuol d’Amarinco,
Dïore prode: guidava Polísseno simile ai Numi
la quarta schiera, il figlio d’Agàrteno, figlio d’Augèa.
E quei che da Dulichio veniano, e dall’isole sacre
Echíne, ch’oltre mare si levano, all’Elide contro,
era lor duce Mege, che tanto valea quanto Marte,
figliuolo di Filèo, cavaliere diletto ai Celesti,
che un giorno, irato al padre, veniva colono a Dulichio.
Quaranta negre navi seguíto l’avevano ad Ilio.
Ed ecco, i Cefalleni magnanimi Ulisse guidava,
ch’Itaca aveano a stanza, e il Nèrito ondante di frondi,
e quei che Crocilèa tenevano, e l’aspra Egilípa,
e quelli di Zacinto, con quei che abitavano Samo,
e quei del continente, e quei della costa di fronte.
Duce era a questi Ulisse, che Giove uguagliava nel senno;
e dodici con lui navigli di guance rossastre.
Era Toante, figlio d’Andrèmone, agli Ètoli duce,
che avevano in Pleurona dimora, e in Olèno, e in Pilène,
in Calidone pietrosa, in Càlcide, al pelago presso.
Chè vivi più d’Oinèo cuor grande non erano i figli,
e morto era egli stesso, Meleàgro biondo era morto:
sicché Toante aveva degli Ètoli tutti l’impero.
Quaranta negre navi seguito l’avevano a Troia.
Idomenèo, maestro di lancia, era duce ai Cretesi,
quei che abitavano Cnoso. Gortina recinta di mura,
Litto, Mileto, Licasto che brilla di bianco calcare,
e Festo, e Ritio, entrambe città popolose, e molti altri,
che per le cento città di Creta vivevano. Ad essi
duce era Idomenèo guerriero, maestro di lancia,
e Merïone, l’uguale di Marte che gli uomini uccide.
Ottanta negre navi seguiti li avevano a Troia.
E, valoroso e grande, Tlepòlemo, d’Ercole figlio,
da Rodi nove legni guidò, di valenti Rodési.
Rodi abitavano questi, ed eran divisi in tre parti:
Lindo abitavan, Ialíso, Camíro che bianca rifulge.
Era lor duce, dunque, Tlepòlemo, insigne guerriero,
cui generato aveva Astíoca ad Ercole forte.
DÈfira questi addusse, dal fiume dei Selli, la donna,
dopo distrutte molte città d’eroi figli di Giove.
Poi che Tlepòlemo fu nella solida casa cresciuto,
súbito uccise lo zio materno del padre, Licimnio,
ch’era a vecchiaia giunto già presso, rampollo di Marte.
Súbito, quindi, navi costrusse, raccolse gran gente,
e sovra il mare andò fuggiasco: ché fatta minaccia
gli aveano gli altri figli d’Alcide possente, e i nipoti;
e, dopo un lungo errare doglioso, pervennero a Rodi,
divisi in tre tribú l’abitarono, e furono cari
a Giove, ch’à l’impero degli uomini tutti e dei Numi;
e immensa a lor dovizia concesse il figliuolo di Crono.
Tre ben librate navi da Sima condusse Nirèo,
ch’era l’uomo piú bello fra quanti ne vennero a Troia,
fra i Dànai tutti quanti, se il figlio di Pèleo n’escludi;
ma debole era; e pochi guerrieri l’avevan seguito.
Gli abitatori poi di Nísiro, e Cràpato, e Caso,
dell’isole Calidne, di Cone, città d’Eripílo,
avevan loro duci Fidippo con Àntifo, entrambi
figli di Tèssalo, il re che nato era d’Ercole. Trenta
s’erano concave navi schierate sul mare per essi.
E quelli ora dirò che abitavano in Argo pelasga,
e quelli d’Alo, e quelli di Trèchina, e quelli d’Alòpe,
quei che tenevano Ftia, con l’Ellade ricca di donne.
Erano i nomi loro Mirmídoni, Èlleni e Achivi.
Ed era Achille il duce dei loro cinquanta navigli.
Ma questi avean perduto memoria dell’orrida guerra:
ché piú non c’era chi le loro falangi ordinasse:
ché inerte Achille, pie’ veloce, vicino alle navi
stava, crucciato per la vezzosa figliuola di Brise,
ch’ei da Lirnesso aveva predata con grande fatica
quando espugnò Lirnesso con l’alte muraglie di Tebe,
e Mine anche abbatte’, con Epístrofo, prodi guerrieri,
figli d’Evenio, del re figliuol di Selepia: per questo
ora ei poltriva in cruccio; ma presto levarsi doveva.
E quelli di Filàca, di Píraso, terra di fiori,
sacra a Demètra, e quelli d’Itóne, di greggi nutrice,
della marina Antróna, di Ptèleo ch’à d’erbe giacigli,
Protesilào, sin che visse, avevan per duce; ma ora
la negra terra già copriva il gagliardo guerriero.
Era in Filàca la sposa restata, con ambe le guance
lacere, e non compiuta la casa. L’uccise un guerriero
dàrdano, mentre a terra balzava, primo ei fra gli Achivi,
giù dalla nave. Però, sebbene piangessero questo,
non eran senza duce: partiva i comandi Podarce,
figlio d’Ificlo, figlio di Fílaca ricco di greggi,
ch’era fratello germano del nobile duce perduto,
ma piú giovine d’anni; ché era maggiore e più forte
Protesilao, l’eroe gagliardo. Non eran le genti
prive del duce; ma quello piangevano, ch’era sí prode.
Quaranta negre navi seguíto l’avevano ad Ilio.
Quei che abitavano Fere, vicino allo stagno Bibèo
e Bibe, e la città ben costrutta di Iolco, e Glafíra,
aveano duce il figlio d’Admèto, con undici navi,
Eumèlo: fu sua madre la diva fra tutte le donne,
Alcesti, la più bella fra tutte le figlie di Pelia.
E quelli che in Metòne, che avevano casa in Taumàchia.
quelli di Melibèa, con quelli dell’aspra Olizona,
avean per proprio re Filottète, signore dell’arco,
con sette navi; ed erano ascesi in ciascuna cinquanta
remigatori esperti da lungi a combatter con gli archi.
Ma quegli adesso, in Lemno, soffrendo crudeli tormenti,
giacea: l’avean gli Achivi lasciato nell’isola santa,
cruciato dalla piaga che un serpe funesto gl’inferse.
Quivi giaceva nel duolo; ma presto dovevan gli Achivi
presso le navi, al re Filottète rivolger la mente.
Né eran senza duce, per quanto bramassero il duce.
Li comandava Medóne, bastardo figliuol d’Oïlèo:
che l’ebbe Oïlèo, di città distruttore, dal grembo di Rene.
Quei che abitavano Tricca, e Itòme dai molti dirupi.,
quei che abitavano Ecàlia, la rocca d’Euríto ecalése,
aveano loro duci d’Asclepio i due figli: valenti
medici tutti e due, Podalirio e Macàone. Trenta
concavi s’eran per essi schierati navigli sul mare.
E quei d’Ormenio, e quelli vicini alla fonte Iperèa,
quelli d’Asterio, quelli sui picchi del bianco Titanio,
avean duce Euripílo, d’Evèmone il fulgido figlio.
Quaranta negre navi seguíto lo avevano a Troia.
E quei d’Argissa, e quelli che aveano dimora in Girtòna,
e quelli d’Orte, quelli d’Elóne e d’Olossa la bianca,
era di questi duce Polípete saldo alla pugna,
figlio di Piritòo, cui Giove ebbe reso immortale.
Ippodamía la bella concetto l’aveva all’eroe,
quel giorno ch’egli fece vendetta dei mostri villosi,
e li scacciò dal Pelio, vicini li spinse agli Etíci.
Solo non era al comando. Leonta, rampollo di Marte,
gli era d’accanto, figlio del figlio di Cène, Carone.
Quaranta negre navi seguíti li avevano a Troia.
Ventidue legni aveva da Cifo condotti Gunèo.
Eran venuti seco gli Eníeni e i prodi Perèbi,
e quei che avean dimora vicino a Dodona la fredda,
e quei che i campi ameni coltivano presso le rive
del Titaresio, che volge le belle fluenti al Penèo,
ma col Penèo non si mesce, che vortici volge d’argento,
ma sopra quello, come olio galleggia scorrendo: ché un ramo
esso è del fiume Stige, dell’acqua dal giuro tremendo.
Era ai Magnesi Pròtoo figliuol di Teutrèdone, duce.
Questi presso al Penèo, presso al Pelio ondeggiante di frondi,
aveano stanza. E dunque, lor duce era Pròtoo veloce.
Quaranta negre navi seguíto lo avevano a Troia.
Erano questi, dunque, signori dei Dànai e duci.
Tu dimmi adesso, o Musa, chi era fra loro piú prode,
fra loro, e fra i cavalli che venner, seguendo gli Atrídi.
Erano le piú belle cavalle del figlio d’Admèto,
e le guidava Eumèlo, veloci cosí come augelli,
pari d’età, di manto, d’altezza, a misura di filo.
Febo dall’arco d’argento cresciute le aveva in Perèa,
femmine entrambe; e seco recavan terrore di Marte.
Era il figliuol di Telàmone, Aiace, il piú forte guerriero,
sin ch’era lungi Achille: ché questi era molto piú forte,
ed i cavalli suoi: ché in tutto era primo il Pelíde.
Ma questi ora poltriva vicino alle curve sue navi,
ché d’ira ardeva contro l’Atríde pastore di genti.
E le sue genti tutte, lunghessa la spiaggia del mare,
si sollazzavan coi dischi, col lancio di frecce e zagaglie;
ed i corsieri loro, ciascuno vicino al suo carro,
stavano fermi, pascendo palustre prezzemolo e loto;
e ben coperti i carri restavano dentro le tende
dei lor padroni; e questi, che invano attendevano il duce,
erravano qua e là, ma senza combatter, pel campo.
Dunque, ivan quelli, come se tutta la terra pervasa
fosse dal fuoco; e il suolo di sotto gemea, come quando
Giove, che i folgori avventa, per Tifèo flagella la terra,
fra gli Àrimi, ove giace, per quanto si dice, Tifèo:
sotto i lor piedi cosí levava alti gemiti il suolo,
mentre moveano: ratti cosí, percorrevano il piano.
Iride, sotto le spoglie di Polite, informa Ettore del prossimo attacco degli Achei. Segue l’elenco dei guerrieri troiani

E venne Iri veloce, dai piedi di vento, ai Troiani,
di Giove aralda, ad essi recando l’annunzio doglioso.
E quelli, a parlamento, di Priamo d’intorno alle soglie
raccolti erano tutti, coi giovani insieme i vegliardi.
Iri dai piedi veloci, ristette ivi presso a parlare,
e nella voce imitò Políte, di Priamo figlio,
che, dei Troiani vedetta, sicuro dei rapidi piedi,
stava alla tomba in cima del vecchio Esïète, aspettando
quando i guerrieri Achei movesser dai legni. Di questo
l’aspetto assunto, disse la Diva dai piedi veloci:
«O vecchio, sempre a te son cari i discorsi prolissi,
come se fossimo in pace; ma sorge accanita la guerra.
Davvero, in molte e molte battaglie io mi sono trovato,
ma tale e tanta accolta di genti, non mai l’ho veduta:
ché proprio fitti come le foglie o le arene del mare,
per la pianura, a pugna s’avviano contro la rocca.
Ettore, a te piú che ad altri consiglio che questo tu faccia:
ché nella rocca sono di Priamo molti alleati,
e fra le tante razze, chi parla una lingua, chi l’altra;
alle sue genti partisca ciascuno dei duci il comando,
i suoi concittadini disponga ciascuno alla pugna».
Disse: né Ettore fu restio della Diva al consiglio,
ma sciolse l’assemblea di súbito. E, corsi alle mura,
schiusero tutte le porte, di fuor s’avventarono tutti
e cavalieri e pedoni: saliva alto in aria il frastuono.
Dinanzi alla città si leva un’eccelsa collina,
soletta in mezzo al piano, che puoi tutta attorno girarla:
la chiamano i mortali Batièia: i signori d’Olimpo
tumulo sepolcrale dell’agil Mirina. Qui presso
tutti i Troiani a schiera si posero, e i loro alleati.
Ettore, agitatore dell’elmo, di Priamo figlio
grande, guidava i Troiani: con lui molta gente e gagliarda
s’armava a guerra, pieni d’ardore vibrando le lancie.
Enea, nobile figlio d’Anchise, era ai Dàrdani guida.
Lui generato aveva la diva Afrodite ad Anchise,
ad un mortale una Dea, nelle valli selvose de l’Ida.
Solo non era: i due figli moveano d’Antènore seco,
Archèloco e Acamante, spertissimi ad ogni battaglia.
E quei che al piede estremo dell’Ida abitavan Zelèa,
gente opulenta, che l’acqua beveva dell’Èsepo negra,
troiani anch’essi, a duce avevano Pàndaro, il figlio
di Licaóne: a lui die’ Febo medesimo l’arco.
Quelli d’Adresta, e quelli che avevano il borgo d’Apèso,
quei di Pitièia, quelli dell’alpe di Tèreia eccelsa,
aveano duce Adrasto, con Amfio, corazza di lino,
figli di Mèropo entrambi, che nato era in Pèrcote, sommo
fra gl’indovini tutti. E i figli mandar non voleva
allo sterminio di guerra; ma furono sordi ai consigli
quelli: ché loro le Parche spingevan di livida morte.
E quei che in Prattio, e quelli che in Pèrcote avevan le case,
quelli che Sesto ed Abido tenevano, e Arista divina,
aveano Asio per duce, l’Irtàcide sire di genti,
Asio l’Irtàcide, cui condotti d’Arista i cavalli
aveano, grandi, tutti lucenti, dal fiume Sellèo.
Guidava le tribú dei Pelasgi maestri di lancia
Ippòtoo: hanno dimora nel fertile suol di Larisa:
e li guidava Ippòtoo, con Pileo rampollo di Marte,
figli ambedue di Leto, pelasgo figliuol di Teutami.
Peiro prode e Acamante guidavano i Traci alla guerra,
quanti Ellesponto ne chiude, coi flutti dal rapido corso.
Signore dei Cicóni maestri di lancia, era Eufemo,
figlio di Cèade, alunno di Giove, che nacque a Trezene.
Ed i Peoni dall’arco ricurvo guidava Piracme,
ch’era venuto di lungi, d’Armído, dall’ampia corrente
d’Assio, di cui niun fiume nel mondo piú fulgide ha l’acque.
Guidava i Paflagoni Pilèmene, cuore villoso,
dagli Èneti, onde cresce la razza dei muli selvaggi.
Essi abitavano Cítoro, in Sèsamo avevano i tetti:
fulgide case sopra le rive del fiume Partenio
anche abitavano, Cromna, Egílo, e l’eccelsa Eritíno.
A guerra avean condotto gli Alízoni Epístrofo e Odío,
dalla città d’Alíbe, di dove proviene l’argento.
Cromi guidava i Misî, con Ènnomo, esperto indovino.
Ma, né schivò coi suoi presagi la livida Parca,
ché cadde sotto i colpi d’Aiace dal piede veloce,
nel fiume dove questi trafisse tanti altri Troiani.
Fòrcide e Ascanio, che un Nume pareva, guidavano i Frigi,
lungi, dalla città d’Ascania; e fremevano guerra.
Di Telamène i due figli, a cui la palude Gigèa
fu madre, Àntifo e Mestle, guidavano a guerra i Meòni:
guidavano i Meòni, cresciuti alle falde del Tmolo.
Naste guidava i Carî di barbara lingua: Mileto
questi abitavano, e l’alpe di Ftiro d’innumere frondi,
e del Meandro i rivi, l’eccelse di Mícale vette.
Guida eran dunque a costoro Anfímaco e Naste, i guerrieri
Naste ed Anfímaco, i due di Nomíone figli vezzosi.
Quegli coperto d’oro moveva alla guerra, lo stolto,
una fanciulla sembrava: né contro il destino di lutto
l’oro giovò: ché fu prostrato dai colpi d’Aiace
vicino al fiume; e l’oro se l’ebbe il fortissimo Achille.
E Sarpedonte, e, immune da biasimo, Glaüco, i Lici
dalla remota Licia, condusse, dai gorghi del Xanto.
E poi che fûr disposte le schiere, ciascuna col duce,
con gridi alti e clangore movean, come uccelli, i Troiani:
tale il clangor delle gru, volando sul cielo, trapassa,
nei dí che il crudo verno fuggendo e la pioggia incessante,
battono l’ali, con alto schiamazzo, sui flutti del mare,
agli uomini Pigmèi recando la strage e la morte,
recando, appena l’alba si leva, la pugna funesta.
Muti moveano invece, spirando furore, gli Achivi,
bramosi in cuor di darsi l’un l’altro soccorso alla pugna.
Come nell’alpe effonde sui vertici Noto la nebbia,
poco gradita ai pastori, pei ladri miglior della notte,
che tanto lungi scorgi quanto è la gittata d’un sasso:
tale una fitta nebbia di polvere sotto ai lor piedi
s’ergeva; e fu ben presto sparito di mezzo il terreno.
Paride avanza per primo tra i Troiani e sfida gli Achei a battersi con lui. Menelao è pronto al duello, ma allora Paride esita. Ettore lo rimprovera di codardia.

E poi ch’erano, gli uni movendo sugli altri, già presso,
Paride, simile a un Dio, moveva dinanzi ai Troiani:
sopra le spalle l’arco ricurvo, e una pelle di pardo
reggeva ed una spada, vibrava la punta di bronzo
di due zagaglie; e tutti chiamava gli Atrídi piú prodi,
che nella dura zuffa pugnasser con lui faccia a faccia.
Or, come lo scoprí Menelao, prediletto di Marte,
ch’egli dinanzi alle schiere movea degli amici a gran passo,
s’allegrò, come leone famelico, quando s’imbatte
in un gran corpo di cervo cornigero, oppur di selvaggio
capro; e con brama vorace lo sbrana, per quanto lontano
uomini saldi e cani veloci lo voglian tenere.
Del pari Menelao s’allegrò, quando Paride bello
vide; poiché fra sé sperò trar vendetta del drudo;
e súbito dal cocchio giú a terra balzò, tutto armato.
Come veduto l’ebbe fra gli ordini primi apparire,
Paride simile a un Dio, fiero urto sentí nel suo cuore,
e rïentrò fra le schiere dei suoi, per sfuggire alla morte.
Come se un uomo vede, fra gole di monti, un dragone,
un balzo indietro fa, terrore gl’invade le membra,
il passo indietro volge, pallore gli copre le guance;
cosí degli animosi Troiani di nuovo Alessandro
si ritirò tra le file, per téma del figlio d’Atrèo.
Lo vide Ettore, e queste gli volse parole d’obbrobrio:
«Paride tristo, bello di viso, femminiero, drudo,
deh! se tu nato mai non fossi, se privo di nozze
fossi tu morto! Questo vorrei: ché sarebbe assai meglio,
ch’essere oggetto, come tu sei, di vergogna e di sprezzo.
Sghignazzeranno, adesso, gli Achei dalle floride chiome,
diranno che il piú prode sei tu perché bello è il tuo viso,
ma che però nel cuore non hai né coraggio né forza.
E, tale essendo tu, sovresse le rapide navi
il mare hai traversato, seguíto dai fidi compagni,
ti sei mischiato a genti straniere, una donna hai rapita
bella, di terra lontana, cognata di prodi guerrieri,
grande cordoglio a tuo padre, a Troia ed al popolo tutto,
a chi ci vuole male sollazzo, ed a te vituperio.
Non hai coraggio, dunque, d’attendere il pro’ Menelao?
Conosceresti che uomo sia quello a cui tolta hai la sposa!
Ti gioverebbe poco la cetra, la chioma e il bel viso
che Cípride ti die’, quando tu nella polve giacessi!
Ma tutti quanti i Troiani son vili: se no, sotto un manto
tu giaceresti di pietre, mercè dei tuoi molti misfatti».
Paride si decide ad affrontare Menelao, e tutti si fermano per assistere al duello.

Paride simile ai Numi, con queste parole rispose:
«Ettore, sí, la tua rampogna giusta è, non ingiusta:
saldo il tuo cuore è sempre, cosí come un’ascia che un tronco
pènetri, spinta dal pugno d’un uomo che fenda con arte
un duro legno; ed essa moltiplica il colpo dell’uomo.
Intrepido cosí mai sempre è il tuo cuor nel tuo petto.
Non rinfacciarmi i doni che a me die’ la bella Afrodite:
mai da gittare non sono dei Numi gli amabili doni:
essi li dànno; e niuno può eleggere questo, oppur quello.
Ma ora, se tu vuoi ch’io combatta, che affronti la pugna,
fa’ che i Troiani tutti si fermino, e tutti gli Achivi,
e in mezzo al campo fate che io con l’Atríde gagliardo
lottiamo, a fronte a fronte, per Elena e tutti i suoi beni;
e voi Troia abitiate ferace, ritornino gli altri
ad Argo ed all’Acaia che vanto ha di femmine belle».
Cosí parlava. Grande fu il giubilo d’Ettore, a udirlo;
e, stretta a mezzo l’asta, movea tra i guerrieri troiani,
e ratteneva le schiere: sostarono tutti ai suoi cenni.
Ma contro lui gli Achivi chiomati volgevan la mira,
saette alla sua volta lanciando, scagliando macigni.
Ma un grido alto levò Agamènnone, eccelso sovrano:
«Argivi, fermi! Niuno piú tiri, figliuoli d’Acaia!
Ettore, agitatore dell’elmo, s’appresta a parlare».
Disse cosí. Dalla pugna ristettero súbito quelli:
stettero muti; e queste parole disse Ettore allora:
«Troiani udite, udite, Achivi dai vaghi schinieri,
quello che Paride or dice, pel quale ebbe origin la guerra:
dice che tutti gli altri Troiani, che tutti gli Achivi
l’armi depongano sopra le zolle dell’almo terreno,
e ch’egli e Menelao diletto di Marte, nel mezzo
pugnino a fronte a fronte, per Elena e tutti i suoi beni».
Cosí diceva. Gli altri rimasero muti, in silenzio.
Sol Menelao parlò, l’eroe dalla voce possente:
«Udite ora anche me. Di cruccio è ricolmo il mio cuore;
ma penso tuttavia che debbano Argivi e Troiani
termine porre alla guerra: ché hanno già troppo sofferto
per la contesa mia, d’Alessandro che a me fece torto.
Ora, chi di noi due sarà colto dal fato di morte,
giaccia; e voi desistete, Troiani ed Achei, dalla guerra.
E due recate agnelli, che bianco sia l’un, l’altro nero,
al Sole ed alla Terra: un terzo s’immoli al Croníde.
E conducete qui, ché il giuro ei medesimo presti,
Priamo — ché sono indegni di fede i suoi figli protervi —
ché alcun, per tracotanza, di Giove non vïoli il giuro.
Sbandano sempre qua e là le menti dei giovani a volo;
ma un vecchio, ove intervenga, riguarda il passato e il futuro
perché seguan, quant’è possibile, prosperi eventi».
Disse. E ben grande fu dei Troiani e gli Achivi la gioia,
per la speranza che infine cessasse la guerra funesta.
E nelle file i cavalli rattennero, e scesero a terra
essi medesimi; e l’armi spogliate deposero al suolo,
queste vicine a quelle: sparí quasi tutto il terreno.
Ed Ettore mandò due messi alla rocca, che presto
recassero le agnelle, chiamassero Priamo al campo.
Ed Agamènnone re mandava l’araldo Taltibio
alle veloci navi, ché quindi recasse un agnello;
né tardo quello fu d’Agamènnone sire al comando.
Iride informa Elena del duello. Elena vi assiste dalle Porte Scee, insieme al vecchio sovrano Priamo.

Iride, ad Elena intanto recava la nuova. Ed assunto
di Laodíce aveva l’aspetto: di Priamo figlia
essa era, era consorte del figlio d’Antènore prode,
d’Elicaòne; e tutte vincea le sorelle in bellezza.
E la trovò nella sala. Sedeva dinanzi al telaio,
e un gran mantello doppio tesseva di porpora; e molte
v’istorïava lotte d’Achivi guerrieri e Troiani,
per lei sotto il dominio di Marte cruento pugnate.
Iri dai pie’ veloci, vicina le stette, e le disse:
«Elena cara, vien qui, le gesta mirabili osserva
dei cavalieri Troiani, degli Achei dall’armi di bronzo,
che tutti contro tutti finora spartivano in campo
di Marte il grave pianto, bramosi di guerra funesta;
ed ora tutti quanti stan muti, poggiati agli scudi,
le lunghe lancie al suolo confitte. Cessata è la pugna;
e Menelao, diletto campione di guerra, e Alessandro
combatteranno soli per te, con le lunghe zagaglie;
e chi trionferà, di quello sarai la consorte».
Disse la Diva; e brama soave le infuse nell’alma
della città, del primo suo sposo, dei suoi genitori.
Ecco, e le membra avvolte di candida veste di lino,
fuor si lanciò dalla sala, versando gran copia di pianto,
sola non già, ché insieme moveano con lei due fantesche,
Etra, di Pítteo figlia, Climène dall’occhio lucente.
E presto furon giunte vicino alle porte Sceèe.
Quivi, d’intorno a Priamo, a Panto, a Lampóne, a Timàte,
a Clizio, a Ichetaóne, rampollo diletto di Marte,
Ucalegonte sedeva, e Antènore pieno di senno.
Presso alle porte Sceèe, sedevano questi vegliardi,
lontani dalla guerra per gli anni, ma buoni oratori,
simili a cicalette, che agli alberi in vetta posando,
effondon per la selva la voce piú pura del giglio.
Sedean sopra la torre cosí questi duci di Troia.
Ed essi, come vider che verso la torre moveva
Elena, l’uno all’altro rivolsero alate parole:
«Biasimo no, non è, pei Troiani e gli Achivi guerrieri,
se per tal donna tanti patiscono lunghi travagli:
troppo l’aspetto suo somiglia alle Dive immortali!
Ma pure, anche cosí, cosí bella, ritorni a le navi,
e ai figli nostri e a noi retaggio non lasci di pianto!»
Cosí diceano; e Priamo ad Elena volse la voce:
«Vien pure avanti, siedi vicino a me, figlia mia,
ché tu veda l’antico tuo sposo, e i congiunti, e gli amici.
Colpevole non sei tu: colpevoli sono i Celesti,
che suscitâr contro me degli Atrídi la guerra funesta.
Il nome di quell’uomo dimmi ora, di forme giganti,
chi mai sia quell’Acheo, sí nobil d’aspetto, e sí grande.
Altri potrà soverchiarlo del capo, aver membra piú salde;
però questi occhi mai non videro altr’uomo sí bello,
né maestoso cosí: mi sembra, a vederlo, un sovrano».
Ed Elena divina con queste parole rispose:
«Suocero caro, io provo per te riverenza e timore.
Cosí la mala morte colpita m’avesse, quand’io
qui col tuo figlio venni, lasciando il mio sposo, gli amici,
la mia tenera figlia, le mie predilette compagne.
Ma questo non avvenne; perciò mi distruggo nel pianto.
Ed ora ti dirò ciò che tu vuoi sapere e mi chiedi.
Quegli è Agamènnone, il re possente, figliuolo d’Atrèo,
saggio sovrano, e insieme gagliardo nell’urto di guerra.
Era cognato mio, se, cagna ch’io son, ne fui degna».
Cosí disse; e il vegliardo stupí, disse queste parole:
«Atríde, oh te beato, cui riser la Parca ed i Numi!
Sotto il tuo scettro, quanti si chinano figli d’Achivi!
Io sono stato una volta in Frigia ferace di vigne,
e tanti e tanti Frigi vid’io, di cavalli maestri,
vidi le genti d’Otrèo, di Mígdone simile ai Numi,
che combattevano presso le sponde del Sàngaro; ed io,
loro alleato, con essi movevo in ischiera, quel giorno
che qui venner le Amazzoni agli uomini infeste; ma tanti
non eran, quanti sono gli Achivi dal fulgido sguardo».
Poscia, veduto Ulisse, cosí domandava il vegliardo:
«Dimmi anche questo, figlia mia cara: chi è quel guerriero
ch’è d’Agamènnone Atríde piú basso di tutta la testa,
però piú largo sembra di petto, piú largo di spalle?
Giacciono l’armi sue su le zolle del fertile suolo,
ed ei, pari a un montone, s’aggira su e giú per le schiere:
simile ad un montone villoso davvero mi sembra,
che in mezzo ad un gran branco di pecore bianche s’aggiri».
Elena a lui, la figlia di Giove, die’ tale risposta:
«Ulisse è quegli, mente sagace, figliuol di Laerte,
che nacque e fu nutrito fra il popolo d’Itaca alpestre,
e d’ogni inganno, d’ogni sottile pensiero è maestro».
E a lei queste parole Antènore saggio rivolse:
«O donna, a verità rispondono certo i tuoi detti:
però che in Troia Ulisse divino una volta pur venne
ambasciatore, per te dimandare, col pro’ Menelao.
Ospiti furono a me graditi, li accolse il mio tetto,
sicché bene conobbi d’entrambi l’aspetto, e la mente.
E quando furon poi fra i Troiani raccolti a concione,
sinché stavano in piedi, piú alto di tutta la spalla
era l’Atríde: seduti, pareva piú nobile Ulisse.
Quando parlarono poi, svelarono i loro pensieri,
diceva Menelao parole veloci e confuse,
a voce acuta, e scarse, ché molto non era eloquente:
non senza senno, però, sebbene ancor giovine fosse.
Ma quando in pie’ balzava, Ulisse lo scaltro a parlare,
immoto stava, e in giú guardava, figgea le pupille
a terra, non piegava lo scettro né innanzi né indietro,
lo tenea saldo e fermo: pareva uno zotico: detto
l’avresti un dissennato, che poco valesse di mente.
Ma quando poi dal seno lanciava la voce sonora
e le parole, che neve sembravan che fiocchi d’inverno,
uomo non c’era allora che Ulisse potesse emulare,
né allor piú badavamo qual fosse l’aspetto d’Ulisse».
Quindi, per terzo Aiace vedendo, chiedeva il vegliardo:
«E chi è mai quell’altro guerriero membruto e gagliardo,
che con la testa gli Achivi soverchia, e con l’ampie sue spalle?».
E disse a lui la donna divina dal peplo elegante:
«L’immane Aiace egli è, baluardo di tutti gli Achivi.
Idomenèo sta piú oltre, che onorano al pari d’un Nume
in Creta: attorno a lui s’affollano i duci cretesi.
Sovente l’ospitò Menelao prediletto da Marte
entro le nostre mura, quand’egli giungeva da Creta.
E tutti gli altri Achei dagli occhi fulgenti io distinguo,
ché li conosco, e il nome potrei di ciascuno ben dirti.
Ma due veder fra loro pastori di genti non posso,
Càstore, sperto a domare cavalli, ed il pugile forte
Polluce, i miei fratelli, che meco die’ a luce la madre.
O da le belle contrade di Sparta non son qui venuti,
oppur sono venuti sovresse le rapide navi,
ma piú non voglion qui la zuffa affrontare e i guerrieri,
pel vituperio e la grande vergogna che tutta mi copre».
Cosí disse. Ma quelli stringeva di già l’alma terra
in Lacedèmone appunto, dov’essi ebber prima la vita.
Priamo scende al campo per stringere i patti con Agamennone e partecipare ai sacrifici

Per la città, frattanto, gli araldi una coppia d’agnelli,
vittime sacre, e il vino recavano, il dono dei campi
giocondo, entro una pelle di capra; e il cratère fulgente
Idèo, di Priamo araldo, recava, ed i calici d’oro.
E al vecchio s’appressò, gli volse cosí la parola:
«Sorgi, figliuolo di Laomedonte, t’invocano i duci
dei cavalieri troiani, degli Achei coperti di bronzo,
che tu discenda al campo, per stringere patti solenni:
ché Menelao, diletto campione di Marte, e Alessandro,
per questa donna, da soli verranno alla prova dell’armi;
e chi trionferà, la donna quegli abbia, ed i beni.
E gli altri poi, con patti si stringano e giuri solenni:
che noi restiamo in Troia ferace, che tornino quelli
ad Argo ed all’Acaia, che vanto ha di femmine belle».
Disse. Il vegliardo fu corso da un brivido; e impose ai compagni
di preparare il cocchio; né quelli fûr tardi al comando.
Priamo quindi salí sul cocchio, le redini tese,
e a lui d’accanto ascese Antènore il fulgido carro,
e verso la pianura diressero i pronti corsieri.
E quando al campo giunti fûr poi, tra gli Achivi e i Troiani,
giú su le fertili zolle del suolo balzaron dal cocchio,
e fra i Troiani e gli Achei schierati, si mossero. E primo
surse Agamènnone re, signore di genti: secondo,
Ulisse, il molto scaltro. Gli araldi poi, giovani belli,
portarono pei Numi le vittime sacre, ed il vino
entro il cratere temprarono, ai re dieder l’acqua alle mani.
Il breve ferro poi l’Atríde snudò, che al suo fianco,
presso alla gran guaina recare solea della spada,
e ciuffi dalle teste tagliò degli agnelli: gli araldi
li compartirono a quanti prenci erano, Achivi o Troiani.
Poscia le mani alzò, levò preci solenni l’Atríde:
«Giove, supremo padre, possente, che regni dall’Ida,
e tu, Sole, che scorgi, che odi ogni cosa nel mondo,
o Fiumi, o Terra, e voi, che, sotto la terra, giudizio
fate degli uomini spenti, se alcuno mai franto abbia un giuro,
voi testimóni siate, custodi dei patti solenni.
Se morte a Menelao darà nella pugna Alessandro,
Elena egli abbia, ed abbia con Elena tutti i suoi beni;
e noi sopra le navi faremo ritorno alla patria.
Se invece Menelao chioma bionda trafigga Alessandro,
Elena allora i Troiani ci rendano, e tutti i suoi beni,
e paghino un’ammenda, qual sembri adeguata, agli Argivi,
tale che poi favellare ne debban le genti venture.
Ché, se Priamo poi ricusi, o di Priamo i figli,
ove Alessandro sia caduto, sborsar tale ammenda,
allora anch’io vorrò combatter per questo riscatto,
qui rimanendo, sinché non giunga al suo termin la guerra».
Disse. E col bronzo spietato la gola tagliò degli agnelli,
e li depose a terra, che davano gli ultimi guizzi,
già della vita privi: ché il bronzo li aveva fiaccati.
Poi, dal cratère attinto, versarono il vin nelle coppe,
levarono preghiere ai Numi che vivono eterni;
e ciascheduno fra sé ripeteva, troiano od achivo:
«Giove possente e voi, tutti quanti, Celesti immortali,
possa chi primo ardisse peccar contro i giuri, il cervello
sparso cadergli a terra, cadere ai suoi figli, come ora
si sparge questo vino, sia preda ad estranî la moglie».
Dicean cosí; ma Giove non volle ascoltare le preci.
Priamo torna alle mura, non vuole assistere al duello. Si sorteggia chi darà il primo colpo, poi i due duellanti indossano le armi.

E Priamo parlò, dei Dàrdani il principe, e disse:
«Datemi ascolto, Achivi dall’arme di bronzo, e Troiani.
Di nuovo io tornerò fra le mura di Troia ventosa,
ché non mi regge il cuore, vedere non posson questi occhi,
pugnar con Menelao, diletto di Marte, il mio figlio.
Giove lo sa di certo, lo san gli altri Numi immortali,
a chi dei due la sorte segnata abbia l’ora fatale».
Disse il divino vegliardo, gli agnelli posò sopra il carro,
egli medesimo poi v’ascese, le redini tese:
ascese a lui vicino Antènore il fulgido cocchio.
Or questi due, cosí facevano ad Ilio ritorno.
Ed Ettore, figliuolo di Priamo, e Ulisse divino,
pria del terreno i confini segnarono, quindi le sorti
posero, scosser nel cavo d’un elmo foggiato nel bronzo,
quale dei due dovesse per primo lanciar la zagaglia.
Alte le mani al cielo, le turbe pregavano i Numi;
e piú d’uno cosí dicea, tra gli Achivi e i Troiani:
«Deh! Giove padre, che regni su l’Ida, possente, supremo,
quello dei due che fu cagione di queste sciagure,
fa’ ch’or debba morire, piombar nella casa d’Averno;
e fra noialtri regni concordia e sicura amicizia».
Cosí diceano. Ed Ettore grande scoteva le sorti,
volti gli sguardi indietro: balzò d’Alessandro la sorte.
Greci e Troiani allora sederono tutti in ischiere,
dove ciascuno aveva la bella armatura e i cavalli.
Ecco, e Alessandro divino, lo sposo dal fulgido crine
d’Elena, cinse l’armi sue belle d’intorno alle membra.
Prima d’intorno alle gambe si cinse i fulgenti schinieri,
ch’erano da fermagli d’argento congiunti: sul petto
strinse poi la corazza non sua, del fratel Licaóne
era; ma ben gli era adatta. Sugli omeri quindi la spada
gittò, che l’elsa aveva cospersa di borchie d’argento.
Quindi lo scudo imbracciò, ch’era grande e massiccio, e sul capo
fiero l’elmetto pose di fine lavoro, su cui
terribilmente ondeggiava la cresta d’equino cimiero:
poi la zagaglia prese, che il palmo gli empie’ della mano. —
E, parimenti, il pro’ Menelao si chiuse nell’armi.
Poi che si furono armati cosí, nell’un campo e nell’altro
mossero in mezzo alle due falangi d’Achivi e Troiani,
biechi rotando gli sguardi: rimasero tutti stupiti
i cavalieri troiani, gli Achei dai fulgenti schinieri.
Duello tra Paride e Menelao.

Stettero l’uno all’altro vicini cosí nella lizza:
l’un contro l’altro d’odio furenti, squassar le zagaglie.
Ed Alessandro primo scagliò la sua lunga zagaglia,
e Menelao colpì sovresso lo scudo rotondo.
Ma non lo franse, però: ché indietro si torse la punta,
contro lo scudo saldo. Secondo la punta di bronzo
lanciò l’Atríde, a Giove cosí la preghiera volgendo:
«Giove, fa’ tu ch’io possa punire Alessandro, che primo
di scorno mi coprí: tu abbattilo sotto i miei colpi,
sicché pur tra le genti venture, ciascuno abbia orrore
di fare torto a chi gli offerse amicizia ed ospizio».
Detto cosí, librò, scagliò la sua lunga zagaglia,
e su lo scudo rotondo percosse di Priamo il figlio.
Attraversò la possente zagaglia fuor fuori lo scudo,
restò confitta nella corazza coperta di fregi,
la cuspide squarciò la tunica, all’inguine presso;
ma egli si chinò, schivando la livida morte.
E, fuor tratta l’Atríde la spada dai chiovi d’argento,
s’alzò sui pie’, colpí la cresta dell’elmo; ma quivi,
franta in tre pezzi, in quattro, di mano gli cadde la spada.
Onde gemette, al cielo volgendo gli sguardi, l’Atríde:
«Nessuno, o Giove padre, fra i Numi è di te piú funesto!
Io la tristizia qui speravo punir d’Alessandro,
ed ecco, mi si spezza la spada nel pugno; ed invano
scagliata ho la zagaglia, perché non son valso a prostrarlo».
Disse cosí, s’avventò, l’afferrò pel cimiero dell’elmo,
lo voltolò supino, lo trascinò fra gli Achivi:
e la coreggia tutta trapunta, che sotto al suo mento
l’elmo stringeva, il respiro toglieva alla morbida gola.
Menelao sta vincendo, ma Afrodite salva Paride avvolgendolo in una nube che lo rende invisibile, e poi lo riunisce ad Elena.

Tratto cosí lo avrebbe, ne avrebbe riscossa alta gloria,
se non l’avesse a tempo veduto la Diva Afrodite:
essa spezzò la coreggia di solido cuoio di bove.
Vuoto cosí l’elmetto restò nella valida mano:
l’eroe lo roteò, lo scagliò fra gli Achivi guerrieri,
poi sul nemico balzò di nuovo, per dargli la morte,
con la sua spada; ma intanto sottratto lo aveva Afrodite,
senza fatica, ché tanto poteva una Diva, e, nascosto
dentro una fítta nebbia, recato nel talamo aulente,
tutto profumi: ed ella si mise poi d’Elena in cerca.
E la trovò nella torre, che stava fra molte Troiane.
Stese la mano alla veste nettàrea, la scosse la Diva,
che le sembianze assunte avea d’una vecchia cadente,
sperta a filare la lana, che quando ella a Sparta abitava,
compieva opere belle: diletta era molto al suo cuore.
Tali sembianze assunte, cosí disse dunque Afrodite:
«Vieni con me: ti chiama, ché a casa tu torni, Alessandro:
egli nel talamo già t’aspetta, sul letto tornito,
fulgido di beltà, coperto di splendide vesti.
Niuno direbbe ch’ei torni da un’aspra tenzone: diresti
che muova al ballo, o sia dal ballo tornato pur ora».
Cosí disse; e ispirò nel cuor della donna la brama.
E come vide poi della Diva il bellissimo collo,
il soavissimo seno, fulgenti di luce gli sguardi,
allora sbigotti, parlò, disse queste parole:
«O trista Diva, perché desideri trarmi in inganno?
Piú lunge, in qualche bella città popolosa vuoi forse
condurmi, o della Frigia, o della ridente Meonia,
se forse anche lí vive qualche uomo diletto al tuo cuore?
Ora che Menelao, prostrato il divino Alessandro,
vuole me, svergognata ch’io sono, alla patria condurre,
tu sei venuta qui, per tendermi ancora l’insidia?
Va’, rimani con lui, del cielo abbandona le sedi,
i piedi tuoi mai piú non battan le vie dell’Olimpo,
sin ch’egli non ti faccia sua sposa, ti faccia sua schiava.
Io non andrò da lui: sarebbe per me vergognoso
apparecchiargli il letto: coperta d’obbrobrio sarei
dalle Troiane: e infinite già sono le pene ch’io soffro».
E a lei cosí rispose, crucciata, la Diva Afrodite:
«Non provocarmi, ch’io, sciagurata, non debba ritrarmi,
e abbandonarti, e quanto finora t’ho amata, odiarti,
e fra i Troiani e i Dànai non susciti lutti ad entrambi,
funesti, e tu perire ne debba di misera morte!».
Disse. Terrore invase la bella figliuola di Giove;
e mosse, ascoso il volto nel fulgido velo; né alcuna
delle Troiane la scorse; perché la guidava Afrodite.
Come poi d’Alessandro fûr giunte a la bella dimora,
súbito qui le ancelle tornarono ai loro lavori,
ed Elena, la donna divina, nel talamo ascese.
E, per lei tolto un seggio, la Diva del riso, Afrodite,
la prese, la recò dinanzi al suo sposo Alessandro.
Quivi sede’ la figlia del Nume che l’ègida regge;
e, volti gli occhi altrove, cosí rampognava lo sposo:
«Tu dalla pugna giungi! Cosí fossi quivi caduto
sotto le mani dell’uomo che prima di te mi fu sposo!
Tu ti vantavi, prima, che tu Menelao superavi,
ch’era piú forte il tuo braccio, che meglio scagliavi la lancia!
Invita ancora, su’, Menelao prediletto di Marte,
che voglia a faccia a faccia combattere teco; ma io
a non tentarlo piú, t’esorto, a non piú misurarti
con Menelao, né a stargli di fronte, con folle ardimento,
ché sotto la sua lancia tu presto non cada prostrato!».
Ed Alessandro a lei rispose con queste parole:
«Non voler battere, o donna, con dure parole il mio cuore.
Di Menelao, mercè d’Atena, fu or la vittoria:
un’altra volta, mia sarà: me pure amano i Numi.
Ma ora al nostro letto moviamo, ed all’opre d’amore:
ché mai, mai tanta brama di te non invase il mio seno,
neppur la prima volta, quando io ti rapii da la bella
Sparta, e con te fuggii per mare, su l’agili navi,
e il talamo d’amore nell’isola Crànae ci accolse,
come ardo ora per te, come brama soave m’invade!».
Disse, ed al letto mosse: la sposa fu dietro ai suoi passi.
Cosí li colse entrambi sul letto bellissimo il sonno.
Agamennone dichiara comunque vincitore del duello Menelao

E Menelao frattanto girava per mezzo alle turbe,
se d’Alessandro vestigia trovasse; e pareva una fiera.
Niuno però pote’, dei Troiani o dei loro alleati,
a Menelao diletto di Marte mostrare Alessandro:
ché, se l’avesse visto, nessuno l’avrebbe celato;
ma l’odiavano tutti, non men della livida morte.
Ed Agamènnone, sire di genti, cosí prese a dire:
«Datemi ascolto, voi Troiani, voi Dàrdani, e voi
tutti, alleati. Fu la vittoria del pro’ Menelao.
Elena argiva a noi rendete con tutti i suoi beni,
ed un’ammenda pagate, qual sembri opportuna, agli Argivi,
tale, che poi favellare ne debba la gente ventura».
Disse l’Atríde cosí: consentirono tutti gli Achivi.
Gli dei si radunano per decidere le sorti della battaglia. Giove vorrebbe terminarla con la vittoria di Menelao e risparmiare le vite dei Troiani; ma Giunone e Atena non sono d’accordo perché odiano i Troiani.
E presso Giove, intanto, raccolti sedevano i Numi,
sul pavimento d’oro: di nèttare empieva le coppe
Ebe, la Dea veneranda, per essi; e brindavano tutti
entro le coppe d’oro, mirando la rocca di Troia.
Ed il Croníde tentò di pungere il cuor di Giunone,
senza rivolgersi a lei, con queste mordaci parole:
«Sogliono sempre due Dive soccorrere il pro’ Menelao:
Era l’Argiva, e Atena che guarda Alalcòmene: entrambe
ora, però se ne stanno, sedute in disparte, a godere.
Presso Alessandro, invece, l’amica del riso Afrodite
sempre sta, sempre lo segue, da lui tiene lungi la morte;
ed or salvato l’ha, quando già credea certa la fine.
Sicuramente, è però la vittoria del pro’ Menelao.
Or noi pensiamo quale sarà degli eventi la fine:
se guerre, ancora, ancora dobbiamo eccitare funeste
pugne, o far sí che regni fra gli uni e fra gli altri amicizia.
Se piace a tutti questo partito, se grato riesce,
conservi la città di Priamo ancor la sua gente,
e Menelao con sé conduca la femmina d’Argo.
Disse cosi. Le labbra si morsero Atena e Giunone,
sedute presso a lui, che volevano il mal dei Troiani.
Atena restò muta, non disse una sola parola,
fremendo contro il padre di sdegno e di bile selvaggia;
ma non contenne lo sdegno Giunone, parlò, cosí disse:
«Quale parola hai detto, possente figliuolo di Crono?
Dunque, la mia fatica vuoi rendere inutile e vana,
vano il sudore ch’io, stancando i cavalli, ho versato,
quando raccolsi le turbe a Priamo infeste e a suoi figli?
Fa’ pur; ma gli altri Numi di ciò non vorranno lodarti».
E Giove, adunatore di nembi, crucciato, rispose:
«Cuore implacato, di’, quali mai grandi offese t’han fatto
Priamo, e i figli suoi, che t’arde implacabile brama
d’Ilio veder, la rocca dai solidi muri, distrutta?
Se valicar le porte potessi, e l’eccelse sue mura,
e divorare crudo re Priamo e i suoi figli, e i Troiani
tutti, sarebbe forse placata la furia che t’arde.
Fa’ pur ciò che tu vuoi: ché questa contesa non debba
per te, per me, divenire soggetto di fiera discordia.
Un’altra cosa però ti dico, e ricordala bene:
se mai qualche città vorrò poi distruggere anch’io,
quale che sia, dove gente dimori diletta al tuo cuore,
non trattenere il mio sdegno, ma lasciami libero: anch’io
a malincuore, quanto bramavi, t’ho pure concesso:
perché niuna città, fra quante son d’uomini albergo,
sotto la luce del sole, le stelle fulgenti del cielo,
tanto solea d’onori colmarmi, quanto Ilio la sacra,
e Priamo, e il popol tutto di Priamo maestro di lancia:
ché mai sull’ara mia non mancarono vittime opime,
né libagioni, né omento, che a noi sono debite offerte».
E a lui cosí rispose Giunone dall’occhio fulgente:
«Tre sono le città che piú predilige il mio cuore:
Argo, Sparta, e Micene, che vanto ha d’ampissime strade:
quando al tuo cuore odiose divengano, struggile pure,
ché io non le vorrò difendere, oppormi a tue bràme:
ché già, se pur volessi che fossero salve, ed oppormi,
nulla ottener potrei: ché troppo di me sei piú forte.
Ma pur, l’opera mia non dev’essere inutile e vana,
ché me l’accorto Crono colmò piú che ogni altra d’onore,
perché prima d’ogni altra son nata, perché tua consorte
sono chiamata, e tu sei signore degli uomini tutti.
Dunque, intervenga adesso reciproco accordo fra noi:
io cedo a te, tu a me: dovranno seguire l’esempio
gli altri Celesti. E tu da’ l’ordine presto ad Atena
che scenda ove gli Achei si azzuffan con gli uomini d’Ilio,
e tenti se per prima la gente di Troia non franga
il giuramento stretto coi prodi magnanimi Achivi».
Giove, su suggerimento di Giunone, manda Atena a provocare i Troiani

Disse cosí Giunone. Degli uomini il padre e dei Numi
accondiscese; e volse veloci parole ad Atena:
«Non indugiare, va’ giú fra i Troiani e gli Achivi schierati,
e tenta se per prima la gente di Troia non franga
il giuramento stretto coi prodi guerrieri d’Acaia».
Disse; ed Atena eccitò, che già tutta ardeva di brama,
e con un lancio giú si scagliò dalle vette d’Olimpo.
Come talvolta il figlio di Crono saggissimo, un astro
scaglia, ai nocchieri erranti lucente prodigio, e ad un folto
stuolo di genti: attorno gli sprizzano fitte scintille:
simile a questo, alla terra s’avventò giú Pallade Atena.
Fra le due schiere piombò: stupore percosse, a vederla,
i cavalieri troiani, gli Achei da le belle gambiere;
e l’uno all’altro andavan cosí favellando i vicini:
«Certo la cruda guerra, di nuovo, e la pugna funesta
divamperanno, oppure la pace fra gli uni e fra gli altri
Giove stabilirà, che fra gli uomini porta la guerra».
Iva cosí dicendo ciascun degli Achei, dei Troiaini;
e Atena, assunte d’uomo sembianze, movea fra i Troiani:
di Laödòco assunte le forme, del prode figliuolo
d’Antènore, cercava se Pàndaro a sorte trovasse.
E lui, di Licaòne perfetto, gagliardo figliuolo,
trovò, che in piedi stava: d’intorno stringevansi fitte
le genti sue, venute dai rivi d’Esèpo a seguirlo.
Presso gli stette, e a lui queste alate parole rivolse:
«Di Licaòne figlio sagace, vuoi tu darmi ascolto?
Osa scagliare un dardo veloce sul pro’ Menelao:
merito grande e gloria ne avrai presso tutti i Troiani;
e ti sarà piú grato d’ogni altro il sovrano Alessandro:
súbito egli vorrà compensarti con fulgidi doni,
quando vedrà Menelao, d’Atrèo valoroso rampollo,
dalla tua freccia trafitto, salire sul rogo fatale.
E volgi a Febo, al licio signor delle cuspidi, un voto,
che avrà d’agnelli nati di fresco una insigne ecatombe,
quando tornato sarai alla sacra città di Zelea».
Pandaro, persuaso da Atena, colpisce Menelao con una freccia. Ma Atena lo protegge e rimane solo ferito.

Cosí la Diva Atena parlando, convinse lo stolto.
Súbito l’arco estrasse. Dei corni d’un capro selvaggio
fatto era, ch’ei medesimo aveva trafitto nel fianco,
stando all’agguato, mantre balzava giú da una rupe:
l’avea colpito al petto: caduto rovescio era il capro.
Lunghe sul capo aveva le corna ben sedici palmi:
bene acconciate entrambe le aveva l’artefice esperto,
e, rese lisce, d’oro vi avea sovrapposto l’anello.
Strinse agli estremi il nervo, per tenderlo, e a terra lo pose:
gli scudi innanzi, a schermo, tenevano i fidi compagni,
perché su non balzassero i prodi figliuoli d’Acaia,
pria che colpito fosse il figlio d’Atrèo, Menelao.
Dalla faretra, poi, levato il coperchio, uno strale
ne tolse, alato, nuovo, radice di negri cordogli.
Poscia, quando ebbe adattata sul nervo la freccia funesta,
rivolse a Febo, al licio signor delle cuspidi, il voto
che avrà d’agnelli nati di fresco una insigne ecatombe
quando tornato sarà nella ricca città di Zalèa.
E strinse, e tese insieme la cocca ed il nervo di cuoio:
a la mammella accostò la corda, la cuspide a l’arco:
ed ecco, quando al pari d’un cerchio fu teso il grande arco,
l’arco fischiò, la corda levò clangore alto, la freccia
cuspide acuta balzò, di volar fra le turbe bramosa.
Però, di te, Menelao, scordati non s’erano i Numi.
E prima fu la figlia di Giove, la Dea predatrice,
che, stando a te dinanzi, sviò l’amarissimo dardo.
Essa lo tenne lontano da te, come quando una madre
scaccia una mosca dal figlio, che posa in un dolce sopore,
e lo sviò, lo spinse dov’era da fibule d’oro
stretta la cintola bella, sí ch’ivi era doppio l’usbergo.
L’amaro dardo, qui si piantò, su la stretta cintura;
e traversò la bella cintura fuor fuori, l’usbergo
forò, tutto cosparso di fregi, e la lamina salda
che il re portava sopra la pelle, riparo dei dardi,
che l’avea spesso salvato; ma fu traversata anche quella
da parte a parte; e il dardo scalfí proprio a sommo la pelle;
e dalla piaga tosto sgorgò, nero e fumido, il sangue.
Come allorché l’avorio di porpora tinge una donna
meonia, oppur di Calia, per fare le borchie a una briglia,
e giaccion poi riposte: vorrebbero assai cavalieri
averle; e quelle, invece, rimangon serbate al sovrano,
che se n’adorni il corsiere, che n’abbia fulgor chi lo guida:
cosí parvero tinti di sangue i tuoi femori saldi,
o prode Atríde, i tuoi mallèoli schietti, e gli stinchi.
E tutto abbrividí Agamènnone re degli Atrídi,
come dalla ferita sgorgar vide livido il sangue:
anch’egli abbrividí Menelao, quando fuor dalla piaga
i ganci e il fil mirò che la punta legava alla canna,
l’alma gli refluí, con un tuffo improvviso, nel petto.
Ed Agamènnone re, levando un lamento doglioso,
disse, al fratello stringendo la mano; e piangevano tutti:
«Caro fratello, i patti per te furon patti di morte,
quando volesti, a pro’ degli Achivi, pugnar coi Troiani:
t’hanno cosí colpito, franti hanno i lor giuri, i Troiani!
Vani però non sono né giuri, né sangue d’agnelli,
né libagioni, né le destre che a fede stringemmo:
perché, sebben puniti non li ha su l’istante il Croníde,
li punirà più tardi: dovranno essi stessi scontare
a caro prezzo il fio, le loro consorti ed i figli.
Ché bene io questo so, me lo dicono il cuore e la mente;
giorno verrà che cadrà la rocca santissima d’Ilio,
e il re Priamo, e la gente di Priamo, di lancia maestro;
e Giove che dall’alto governa, il figliuolo di Crono
a cui dimora è l’ètra, su tutti, a punire l’inganno,
l’ègida crollerà sua fosca: tal fine essi avranno.
Ma fiera ognor sarà per te, Menelao, la mia doglia,
se tu muori, se qui si compie il destin di tua vita.
E ad Argo sitibonda scornato io dovrò ritornare —
ché subito gli Achei sentiranno desio de la patria —
e a Priamo ed ai Troiani lasciar, che ne menino vanto,
Elena argiva; e tu, senza avere compiuta la gesta;
in Troia giacerai, l’ossa tue marciranno pei campi.
E dire allora ognuno potrà dei superbi Troiani,
del glorioso re Menelao calpestando la tomba:
— Deh!, che la furia sua su tutti Agamènnone sfoghi
come or, che invano addusse l’esercito qui degli Achivi,
ed alla casa dove’ di nuovo tornare, alla reggia
con le sue navi, qui lasciando il fratel Menelao! — .
Tutti cosí diranno. Deh!, allora sotterra io già fossi!»
Ma cosí disse, per fargli coraggio, il buon re Menelao:
«Fa’ cuor, non sgomentare le turbe cosí degli Achivi:
non m’ha l’acuto dardo forata la carne profonda:
schermo dinanzi è stata la lucida cintola, e sotto
la lamïera, e la fascia temprata dagli abili fabbri».
E a lui queste parole rivolse Agamènnone sire:
«Deh!, se davvero fosse cosí, mio diletto fratello!
Ché Macaóne potrà medicar la tua piaga, e sovra essa
farmachi porre, che a te leniscan lo spasimo crudo».
Poscia, a Taltibio araldo si volse con queste parole:
«Taltibio, chiama qui, come prima tu puoi. Macaóne,
figlio d’Asclepio, del sommo fra i medici tutti, ché veda
il mio fratello, il figlio d’Atrèo, Menelao valoroso,
come qualcuno l’ha saettato, maestro dell’arco,
troiano o licio: vanto per lui, per noi tutti, cordoglio».
Cosí disse. L’udí, né fu tardo a ubbidire l’araldo,
e fra le schiere girò degli Achei loricati di bronzo,
a ricercar l’eroe Macaóne. Stava esso nel campo,
e stretti a lui d’attorno i saldi guerrier che da Trica
altrice di cavalli, venuti eran seco a la gesta.
Standogli presso, queste parole veloci gli disse:
«Sorgi, d’Asclepio figlio: ti chiama Agamènnone sire,
perché tu veda il prode signore d’Achei Menelao,
come l’ha saettato qualcuno, maestro dell’arco,
troiano o licio: vanto per lui, per noi tutti, cordoglio».
Cosí disse; e riscosse lo zelo nel cuor dell’eroe,
che fra le schiere mosse, per mezzo all’esercito achivo.
E come giunser poi dove re Menelao chioma bionda
giacea ferito, e intorno gli stavano tutti i piú prodi,
fra loro s’inoltrò quell’uomo di mente divina.
Dalla cintura che i fianchi stringeva pria tolse la freccia,
e nell’estrarla, indietro si videro i ganci piegarsi.
Poi la cintura sciolse, che tutta fulgeva, e di sotto
la lamïera e la fascia temprata dagli abili fabbri.
E quando vide, ov’era dischiusa dal dardo, la piaga,
il sangue ne succiò, la cosperse di farmachi blandi,
che dati un dí gli avea, per amor di suo padre, Chirone.
Ricomincia la guerra tra Achei e Troiani. Agamennone incita i suoi a combattere.

Ora, mentre erano intesi d’intorno al buon re Menelao,
ecco, le schiere innanzi venian dei Troiani; e gli Achivi
tornati entro i lor valli, di nuovo apprestaron la pugna.
Né sonnacchioso allora veduto Agamènnone avresti,
né trepidante, né tale che contro sua voglia pugnasse:
ma s’affrettava verso la pugna che gli uomini esalta.
Il cocchio abbandonò lucente di bronzo, e i cavalli:
tenne i cavalli in disparte, sbuffanti, il valletto Erimède,
figlio di Tolomèo, rampollo di Pèride: a questo
di stargli ingiunse sempre vicino, se mai la stanchezza
non gli vincesse i piedi, pel troppo girar fra le schiere.
Ed egli andava a piedi, movendo cosí fra le genti;
e quanti degli Achei vedeva affrettarsi alla pugna,
ad essi la parola volgeva, cosí l’incorava:
«Non desistete, Achivi, dal cozzo furente di guerra,
ché non vorrà Giove padre proteggere mai gli spergiuri;
ma quelli che per primi spezzarono i patti giurati,
dovranno gli avvoltoi sbranarne le membra disfatte,
e noi le spose ad essi dilette, ed i pargoli infanti
sopra le navi addurremo, poiché sarà Troia espugnata».
Ma quanti poi vedesse lasciare la pugna funesta,
rampogne fiere ad essi volgeva, ed irose parole:
«O prodi sol da lungi, pudor non avete, o codardi?
Perché siete cosí sbigottiti? Sembrate cervette,
che, quando molto han corso pei campi, si fermano stanche,
perché non hanno in petto coraggio: del pari sgomenti
siete rimasti voi, né piú combattete. I Troiani
forse aspettate, che qui sian giunti, ove fanno riparo,
sopra la spiaggia del mare canuto le rapide navi?
Forse volete vedere se Giove su voi tien le mani?».
Imperïoso, cosí girava fra tutte le schiere.
E giunse ov’era un grande tumulto di genti, e d’intorno
al prode Idomenèo si stringevano in arme i Cretesi.
Idomenèo moveva fra i primi, e pareva un cinghiale
per la ferocia: spingeva Meríone l’ultime schiere.
Li vide, e si allegrò Agamènnone re degli Achivi,
e queste a Idomenèo veloci parole rivolse:
«Te piú che i Dànai tutti maestri di prodi corsieri,
io pregio, Idomenèo, nella guerra, o in quale opra si voglia,
e nel banchetto, quando, raccolti i signori d’Acaia,
temprano dentro i cratèri il vino che annoso scintilla.
Perché degli altri Achivi chiomati, ciascuno tracanna
la parte sua; ma sempre son colmi il tuo calice e il mio,
dinanzi a noi, per bere, qualora ci venga la voglia.
Muovi alla pugna: e sii qual pure tu d’essere hai vanto».
Il duce Idomenèo rispose con queste parole:
«A te di certo, o figlio d’Atrèo, sarò fido compagno,
come t’ho pur dianzi promesso e giurato; ma gli altri
eccita adesso tu chiomati guerrieri d’Acaia,
perché presto alla guerra si lancino. Han franto i Troiani
il giuramento: perciò li attendono morte e cordoglio,
quando essi han vïolato per primi la fede giurata».
Cosí disse; e l’Atríde mosse oltre, gioendo nel cuore.
E giunse ove era un grande tumulto d’intorno agli Aiaci.
S’armavano essi entrambi: con loro di genti era un nembo.
Come allorché dall’alta vedetta montana, un capraro
vede una nube che avanza, da Zefiro spinta, sul mare;
l’osserva egli, e da lungi piú negra gli par della pece,
mentre sui flutti corre, guidando furor di procelle:
l’invade un gelo, e dentro lo speco sospinge la greggia:
similemente i forti guerrieri nutriti da Giove
all’odiosa guerra moveano d’intorno agli Aiaci,
fitte falangi brune, tutte irte di lancie e di scudi.
Li vide, s’allegrò nel cuore il figliuolo d’Atrèo,
e ad essi favellò, rivolse veloci parole:
«Aiaci, o condottieri d’Achei loricati di bronzo,
d’uopo non è ch’esorti voi due, né vi dica parola:
bene sapete da voi le genti esortare a prodezza.
Deh!, Giove padre, e Dio che lungi saetti, ed Atena,
se tale tutti quanti nel seno chiudessero un cuore!
Allora sí, che presa dovrebbe cader, saccheggiata
sotto le nostre mani, la rocca di Priamo eccelsa!».
E, cosí detto, qui lasciatili, ad altri si volse.
E Nèstore trovò, l’oratore dei Pilî facondo,
che disponeva a schiere, spronava i compagni alla zuffa;
e Pelagóne a lui d’intorno, ed Alàstore, e Cromio,
e col possente Emóne, Biante pastore di genti.
I cavalieri avanti schierava coi carri e i cavalli,
ed i pedoni in coda piú forti, perché negli scontri
fossero baluardo: spingeva nel mezzo i piú fiacchi,
sicché, pur contro voglia, combatter ciascuno dovesse.
Ai cavalieri prima parlò: li esortò che i corsieri
frenassero, perché non mettesser le turbe a scompiglio:
«Né per sfoggiare i cavalli veruno, o per troppo d’ardire
davanti ai suoi compagni s’avanzi a combattere solo;
né mai si faccia indietro: ché presto sarete allor vinti.
E chi, balzato giú dal suo carro, affrontar deve un carro,
tenda allo scontro la lancia, ché meglio riesce la prova.
Cosí gli antichi nostri, con tale coraggio nel petto,
con tali accorgimenti, cittadi espugnavano e rocche».
Dunque, cosí li eccitava l’antico maestro di guerra.
E molto s’allegrò Agamènnone re, che lo vide,
e, a lui parlando, queste rivolse veloci parole:
«O vecchio, deh!, se forti cosí come il cuore nel petto
tu le ginocchia avessi, se avessi vigor nelle membra!
Ma la vecchiaia che niuno risparmia, or t’abbatte. Potesse,
deh!, prendersela un altro, lasciandoti il fiore degli anni!».
E a lui rispose il vecchio Gerenio, maestro di guerra:
«Anche io, di certo, anche io, tale essere, Atríde, vorrei,
qual fui quando il divino Ereutalïone trafissi;
ma tutti insieme i doni non offrono i Numi ai mortali:
giovine allora fui, m’opprime or la tarda vecchiaia.
Ma, cosí pure, starò fra i miei cavalieri, e conforti
da me, consigli avranno: ché cómpito è questo dei vecchi;
e vibreranno intanto le lancie i piú giovani, tanto
piú vigorosi di me, che salda han la possa del braccio».
Cosí disse. L’Atríde trascorse, col giubilo in cuore.
E Menestèo trovò, di Petio figliuol, di cavalli
maestro; e intorno a lui, d’Atene i sagaci guerrieri.
E stava Ulisse a questi vicino, l’eroe tanto scaltro.
Dei Cefallèni attorno, non fiacche gli stavan le schiere;
ma non volgevano ancora la mente al clamore di guerra,
perché Troiani e Achivi lanciati allo scontro di guerra
s’erano adesso adesso. Sostavano dunque, attendendo
che degli Achei qualche altra falange movesse all’attacco,
contro i Troiani, e avesse principio cosí la battaglia.
Li vide; e, volto ad essi, l’Atríde signore di genti,
questa rampogna rivolse, parlando veloci parole:
«O tu, figlio di Pètio, signore nutrito dai Numi,
e tu, sperto di tutti gl’inganni, scaltrissima mente,
perché state in disparte, nascosti, ad attendere gli altri?
Anzi, voi due dovreste ben saldi fra i primi trovarvi,
ed affrontare primi la fiamma di guerra: ché primi
anche solete udire l’invito ch’io faccio al banchetto,
quando offrono un convito le genti d’Acaia ai primati.
Le carni arrosto allora gustare vi piace, e le tazze
vuotar, sin che c’è voglia, di vino piú dolce del miele!».
Ulisse lo guardò biecamente, e cosí gli rispose:
«Quali parole, Atríde, t’uscîr dalla chiostra dei denti?
Come puoi dire ch’io schivi la guerra? Fa’ tu che gli Atrídi
sui cavalieri troiani si lancin con l’urlo di guerra,
e tu vedrai, se voglia n’hai tu, se vederlo ti preme,
mischiato tu vedrai di Telèmaco il padre fra i primi
dei cavalieri troiani. Ma tu spargi chiacchiere al vento».
Ed Agamènnone re, vedendolo irato, rispose:
«O di Laerte figlio divino, scaltrissimo Ulisse,
rimproverarti piú non intendo, né darti consiglio:
ché nella mente tua, da sé, lo so bene, il tuo senno
ciò che bisogna fare comprende; e tu vuoi ciò ch’io voglio.
Via, se qualche parola spiacevole adesso t’ho detta,
poi ne faremo ammenda: ne sperdano i Numi il ricordo».
E, cosí detto, qui lasciatili, ad altri si volse.
Ed il figliuolo trovò di Tidèo, Dïomede superbo,
che tra i cavalli stava, tra i solidi cocchi di guerra.
Di Capanèo vicino gli stava il gagliardo figliuolo.
Stènelo; e s’adirò, vedendolo quivi, l’Atríde;
e, a lui, parlando, queste parole veloci rivolse:
«Ahimè, figlio del prode Tidèo, domator di cavalli,
ché ti rimpiatti, ché stai guardando la lizza di guerra?
Caro al cuor di Tidèo non era, cosí rimpiattarsi,
ma, precedendo i suoi compagni, affrontare il nemico.
Cosí dicea chi all’opra lo vide: ch’io mai non lo vidi,
né m’imbattei con lui: fra tutti, diceano, era primo.
Ospite, senza armati, giunse egli una volta a Micene,
con Poliníce divino, per quivi raccogliere gente;
ch’essi di già contro Tebe divina mossi erano a campo.
Molto pregarono lí, per avere sí prodi alleati.
E pronti erano quelli, disposti alle loro richieste,
ma li distolse Giove, mandando funesti presagi.
Or, poi che furono mossi, già innanzi nel loro cammino,
vicino ai letti d’erbe dell’Àsopo, ai fitti giuncheti,
un’ambasciata quivi mandaron gli Achivi a Tidèo,
per invitarlo. Egli andò, e molti trovò dei Cadmèi,
raccolti entro la casa d’Etèocle forte, a banchetto.
E qui, sebbene estràneo, Tidèo domator di cavalli,
non sbigottí, sebbene fra tanti Cadmèi solo fosse:
anzi, a tenzone tutti sfidatili, tutti li vinse
agevolmente: cosí gli fu soccorrevole Atena.
Ora i Cadmèi, di cavalli maestri, salirono in ira;
e quando egli partí, condotti cinquanta guerrieri,
gli tesero un agguato. Due furono duci all’impresa,
Mèone, figlio d’Emóne, che un Nume sembrava d’aspetto,
e Polifonte, figlio d’Antífone saldo a la pugna.
Ma trista sorte incombe’ su tutti, mercè di Tidèo:
tutti li uccise: un solo lasciò che tornasse al suo tetto:
lasciò Mèone: a ciò l’indusser dei Numi i prodigi.
Tal fu Tidèo d’Etolia; però diede vita ad un figlio
minor di lui nei fatti, sebbene piú pronto di lingua».
Cosí diceva. E nulla rispose il Tidíde gagliardo
alla rampogna del re, perché reverenza lo tenne.
Di Capanèo glorïoso invece rispose il figliuolo:
«Non dire, Atríde, cose che vere non sono, e lo sai.
Noi ci vantiamo che siamo di molto migliori dei padri.
Noi la rocca espugnammo di Tebe settemplice; e poca
la gente fu che sotto le solide mura adducemmo;
ma ci affidava il presagio dei Numi, e il valore di Giove.
Invece, per la loro stoltezza perirono quelli:
per questo, il pregio loro non mettere a pari col nostro».
Ma bieco lo guardò Dïomede gagliardo, e rispose:
«Stolto, non dire piú oltre, a quello ch’io dico obbedisci.
Non io m’adirerò col sommo dei principi Atríde,
quando egli a guerra esorta gli Achei dai fulgenti schinieri;
perché la gloria avremo con lui, se i guerrieri d’Acaia
vincer potranno i Troiani, le mura di Troia espugnare,
con lui l’amaro lutto, se vinti saranno gli Achivi.
Orsú, dunque, anche noi corriamo ove infuria la pugna».
Disse; e dal cocchio a terra balzò, tutto chiuso nell’armi;
e nel balzare, il bronzo squillò sopra il petto del duce,
terribilmente, che avrebbe percosso ogni cuore piú ardito.
Achei e Troiani si scontrano; morti e feriti

Come allorché su la spiaggia, che tutta risuona, del mare,
un cavallone sorge, cui Zefiro spinge ed accresce:
prima, nel piano del mare si leva: con alto frastuono
contro la spiaggia poi si spezza, e d’intorno agli scogli
curvo s’innalza, colmeggia, via spruzza la schiuma ed il sale:
cosí l’una su l’altra moveano dei Dànai le schiere
alla battaglia, senza mai tregua: ciascuno dei duci
gli ordini dava; e muti movevano gli altri: né tanta
turba tu detto avresti che fiato chiudesse nel petto:
parola non s’udiva, ché i duci temevano; e lampi
versicolori dall’armi sprizzavano. Invece, i Troiani,
come s’addensan, per essere munte, le pecore, a mille
a mille, entro la stalla d’un uomo opulento, e belati
levano senza mai tregua, quand’odon la voce dei figli:
tal dalle fitte schiere troiane sorgeva tumulto;
ché non lo stesso accento né avevan la stessa loquela,
ma d’ogni parte accozzate le genti, le lingue commiste.
E Marte li eccitava e Atena dagli occhi azzurrini,
ed il Terrore, la Fuga, la Rissa che mai non si placa,
la Rissa, ch’è compagna di Marte omicida, e sorella,
che piccola da prima si vede levarsi, ed al cielo
poi con tutta la testa poggia, premendo coi piedi la terra.
Essa fra loro gittò la furia che tutti dissenna,
moltiplicò, fra le turbe movendo, degli uomini il pianto.
E quando l’una all’altra vicine fûr giunte le schiere,
un cozzo quivi fu di lancie, d’usberghi, di scudi,
di bellicosa furia. Si videro i grandi palvesi
congiungersi nell’urto, levandosi fiero frastuono.
E di trionfo grida sorgevano insieme, e lamenti
di vincitori e di vinti: di sangue scorreva la terra.
Come allorché, di neve rigonfi, dai vertici alpestri
scendono i fiumi, e la piena dell’acque in un solo ricetto
versano, giú dalle grandi sorgive, in un concavo abisso,
ed il pastore n’ode, lontano pei monti, la romba:
tali dei combattenti quivi erano il cozzo ed il grido.
Qui, prima Antíloco uccise di Tàliso il figlio, Echepòlo
prode che, chiuso nell’arme, pugnava fra i primi Troiani:
ché lo colpí sul frontale dell’elmo ondeggiante di crini.
Si conficcò nella fronte, per l’osso forato, al cervello
giunse la punta di bronzo, fûr gli occhi di tenebre avvolti
e giú, come una torre, piombò nella cruda battaglia.
Lui caduto, afferrò pei piedi Elefènore prode,
di Calcodonte figlio, signor dei magnanimi Abanti;
e lo traeva lungi dai dardi, per cupida brama
di far súbita preda dell’arme; e fûr brevi i suoi passi.
Ché Agenore lo vide, mentr’ei trascinava il defunto,
e lo colpí con la lancia sul fianco, ché mentre ei moveva
curvo, difeso piú dallo scudo non era, e lo spense.
L’alma cosí perde’. Su lui di Troiani e d’Achivi
aspra s’accese allora la zuffa: parevano lupi
lanciandosi all’assalto, con l’uomo affrontandosi l’uomo.
Il Telamonio Aiace ferí qui Simesio, figliuolo
d’Antènore, gagliardo, nel fiore degli anni. La madre
lo generò, del Simèto vicino alle sponde: era quivi
a sorvegliar le greggi discesa coi suoi genitori;
e lo chiamaron perciò Simesio. Né al padre, alla madre,
render pote’ le cure: ché presto compie’ la sua vita;
e dalla lancia d’Aiace magnanimo cadde trafitto,
che lo colpí mentr’egli moveva. La lancia di bronzo
sotto la mamma destra s’infisse, ed uscí da la spalla.
E a terra egli piombò, nella polvere, pari ad un pioppo
che dritto e liscio cresce nel mezzo d’un’ampia palude:
qui le radici; e i rami si spaziano altissimi in cielo;
ed un maestro di carri lo taglia col lucido ferro,
per poi curvarlo, e farne la ruota d’un fulgido carro;
e giace arido il tronco, del fiume vicino alle sponde.
Cosí percosse Aiace divino il figliuolo d’Antemio,
Simesio. E fra le turbe, di Priamo il figlio guerriero
Àntifo, contro lui vibrò la sua lunga zagaglia,
né lui colpí; ma Leuco, d’Ulisse diletto compagno,
nell’anguinaia colpí, mentre via trascinava un defunto.
Ei sovra il morto piombò, ché il corpo di mano gli scórse.
Ed ecco, d’ira il cuore d’Ulisse avvampò per l’ucciso.
Dove le prime schiere pugnavano, mosse, fulgente
tutto nel bronzo, avanti si fece, lanciò la zagaglia
vibrando attorno gli occhi. Si fecero lungi i Troiani,
mentre quel prode il colpo vibrava. Né il colpo fu vano:
Democoónte colpí, di Priamo figlio bastardo,
ch’era d’Abído giunto, sui rapidi suoi corridor.
Ulisse lo colpí, crucciato pel morto compagno,
sopra una tempia; e uscí fuor fuori la punta di bronzo
dall’altra tempia: buio si stese a coprirgli le ciglia
diede cadendo un rimbombo, su lui rintronarono l’armi.
Gli Achei dapprima avanzano, ma Apollo incoraggia i Troiani a non lasciarsi sopraffare.

E si ritrassero i primi guerrieri con Ettore prode.
Alto innalzaron clamore gli Achei, lunge trassero i morti,
e avanti molto piú si spinsero. E Apollo, volgendo
gli occhi su Pergamo, d’ira fu pieno, e si volse ai Troiani:
«Scuotetevi, su via, Troiani, e dinanzi agli Argivi
più non fuggite! La pelle di pietra non han, né di ferro,
da rintuzzare, quando li offenda, la furia del bronzo!
Neppur combatte Achille, vedete! Di Tètide il figlio,
cova, presso le navi, la bile che il cuore gli rode».
Febo terribile disse cosí dalla rocca; e la figlia
di Giove, la famosa, la diva Tritònide, mosse
ad eccitar gli Achivi, dovunque cedessero il campo.
Quivi la Parca abbatté Diòre figliuol d’Amaranco.
Colpito fu da un sasso tutto aspro allo stinco sinistro,
presso al malleolo: scagliato l’aveva d’Ìmbraso il figlio,
Peiròo, ch’era qui d’Àino venuto alla testa dei Traci.
I tendini anche e l’ossa sfracellò l’immane macigno;
cadde l’eroe nella polve rovescio, ed entrambe le palme
tendéa verso gli amici, traendo l’estremo respiro.
E sopra allor Peiróo gli fu, che l’aveva colpito,
e presso all’umbilico gl’immerse la lancia: l’entragne
tutte si sparsero a terra, sugli occhi gli corse la notte.
Ma contro Peiróo che indietro balzava, Toante
Ètolo sotto la mamma, vibrò la sua lancia: la punta
si conficcò nel polmone. Toante, venutogli accosto,
la grande asta dal petto strappò, trasse fuori la spada,
e in mezzo al ventre un colpo vibrò, che gli tolse la vita.
Ma non pote’ spogliarlo: d’intorno gli furono i Traci
dall’irte chiome, in pugno stringendo le lunghe zagaglie;
e, sebben grande ei fosse, gagliardo, d’aspetto tremendo,
lungi lo tennero; ed egli dove’ furibondo ritrarsi.
Cosi, l’un presso l’altro rimasero a terra giacenti.
i condottier degli Achei loricati di bronzo, e dei Traci,
e spenti attorno ad essi giacevan molti altri guerrieri.
Davvero, chi si fosse trovato presente a tal gesta,
chi, dalle piaghe inferte da lungi o da presso, non tocco,
quivi si fosse aggirato, e Pallade Atena, per mano
presolo, lungi da lui tenesse la furia dei colpi,
misera dir non avrebbe potuto la zuffa: tal copia
d’Achivi e di Troiani riversa giacea ne la polve.
Atena e Marte lasciano che la battaglia faccia il suo corso. Gli Achei uccidono molti Troiani.
Quivi al figliuol di Tidèo Dïomede, die’ Pallade Atena
tanto vigore e tanto coraggio, che insigne fra tutti
gli uomini d’Argo paresse, che grande ne fosse la gloria.
E balenar gli fece dall’elmo e lo scudo una fiamma
simile all’astro che sorge d’Autunno, che più d’ogni stella
fulgido appare, poiché s’è bagnato nei flutti del mare.
Tale dagli omeri a lui, dal capo bruciava una fiamma.
E si lanciò nel mezzo, dov’era più fitta la zuffa.
Eravi qui, fra i Troiani, un certo Darète, opulento,
d’Efèsto sacerdote, da biasimo immune: due figli
aveva, Idèo, Fegèo, maestri in ogni ordin di pugne.
Questi, dai loro compagni spiccatisi, entrambi sui carri
contro gli vennero; e a terra, pedone, movea Dïomede.
Or, come gli uni su l’altro movendo, già eran vicini,
primo Fegèo la zagaglia lanciò, che gittava lunga ombra.
Giunse la punta a colpire su l’omero manco il Tidíde,
né lo ferí. Secondo lanciò la zagaglia il Tidíde,
né vana l’asta usci di sua mano: lo colse nel petto,
tra l’una e l’altra mamma, piombare lo fece dal carro.
A terra Idèo balzò, lasciando il bellissimo cocchio,
né rimanere osò vicino al fratello caduto.
Ma neppur egli avrebbe sfuggita la livida Parca,
se nol traeva Efesto lontano, coprendolo d’ombra,
ché non piombasse troppo cordoglio sul vecchio suo padre.
E Dïomede, cuore gagliardo, staccati i cavalli
dai carri, ai suoi compagni li die’, per recarli alle navi.
Ora i Troiani, poiché di Darete i due figli ebber visti
l’uno fuggiasco, l’altro caduto vicino al suo carro,
turbato ebbero il cuore. E Atena dagli occhi azzurrini,
preso per mano Marte furente, cosí gli diceva:
«Marte, Marte, sterminio di genti, assetato di sangue,
espugnatore di rocche, perché non lasciam che da soli
pugnino Achivi e Troiani, che Giove dia gloria a chi vuole,
e noi stiamo in disparte, sfuggendo allo sdegno del padre?».
E, cosí detto, trasse lontan dalla pugna il furente,
e su le ripe sedere lo fe’ dell’erboso Scamandro.
Fecero allora i Dànai piegare i Troiani. Ciascuno
dei duci uccise un uomo. Per primo Agamènnone Atríde,
gittò dal carro Odío, degli Alízoni il grande signore:
ché mentre ei volta dava per primo, nel dorso gl’infisse
fra le due spalle l’asta, che uscire dal petto si vide.
Diede, cadendo, un tonfo, su lui rintronarono l’armi.
Idomenèo trafisse di Boro Meonio il figliuolo,
Faisto. Venuto egli era dai fertili campi di Tarne.
Idomenèo, maestro di lancia, col frassino lungo
lo colse, mentre il cocchio saliva, su l’omero destro.
Piombò dal carro, e l’ombra di morte funesta lo avvolse:
d’Idomenèo gli amici spogliaron dell’armi il caduto.
E Menelao, figliuolo d’Atrèo, con la cuspide acuta
Scamandrïo colpí, cacciatore figliuolo di Strofio.
Mastro di cacce egli era, ché Artemide stesso insegnato
gli avea come feríre per monti e foreste le belve.
Ma poco or gli giovò la Diva che avventa gli strali,
poco i precisi tiri che fama gli diedero un giorno:
ché lo colpí Menelao, l’Atríde maestro di lancia,
mentre dinanzi a lui fuggiva. Lo colse nel dorso:
diede, cadendo, un tonfo, su lui rimbombarono l’armi.
Poi, Merïone uccise di Tèttone Armònide il figlio,
Fèreclo, artefice esperto di quanti son vaghi lavori,
ché prediletto molto egli era di Pallade Atena.
Ad Alessandro aveva costui fabbricate le navi,
origini di mali, sciagura per tutti i Troiani,
e per lui stesso: ch’egli dei Numi ignorava i presagi.
E Merïone, dunque, che l’ebbe inseguito e raggiunto,
entro la clune destra gl’infisse la lancia; e la punta
dalla vescica fuori gli usci, sotto l’osso del pube:
sulle ginocchia piombò gemendo, e lo avvolse la morte.
Mese uccise Pedèo, d’Antènore figlio. Bastardo
egli era; e pur cresciuto l’aveva Teano divina
insiem coi figli suoi, per fare piacere allo sposo.
A lui dunque vicino si fece il figliuolo di File,
e gli colpí la nuca di dietro, col cuspide aguzzo.
La punta usci fuor fuori, tra i denti, di sotto la lingua:
coi denti il freddo bronzo stringendo, piombò nella polve.
Euripílo figliuolo d’Evèmone, a Ipsènore morte
diede, al figliuolo di Dolopïone, dal cuore superbo,
che sacerdote fu di Scamandro, e dal popolo onori
aveva, come un Dio. D’Evèmone il fulgido figlio,
dunque, l’uccise al corso, mentre egli fuggiva: la spada
vibrò su la sua spalla, recise il suo braccio gagliardo;
e cadde a terra il braccio, bagnato nel sangue; e le ciglia
invase a lui la Morte sanguigna, e la Parca possente.
Diomede viene ferito da Pandaro. Ma Atena lo aiuta e torna a combattere e a fare strage

Nella battaglia penosa cosí travagliavano questi.
Né dir saputo avresti con chi combattesse il Tidíde,
se coi Troiani insieme, oppur con gli Achei combattesse:
ché furioso pel campo correa, come un fiume rigonfio
colmo di nevi, che corre precipite, e gli argini spezza:
le fitte dighe piú non valgono a porgli riparo,
non valgon piú le chiuse dei floridi campi a frenarlo,
quando improvviso giunge, crosciando la pioggia di Giove,
e sotto la sua furia rovinano i fertili cólti:
cosí sotto il Tidíde le fitte falangi di Troia
si scompigliavano, né, benché fitte, gli stavano a fronte.
E di Licàone allora lo vide il bellissimo figlio,
mentr’egli sgominava, pel campo, cosí le falangi;
e súbito mirò, con l’arco ricurvo, al Tidíde,
e mentre egli irrompeva, lo colse nell’omero destro,
al cavo dell’usbergo. Fuor fuori l’amara saetta
usci dal lato opposto, si tinse l’usbergo di sangue.
E un alto grido alzò di Licàone il fulgido figlio:
«Coraggio, su, Troiani magnanimi, prodi guerrieri,
ch’è degli Achivi il piú prode feríto, né credo ch’ei possa
piú sopportar la doglia del dardo crudele, se vero
è che mi spinse qui, dalla Licia, il figliuolo di Giove!».
Tal vanto egli gridava: né cadde però Dïomede:
ma, trattosi in disparte, dinanzi ai cavalli ed ai carri,
stette, e chiamò l’eroe Capanèide, Stènelo, e disse:
«O buono, or dunque su, Capanèide, scendi dal carro,
ché da la spalla mia tu svelga l’amara saetta!».
Disse l’eroe cosi. Balzò Stènelo a terra dal cocchio,
presso gli stette, estrasse fuor fuori dall’omero il dardo;
e il sangue zampillò traverso la tunica fitta:
onde cosí pregò Dïomede, alto grido di guerra:
«Odimi, o figlia di Giove l’egíoco, intatta fanciulla:
se mai con cuore amico vicina tu fosti a mio padre
nelle battaglie, anche a me propizia ora mostrati, Atena:
fa’ che quell’uomo io colga, che a tiro di lancia mi giunga,
che mi colpí per primo, che vanto or ne mena, che dice
ch’io non vedrò piú a lungo la lucida vampa del sole».
Cosí disse pregando; né sorda fu Pallade Atena:
agili rese a lui le membra, le braccia ed i piedi,
e, stando a lui vicina, parlò queste alate parole:
«Fa’ cuore, Dïomede, avvèntati sopra i Troiani:
ché infusa adesso t’ho nel petto l’intrepida furia
ch’ebbe tuo padre Tidèo, cavaliere dall’orrido scudo,
e la caligine spersi che già t’ingombrava le ciglia,
perché distinguer bene tu possa dagli uomini i Numi.
Perciò, se adesso un Nume qui viene, e ti provoca a zuffa,
a faccia a faccia tu non volerti azzuffare coi Numi:
con niun dei Numi: solo se viene a battaglia Afrodite,
ferisci pur col bronzo lucente la figlia di Giove».
E, cosí detto, partí la Diva dagli occhi azzurrini.
Mosse di nuovo il Tidíde, fu misto coi primi alla zuffa.
E se già prima aveva desio di pugnar coi Troiani,
ora tre volte tanto ne ardeva: pareva un leone,
quando nei campi, un pastore, preposto alle greggi villose,
poi che d’un balzo l’alto recinto ei varcò, lo scalfisce,
ma non l’abbatte; e la furia ne accresce; né attenderlo ardisce,
ma ne la stalla si caccia: sgomentan le pecore intanto,
abbandonate, e l’una sull’altra s’addossano fitte;
e poi l’avida belva precipita fuor dall’ovile:
tal Dïomede piombò furibondo nel mezzo ai Troiani.
Astinoo quivi uccise, e Ipèrone, sire di genti,
su la mammella questo ferendo con l’asta affilata,
e all’altro poi colpí la clavicola presso a la spalla,
e netta gli spiccò la spalla dal dorso e dal collo.
E quivi li lasciò, per seguire Políbide e Abante,
d’Euridamante figli, del vecchio indovino di sogni.
E male interpretò, quando essi partirono, i sogni:
ché Dïomede, il forte guerriero, prostrò l’uno e l’altro.
E contro Xanto, e contro Toóne, di Fènope figli,
mosse: fiorenti entrambi; ma vecchio cadente era il padre,
e non aveva altri figli a cui le sostanze lasciasse.
Qui Dïomede li uccise, la vita soave ad entrambi
rapí, lasciando al padre cordogli e lamenti di lutto,
ché dalla guerra vivi tornare mai piú non li vide,
e fra remoti parenti divisi gli andarono i beni.
Qui due figliuoli poi di Priamo dardànide colse,
che su lo stesso carro pugnavano, Echèmone e Cromio.
Come in un bosco un leone, piombando sui bovi pascenti,
d’una giovenca spezza, d’un bue la cervice: del pari
dal carro li abbatté, ché invan reluttarono, entrambi,
con duro urto, il Tidíde; e poi li spogliava dell’armi;
ed i cavalli die’, per portarli alle navi, ai compagni.
Enea chiama Pandaro sul suo carro ed entrambi si lanciano su Diomede. Ma lui è pronto ad affrontarli insieme a Stenelo

Lo vide allora Enea, mentre egli struggeva le schiere,
e mosse, e si scagliò fra la zuffa e il tumulto dell’aste,
se mai Pàndaro, nume nel volto, trovare potesse.
Ed il gagliardo trovò di Licàone figlio perfetto,
e stette presso lui, gli parlò con veloci parole:
«Pàndaro, l’arco tuo, le alate saette ove sono,
la fama tua, dov’è? Contendere niuno può teco,
in Licia uomo non v’è che vincerti al tiro si vanti.
Supplice leva a Giove le mani, e poi lancia uno strale
sopra quest’uomo ch’e tanto gagliardo, che tanti ai Troiani
malanni inflisse, a tanti guerrieri fiaccò le ginocchia.
Se pure egli non è qualche Iddio, che punisce i Troiani
d’una mancata offerta: terribile è l’ira dei Numi».
Rispose a lui cosí di Licàone il fulgido figlio:
«Enea, sagace re dei Troiani coperti di bronzo,
simile in tutto mi sembra quell’uomo al feroce Tidíde:
ch’io riconosco, quando lo guardo, lo scudo, i cavalli,
l’alta criniera dell’elmo. Se poi fosse un Nume, l’ignoro.
Se invece un uomo è quello ch’io dico, il figliuol di Tidèo,
ei non infuria, no, senza aiuto d’un Dio; ma vicino
un qualche Iddio gli sta, con gli omeri avvolti di nebbia,
che un dardo aguzzo, bene diretto su lui, torse altrove:
ché un dardo io gli scagliai di già, lo colpii su la spalla
destra, e fuor fuori usci dalla piastra convessa la punta:
ond’io credevo già d’averlo piombato in Averno,
né tuttavia l’uccisi: fu certo un Celeste adirato.
E qui non ho cavalli né carri che ascendere io possa;
e nella casa mia ci sono ben undici carri
belli, costrutti or ora, nuovissimi, e sopra distesi
ci sono i pepli; e due cavalli vicini a ognun d’essi
stanno, che d’orzo bianco si nutrono in copia, e di spelta.
Licàone, il vecchio eroe, piú volte me l’ebbe già detto,
quando, per venir qui, la bella mia casa lasciai:
egli mi consigliò che venissi coi carri e i cavalli,
se comandare ai Troiani dovessi negli aspri cimenti.
Ma non seguii quel consiglio, che, pure, quanto era migliore!,
per risparmiare i cavalli, che a lor non mancasse il foraggio
entro la rocca assediata; ché a lauto cibo son usi.
A casa li lasciai cosí, venni a Troia pedone,
nell’arco mio fidando, che nulla doveva giovarmi:
ché io già contro due dei primi ho lanciato due frecce,
contro il Tidíde, e contro l’Atríde; ed il sangue d’entrambi
feci sprizzare; ma poi li resi piú fieri alla pugna.
Con malo augurio l’arco ricurvo spiccai dal suo chiodo,
quel giorno ch’io partii, guidando alla guerra i miei Lici,
verso l’amabile Troia, per far cosa ad Ettore grata.
Ma s’io ritornerò, se vedere potrò con questi occhi
la patria mia, la sposa, l’eccelsa, la bella mia casa,
súbito allora possa qualcuno mozzarmi la testa,
se io con queste mani quest’arco non spezzo, e lo gitto
sopra la fiamma lucente; ché vana è la sua compagnia».
E a lui di contro Enea, signor dei Troiani, rispose:
«Non dire, no cosí: cambiar non potranno le cose,
prima che contro quest’uomo, tu ed io, coi cavalli e col carro
non ci avventiamo, e prova con lui non facciamo di forza.
Sali sul carro mio, su, dunque, ché tu veda bene
quali i cavalli sono di Tròo, come sanno pel piano
velocemente qua, là, l’inimico incalzare, o fuggire:
ché in salvo alla città di nuovo condurci sapranno,
se Giove ancora vuole coprire di gloria il Tidíde.
Su via, prendi la sferza, le lucide redini; ed io
giú scenderò dal carro, per farmegli contro alla zuffa:
oppure l’urto suo tu sostieni, ed io bado ai cavalli».
E di Licàone a lui rispose il bellissimo figlio:
«Enea, reggi tu, dunque, le lucide briglie e i cavalli:
sotto la solita mano, piú docili il carro trarranno,
se mai dovremo ancora fuggir Dïomede: ch’io temo
ch’essi sgomenti s’adombrino, indugino, e fuor da la zuffa
piú non ci rechino, quando non odano piú la tua voce,
ed il figliuol di Tidèo, magnanimo cuore, su noi
piombi, e ci stermini entrambi, ci rubi i veloci cavalli.
I tuoi corsieri, dunque, tu stesso conduci, e il tuo carro:
io l’urto di costui sosterrò con l’aguzza mia lancia».
Dette queste parole, saliti sul cocchio dipinto,
spinsero contro il Tidíde, furenti, i veloci cavalli.
Stènelo, di Capanèo bellissimo figlio, li vide,
e tosto favellò queste alate parole al Tidíde:
«O figlio di Tidèo, Dïomede diletto al mio cuore,
io due gagliardi vedo che piomban su te furibondi.
La loro forza è immensa. L’un d’essi è maestro dell’arco:
Pàndaro; egli si gloria che vita Licàone gli diede.
E l’altro, Enea: d’Anchise, guerriero magnanimo, vanto
mena che nacque; ed è sua madre la Diva Afrodite.
Su via, cerchiamo scampo sul cocchio; né a piedi lanciarti
piú tra le prime file, ché perder non debba la vita».
Ma bieco lo guardò, Dïomede, cosí gli rispose:
«Non mi parlar di paura, ché io non t’ascolto di certo.
L’indole mia, non è di schivare i pericoli in guerra,
di sbigottire: in petto ben saldo il vigore mi sento.
Salire sopra il carro, l’ho a noia; ma, pure pedone,
li affronterò: non vorrà ch’io trepidi Pàllade Atena;
e non potranno i loro veloci corsieri, di nuovo
da noi portarli entrambi lontani, se l’uno pur fugga.
Un’altra cosa poi ti dico, e tu figgila in mente.
Se mai Pallade Atena, la Diva dai molti consigli,
la gloria a noi concede ch’entrambi io li uccida, tu lascia
questi cavalli qui, le redini al carro assicura;
e sui cavalli d’Enea avvèntati, e via dai Troiani
spingili a forza, verso gli Achivi. Ricordalo bene:
ché son di quella razza che Giove in compenso al re Tròo
diede pel figlio suo Ganimede. Pertanto, i migliori
sono, fra quanti cavalli contemplano il Sole e l’Aurora:
Di questi, Anchise re la razza furò: di nascosto
ei sottopose le proprie puledre ai corsieri divini;
da quelle, sei cavalli gli nacquero nella sua reggia.
Quattro li tenne per sé, li nutriva egli stesso alla greppia,
due ne diede ad Enea, maestro dell’orrida guerra.
Se noi li prenderemo, sarà gloria insigne la nostra».
L’uno con l’altro, cosí scambiavano queste parole.
Pandaro ferisce Diomede, che poi lo uccide; Diomede sta per uccidere anche Enea con un pesante masso, ma Afrodite lo salva.

E presto giunser gli altri, spingendo i cavalli, a lor presso;
e primo favellò di Licàone il fulgido figlio:
«Animo forte, cuore gagliardo, mirabil Tidíde,
il dardo mio, l’amara saetta, non valse a prostrarti:
adesso proverò con la lancia, se meglio io ti colgo».
Disse, vibrò, scagliò la lunga sua lancia; e il Tidíde
colpí sopra lo scudo. Fuor fuori la punta di bronzo
passò lo scudo a volo, raggiunse l’usbergo. A quel colpo
un grido alto levò di Licàone il fulgido figlio:
“Da parte a parte sei feríto, nell’anca; né penso
che a lungo reggerai: m’hai data non piccola gloria!».
Ma non si sgomentò Dïomede, e cosí gli rispose:
«Fallito hai, ché feríto non sono; ma il campo lasciare
voi non potrete, prima che uno di voi non soccomba
e col suo sangue Marte, feroce guerriero, non plachi».
Detto cosí, la lancia scagliò. Guidò Pallade il colpo,
nel naso, presso l’occhio. Passando fra i lucidi denti,
alla radice la lingua recise il durissimo bronzo,
e balzò fuori, presso l’estrema mascella, la punta.
Piombò dal cocchio giú, su lui rintronarono l’armi
lucide varïopinte: invase terrore i cavalli
rapidi; e quivi all’eroe mancarono spirito e forze.
Enea giú balzò allora, con l’elmo suo lungo e lo scudo,
temendo che gli Achei rapirgli potesser la salma.
E intorno a lui girava, pareva un gagliardo leone,
e innanzi a sé tendeva la lancia e lo scudo rotondo,
pronto ad uccider chiunque venuto gli tosse vicino,
ed alti urli levava. Ma prese il Tidíde un macigno,
un masso grande, quale portar non potrebbero in due
gli uomini d’oggi; ed egli potea palleggiarlo da solo,
senza fatica. Enea con questo colpíva nel punto
dove la coscia all’anca s’innesta: acetàbolo è detto.
Il sasso aspro schiacciò l’acetàbolo, i tendini entrambi
ruppe, via gli strappò la pelle. Piombò sui ginocchi
l’eroe, la mano sua robusta puntando alla terra,
oscura notte agli occhi d’intorno gli cadde, a coprirli.
E avrebbe quivi Enea sovrano incontrata la morte;
ma con l’acuto sguardo lo vide sua madre Afrodite,
la Dea che concepito l’aveva ad Anchise pastore.
Stese d’intorno al figlio diletto le candide braccia,
un lembo a lui dinanzi piegò del suo fulgido peplo,
ché a lui fosse riparo dei dardi, né alcuno potesse
dei cavalieri Dànai colpírlo, levargli la vita.
Cosí traeva il figlio diletto lontan dalla zuffa.
Diomede insegue Afrodite e la ferisce ad una mano. Enea viene allora soccorso da Apollo, mentre Afrodite si rifugia nell’Olimpo, da sua madre Diona

Ma Stènelo i comandi non pose in oblio che diretti
gli aveva il figlio pro’ di Tidèo, Dïomede guerriero:
anzi, i cavalli suoi solidunguli, tenne lontani
dall’estuar della zuffa, legando le redini al carro,
e si lanciò sui cavalli d’Enea da le belle criniere,
e dai Troiani lungi li spinse, dov’eran gli Achivi,
a Dípilo li die’, suo compagno diletto, che caro
gli era, fra quanti aveva compagni d’età, che concordi
spiriti aveva in cuore, perché li recasse alle navi.
Ed egli, poi, salí sul carro, le redini prese,
e furioso i cavalli dal solido zoccolo spinse
verso il Tidíde. Questi col bronzo spietato inseguiva
Cipride. Aveva inteso ch’ella era una Dea senza forze,
non già di quelle Dee che reggon le sorti di guerra,
non Enïò che le rocche distrugge, non Pallade Atena.
E come l’ebbe poi, dopo lungo inseguirla, raggiunta,
qui le si fece sopra il prode figliuol di Tidèo,
e con la cuspide il sommo ferí della morbida mano.
Facile fu che il ferro la morbida mano forasse
traverso il peplo ambrosio che avevan tessuto le Grazie,
alla radice del palmo. E il sangue immortal della Diva
sprizzò, l’icore, che per le vene dei Superi corre:
per questo esangui pure son detti, son detti immortali.
Essa, lontano da sé, lasciò, con gridi alti, il figliuolo;
e lui tra le sue mani raccolse, a proteggerlo, Febo,
dentro una nuvola azzurra, ché niuno dei Dànai potesse
vibrargli dentro il seno la lancia, e levargli la vita.
E un alto grido allora levò Dïomede gagliardo:
«Figlia di Giove, resta lontana da guerre e da zuffe.
Che non ti basta piú sedurre le femmine imbelli?
Però, se fra le zuffe vuoi pure aggirarti, ti dico
che inorridire, solo pel nome di guerra, dovrai»
Disse. E fuori di sé, la Diva, pel fiero tormento,
s’allontanava. Ed Iri la prese, la trasse lontano,
tutta dogliosa; e il volto suo bello era livido fatto.
E Marte impetuoso, seduto a sinistra del campo,
trovò: nebbia celava la lancia e i veloci cavalli.
Essa a ginocchi piombò dinanzi al fratello diletto,
e i rapidi cavalli gli chiese con calda preghiera:
«Fratello mio diletto, soccorrimi, dammi i cavalli,
ché io giunga in Olimpo, dove hanno soggiorno i Celesti.
Troppo la piaga mi duole che un uomo mortale m’inferse,
il figlio di Tidèo, che a pugna verrebbe con Giove».
Disse. E Marte i corsieri dagli aurei frontali le diede.
La Diva ascese il carro, con l’animo pieno di doglia.
Iride presso a lei salí, strinse in pugno le briglie,
vibrò la sferza; e lenti non furono al corso i cavalli.
Giunsero presto alla sede dei Numi, alla cima d’Olimpo.
Quivi i cavalli fermò la Diva dai pie’ come il vento,
li sciolse, pose ad essi dinanzi l’ambrosio foraggio.
Ed Afrodite sulle ginocchia a sua madre Dióna
piombò. Dióna accolse la figlia stringendola al seno,
a carezzarla tese la mano, e le disse: «Figliuola
cara, qual mai degli Uràni t’ha senza ragione ferita,
come se innanzi agli occhi di tutti tu avessi fallito?».
E le rispose cosí l’amica del riso Afrodite:
«Il figlio di Tidèo mi ferí, Dïomede superbo,
perché fuor della mischia traevo il mio figlio diletto.
Enea, ch’è pel mio cuore diletto fra gli uomini tutti.
Ché fra Troiani ed Achei piú non arde l’orribile pugna,
ma con gli stessi Numi i Dànai si azzuffano adesso».
E a lei cosí rispose Dióna ch’è Dea fra le Dive:
«Tollera, figlia mia, se pure ti crucci, sopporta:
molti di noi, d’Olimpo signori, perché di tormenti
ci strazïamo l’un l’altro, dovemmo soffrír dai mortali.
Marte soffrí, quando Oto gagliardo, e il gagliardo Efïalte
figli d’Alèo, di ceppi lo avvinsero saldi, e legato
rimase dentro un orcio di rame per tredici mesi.
E qui Marte mai sazio di guerre sarebbe perito,
se la matrigna loro, la bella Eribèa, non ne dava
l’annuncio a Ermète: questi potè trafugare il prigione
già macerato: ché strazio gli dava la dura catena.
Era soffrí, quando il figlio fortissimo d’Anfitrïone
al manco seno lei colpí con un dardo a tre punte,
ed ella ne patí dolori insoffribili. E Ade,
l’orrendo mostro, anch’egli soffrí per un dardo veloce,
quando lo stesso eroe di Giove figliuol, su le soglie
dei morti lo colpí, lo lasciò fra cocenti dolori.
Esso alla casa andò di Giove, alla cima d Olimpo,
crucciato il cuor, trafitto da fieri tormenti: ché il dardo
gli straziava l’alma, confitto nell’omero saldo.
Peone qui, spalmando la piaga di farmachi leni,
lo risanò: ché nato non era di stirpe mortale.
Malvagio, sciagurato, che male operar gli piaceva,
che coi suoi dardi i Numi signori d’Olimpo angosciava.
Ed ora contro te l’occhicerula Atena ha lanciato
costui! Stolto! E non sa, non vede il figliuol di Tidèo,
che lunga vita non gode chi lotta coi Numi immortali,
né su le sue ginocchia gli dicono babbo i suoi figli,
allor ch’ei dalla guerra ritorna e dall’orrida pugna.
E dunque, ora il Tidíde, per grande che sia la sua forza,
ponderi bene, ché alcuno piú saldo di te non lo affronti,
e ch’Egelèa non debba, la saggia figliuola d’Adrasto,
balzar dal sonno, i suoi famigli destar coi suoi pianti,
piangendo il caro sposo, di tutti gli Achivi il piú forte,
la generosa consorte del pro’ cavalier Dïomede!».
Cosí disse. E con ambe le mani tergea dalla palma
l’ícore; e fu guarita la palma, lenito il dolore.
E Atena ed Era poi, che stavano entrambe a guardare,
volsero a Giove, figlio di Crono, mordaci parole.
E favellò per prima la Diva occhicerula Atena:
«T’adirerai, Giove padre, di quello ch’io sono per dirti?
Cípride certo qualcuna spingea delle donne d’Acaia
a seguitare i Troiani che tanto le sono diletti;
e mentre essa a la bella d’Acaia faceva carezze,
ad una fibbia d’oro la tenera mano si punse».
Cosí diceva. E rise degli uomini il padre e dei Numi,
e a sé chiamò la Dea tutta oro Afrodite, e le disse:
«Non sono a te concesse, figliuola, le imprese di guerra:
tu dell’amabili nozze rivolgiti, o figlia, alle cure:
Atena, e Marte tutto furor, penseranno a la guerra».
Diomede prova più volte ad uccidere Enea, ma Apollo non glielo permette e crea una ‘falsa immagine’ di Enea, su cui gli Achei si sfogano.
Cosi, dunque, costoro parlavano l’uno con l’altro;
e Dïomede, alto grido di guerra, balzava su Enèa,
bene intendendo che Apollo su lui protendeva le mani.
Ma ei, non rispettava neppure il gran Nume, e bramava
sempre d’uccidere Enèa, spogliarlo de l’armi sue belle.
Tre volte si lanciò, bramoso di dargli la morte,
tre volte il Nume contro gli oppose il suo fulgido scudo.
Ma quando si lanciò la quarta, che un Nume sembrava,
gli disse il Dio che lungi saetta, con orrido grido:
«Rientra in te, Tidíde, ritirati, e pari ai Celesti
non reputarti, no, ché uguali non sono le stirpi
degli immortali Numi, di quelli che vivono in terra».
Cosí diceva. Indietro di poco si fece il Tidíde,
per evitare la furia del Dio che da lungi saetta.
E Febo allora Enea depose lontan dalla zuffa,
in Pèrgamo, dov’è costrutto il suo tempio, ed è sacra.
Artèmide, la Dea che lancia saette, e Latona,
nel grande àdito qui lo tornarono sano e gagliardo.
E Apollo, il Dio dall’arco d’argento, una immagine estrusse
simile in tutto ad Enea d’aspetto, ed uguale nell’armi.
E qui, dunque, Troiani d’intorno all’immagine, e Achei,
sui petti gli uni agli altri colpivan gli usberghi di pelle,
gli ampii rotondi palvesi, gli scudi piú lievi di piuma.
E cosí disse a Marte tutto impeto Apolline Febo:
«Marte, Marte, sterminio di genti, assetato di sangue,
espugnatore di rocche, non vuoi trattenere il Tidíde
dalla battaglia, che sino con Giove oserebbe pugnare?
Cipride or ora assalí, nel carpo ferí della mano,
quindi piombò su me medesimo, e un Nume pareva!».
Cosí detto, sede’ di Pèrgamo in cima alla rocca.
Marte sollecita i Troiani a reagire. Si prepara un nuovo scontro, i comandanti di entrambi gli schieramenti aizzano i guerrieri.

E il truce Marte andò fra le schiere troiane, a eccitarle,
e assunte avea le forme del sire dei Traci, Acamante
veloce; e disse ai figli di Priamo, alunni di Giove:
«E sino a quando, o figli di Priamo, alunni di Giove,
consentirete agli Achei che uccidano il popolo vostro?
Finché giunga la zuffa dinanzi alle solide porte?
L’uomo è caduto a cui tutti solevano rendere onore
pur come ad Ettore, giace d’Anchise il magnanimo figlio.
Ora, su via, dal tumulto salviamo il gagliardo compagno!».
Con questi detti eccitò la furia d’ognuno, e il coraggio.
E ad Ettore qui volse Sarpèdone, questa rampogna:
«Ettore, dove svanita la furia che pria t’animava?
Dicevi pur che tu, senza genti o alleati, potevi
coi tuoi fratelli e i tuoi cognati difender la rocca:
e adesso, io qui nessuno di loro distinguo o ravviso:
stan rimpiattati, a guisa di cani dinanzi a un leone.
Ma combattiamo noi che qui siam venuti alleati:
io, per pugnare al tuo fianco, son giunto da molto lontano,
perché lontana molto, del Xanto sui vortici, è Licia,
dove lasciai la sposa mia cara ed il pargolo figlio,
e assai ricchezze, quante ne brama chi nulla possiede:
e pure, a guerra io spingo le schiere dei Lici, e m’azzuffo
a faccia a faccia io stesso, per quanto non abbia io qui nulla,
che possano gli Achei rubarmelo, farne lor preda.
Tu fermo invece stai, né inciti gli altri Troiani
che stiano, che combattano a pro’ delle spose. Badate
che, come entro le maglie di rete fittissima presi,
non diveniate preda, cattura dei vostri nemici,
ché presto espugneranno la vostra città popolosa.
Pensare a tutto ciò dovresti di notte e di giorno,
degli alleati tuoi famosi pregando i signori
che tengan sempre duro. Cosí schiverai la rampogna».
Questo il signor dei Lici, Sarpèdone disse; e i suoi detti
morsero d’Ettore il cuore. Dal carro balzò tosto a terra,
e palleggiando due zagaglie, correva pel campo
tutto, eccitando alla pugna, destando l’orribile zuffa.
Onde i Troiani si volsero, e tennero duro agli Achei.
E fermi stetter tutti gli Achei, né l’invase sgomento.
Come per l’aie sacre trascinano i venti la pula,
quando si vèntila il grano, nei dí che Demètra la bionda
con l’asolare dei venti sepàra dai chicchi la loppa,
e ne biancheggiano i mucchi: cosí bianchi apparvero allora
tutti di polvere aspersi gli Achei, che di mezzo alle schiere
su fino al bronzeo cielo spingevano i pie’ dei cavalli,
misti di nuovo, perché rivolti li avevan gli aurighi.
E l’uno contro l’altro le mani avventarono; e Marte
di notte avviluppò, dei Troiani in soccorso, la zuffa;
e si lanciava qua e là, ponendo i comandi in effetto
d’Apollo Febo, Dio dall’aurea spada, che spinto
l’aveva ad eccitare l’ardor dei Troiani, quand’egli
vide partire Atena, che aiuto recava agli Achivi.
E spinse fuori Enea dagli anfratti del ricco suo tempio,
furia di guerra in seno spirando al pastore di genti.
Enea rincompare e i Troiani gioiscono nel vederlo vivo

Fra i suoi compagni Enea si pose. E gioirono quelli,
quando appressarsi, vivo tuttora, lo videro, immune,
pieno di nobile ardore. Nessuno gli volse domanda:
nol consentiva ben altro travaglio, da Febo eccitato,
dall’omicida Marte, da Rissa che mai non si placa.
E Ulisse, e Dïomede Tidíde, ed entrambi gli Aiaci,
spingevano alla zuffa gli Achivi. Ma già da sé stessi,
nulla temean dei Troiani la forza, le grida: anzi, fermi
stavano, pari alle nubi che suole addensare il Croníde
quando non spirano i venti, sovresse le cime dei monti:
immote, sin che dorme la furia di Bora e degli altri
impetuosi venti, che soglion le nuvole ombrose
sperdere, quando mai scatenan gli striduli soffi.
Saldi cosí, gli Achei dei Troiani attendevano l’urto.
E fra le schiere moveva, con mòniti molti, l’Atríde:
«Uomini siate, amici, vi regga l’indomito cuore,
pudore abbiate l’uno dell’altro, nei fieri cimenti.
Resta piú spesso salvo che ucciso, chi bada all’onore;
non hanno invece onore, non hanno riparo, i fuggiaschi!»
Disse. E la lancia scagliò veloce; e colpí, fra le schiere
prime, un compagno d’Enèa magnanimo, Deïcoonte
figlio di Pèrgaso, a cui rendevano onore i Troiani
come di Priamo ai figli: ché in guerra ei correva tra i primi.
Lui nello scudo colpí con l’asta Agamènnone prode:
né resiste’ lo scudo; e il ferro, passando fuor fuori,
traverso la cintura, s’immerse nel basso del ventre.
Diede, cadendo, un gran tonfo, su lui rintronarono l’armi.
Ed a sua volta Enèa trafisse due Dànai prodi,
Crètone, e Orsíloco, i due figliuoli di Díocle. Il padre
loro abitava in Fere, città dalle solide case,
ricco di molti beni, disceso per sangue dal fiume
Alfeo, che largo scorre dei Pili traverso la terra.
Questi ad Orsíloco, re di popoli fitti, die’ vita:
Orsíloco die’ vita a Díocle, cuore gagliardo;
Díocle, infine, fu genitore dei figli gemelli
Crètone e Orsíloco, entrambi maestri in ogni ordin di pugne.
Sopra le nere navi, nel primo fiorire degli anni,
seguiti aveano ad Ilio dai vaghi puledri gli Argivi,
perché vendetta avesse l’onor d’Agamènnone Atríde,
di Menelao; ma entrambi li colse il destino di morte.
Simili a due leoni, che sopra la cima d’un monte
nutrí la madre, e dentro le macchie piú fitte del bosco,
preda facendo entrambi di bovi e di floride greggi,
devastano le stalle, finché per le mani essi pure
cadono dei pastori, colpiti dal bronzo affilato:
cosí, sotto le mani prostrati del figlio d’Anchise.
caddero l’uno e l’altro, che parvero altissimi abeti.
Sentí pietà dei due caduti il divin Menelao,
e tra le prime file, coperto di lucido bronzo,
mosse, crollando l’asta. Gl’infuse quell’impeto Marte,
perché sotto le mani cadesse prostrato d’Enea.
Cosí lo vide il figlio di Nèstore, Antíloco; e mosse,
e lo raggiunse: ché molto temea pel sovrano, che male
non gli cogliesse, e vane rendesse le loro fatiche.
Cosí quei due, le mani tendendo, e le lame affilate
a sé dinanzi, entrambi moveano, agognando la zuffa;
ed al pastore presso di popoli Antíloco stava.
Enèa non resiste’, sebbene campion veëmente,
vedendo i due guerrieri che stavano l’un presso l’altro.
E questi, tra gli Achivi traendo gli esanimi corpi,
tra le man dei compagni gittarono i due sventurati;
ed essi, ancora a pugna rivolti, tornaron fra i primi.
Posero a Morte qui Pilèmene simile a Marte,
dei Paflagoni, maestri di scudi magnanimi, duce.
Lui Menelao, l’Atríde maestro famoso di lancia,
ferí, che ritto stava. Toccò la clavicola il colpo.
E Antíloco colpí Midóne, scudiere ed auriga,
figlio d’Atínnia prode, mentre esso volgeva i corsieri,
con un macigno, nel mezzo del gomito: giú da le mani
caddero al suol, nella polve, le redini ornate d’avorio.
E Antíloco balzò, gli ferí con la spada una tempia;
e quello, rantolando, piombò dal bellissimo cocchio,
a capo in giú, nella polve confitto con gli omeri e il cranio.
E vi rimase a lungo, ch’ivi era profonda la sabbia,
finché l’ebbero a terra gittato disteso i cavalli,
che Archiloco sferzò, per condurli dov’eran gli Achivi.
Ettore uccide vari Achei

Ora, Ettore li vide cosí furiare, e su loro
balzò con alte grida. Seguían dei Troiani le schiere:
le precedeva Enïò divina con Marte guerriero:
quella recava seco Tumulto, l’orrendo guerriero
Marte vibrava in pugno l’immane sua lancia di guerra,
ed ora innanzi, ed ora movea dietro d’Ettore ai passi.
Lo vide, abbrividí Dïomede, fiero urlo di guerra.
E come un uomo, quando viaggia in un’ampia pianura
esita innanzi a un fiume che rapido al pelago corre,
vedendo la sua spuma che mormora; e il passo ritorce:
tale il Tidíde indietro si fece, e si volse alle turbe:
«Amici miei, davvero dobbiamo stupire che prode
Ettore divo sia, che tanto egli valga in battaglia!
Sempre un Celeste presso gli sta, che tien lungi il malanno:
vicino Marte adesso gli sta, con sembianze mortali.
Su via, col viso sempre rivolto ai Troiani, cedete,
e non vi piaccia usare la forza a combattere i Numi!».
Parlò cosí: piú presso si fecero ad essi i Troiani.
E quivi Ettore uccise due prodi campioni di guerra,
Anchíalo e Menète, che stavano sopra un sol carro.
Di loro ebbe pietà, quando caddero, il gran Telamonio,
e si piantò presso a loro, vibrando la fulgida lancia,
ed il figliuolo colpí di Sèlago, Anfíone, che in Pèso
dimora aveva, ricco di beni e di messi: la Parca
quivi, in soccorso di Priamo, dei figli di Priamo, l’addusse.
Aiace lo colpí, figliuol di Telàmone, al cinto,
l’asta dall’ombra lunga s’infisse nell’imo del ventre.
Diede un rimbombo cadendo. Gli fu sopra il fulgido Aiace,
per depredare l’armi; ma l’aste avventaron su lui
lucide, acute, i Troiani: assai ne sostenne lo scudo.
Ed ei, piantato il piede sul corpo al cadavere, fuori
l’asta di rame estrasse; ma torgli di dosso l’altre armi,
non lo potè: ché troppo gli davano noia coi dardi.
E la difesa teme’ gagliarda dei prodi Troiani,
che valorosi e fitti moveano su lui con le lancie,
e che, per quanto ei grande pur fosse, animoso e superbo,
lungi da sé lo respinsero; ed ei si ritrasse fremendo.
Questi, dunque, cosí travagliavan negli aspri cimenti.
Tiepolemo si scontra con Sarpedone, che viene ferito ma salvato da Giove

E fu d’Ercole il figlio, Tlepòlemo grande e valente,
contro Sarpèdone divo sospinto dal fato di morte.
Quando, movendo l’uno su l’altro, già eran vicini
il figlio ed il nipote di Giove che i nugoli aduna,
primo dei due, pronunciò Tlepòlemo queste parole:
«Sarpèdone, dei Lici signor, che bisogno ti spinse,
che qui, tanto inesperto di pugne, venissi a tremare?
Mentono quelli che ti proclamano stirpe di Giove,
perché molto ti manca, per essere simile a quelli
che nacquero da Giove, nei tempi degli uomini prischi.
Oh, quale mai si narra che d’Ercole fosse la forza
del padre mio dall’alma feroce, dal cuor di leone,
che un tempo venne qui, pei cavalli di Laomedonte,
solo con sei navigli, con poca raccolta di gente,
ed Ilio a sacco mise, deserte ne rese le strade!
Ma vile è il cuore tuo, ma spento il tuo popolo cade,
né io penso che tu darai gran soccorso ai Troiani,
col tuo giunger di Licia, se pure tu avessi gran forza:
dovrai, da me prostrato, varcare le soglie dell’Orco».
E a lui cosí rispose Sarpèdone, sire dei Lici:
«Tlepòlemo, la rocca di Troia distrusse quel prode
per la follia d’un uomo superbo, di Laomedonte,
che con amare parole percosse chi bene gli fece,
né le puledre gli die’ che promise perch’egli venisse.
Ma io dico che qui la livida Parca e la Morte
per mano mia t’aspetta, che, ucciso da me, tu darai
a me la gloria, ad Orco dai negri puledri lo spirto».
Disse cosí Sarpèdone. E l’asta di frassino l’altro
levò: le lunghe lancie partir dalle mani ad un colpo.
Sarpèdone colpí Tlepòlemo a mezzo del collo,
e la dogliosa punta fuor fuori passò: tenebrosa
notte discese a lui sugli occhi, e l’avvolse. Colpito
anche Sarpèdone fu dall’asta, alla coscia sinistra:
attraversata l’aveva la punta bramosa di sangue,
s’era confítta nell’osso; ma Giove lo volle ancor salvo.
E i fidi suoi compagni, Sarpèdone simile ai Numi
trassero fuor dalla zuffa. La lancia che seco traeva
l’affaticava: ché niuno pur ebbe pensiero d’estrargli
l’asta di frassino fuor della coscia, si ch’ei camminasse,
tanta era la lor fretta, tanto era il travaglio e l’affanno.
Gli Achei dall’altra parte cercava Tlepòlemo, lungi
dalla battaglia. Ed ecco, Ulisse divino lo vide,
anima salda, tenace; e il cuor tutto gli arse di furia.
E poi, restò fra due, nel cuore e nell’anima, incerto
se prima egli di Giove tonante inseguisse il figliuolo,
o se la vita prima togliesse a molti altri dei Lici.
Però, fato non era che Ulisse magnanimo cuore
spenger col ferro acuto dovesse il figliuolo di Giove.
Per questo, Atena contro le turbe dei Lici rivolse
la furia sua. Ciràno qui uccise, ed Alàstore, e Cromio,
Alio, Noèmone, Prítani, Alcandro. E molti altri dei Lici
avrebbe qui trafitti la forza divina d’Ulisse,
se non l’avesse visto l’eroe dal cimiero ondeggiante,
Ettore. E mosse, terrore dei Dànai, nel lucido bronzo,
verso le prime file. Sarpèdone figlio di Giove
fu lieto come ei giunse, levò queste voci dogliose:
«Figlio di Priamo, presto, non far che agli Argivi io rimanga
abbandonato! A me porgi aiuto: e poi, morte mi colga
dentro la vostra città, se proprio non era destino
ch’io ritornassi alla casa mia cara, alla terra materna,
ad allegrar la sposa diletta, ed i teneri figli!».
Disse cosí. Ma Ettore nulla rispose; e trascorse
oltre, ché d’altra brama punto era: respinger lontano
gli Argivi, e quanti piú potesse, privar della vita.
Ed i compagni fidi, Sarpèdone simile ai Numi
posero sotto il faggio bellissimo, sacro al Croníde;
e dalla coscia fuori la lancia di frassino estrasse
Pelàgone gagliardo, che gli era carissimo amico.
Gli venner meno i sensi, negli occhi una nebbia s’effuse;
ma poi recuperò gli spiriti; e il soffio di Bora
rïanimò l’eroe, che a stento traeva il respiro.
Gli Achei subiscono l’attacco di Ettore e Marte. Atena ed Era si preparano al contrattacco.

D’Ettore intanto ai colpi, ai colpi di Marte, gli Argivi
né rivolgevano, ai negri navigli, fuggendo, le spalle,
né contro loro la zuffa spingeano. Cedean passo passo,
quando ebber visto che Marte pugnava coi loro nemici.
A chi per primo, a chi per ultimo tolser la vita
Ettore quivi, figlio di Priamo, e il bronzeo Marte?
A Tëutrante divino, a Oreste maestro di carri.
E Treco ètolo cadde, maestro di lancia, Enomào,
Èleno, figlio d’Enopio, e Oresbio dal fulgido cinto,
cúpido assai di ricchezze, che in Ile abitare soleva,
sovra le ripe del fiume Cefisio, e molti altri Beoti
presso abitavano a lui, su quelle pinguissime terre
Come Giunone vide, la Dea dalle candide braccia,
spenti cosí gli Argivi cader negli scontri feroci,
súbito queste volse veloci parole ad Atena:
«Ahi, ahi!, vergine figlia di Giove dell’egida sire,
vana per Menelao fu dunque la nostra promessa,
che, Troia a sacco messa, sarebbe alla patria tornato,
se lasceremo cosí che infuri l’orribile Marte!
Su via, dunque, anche noi badiamo alla cruda battaglia».
Disse. Né fu restia la Diva dagli occhi azzurrini.
Mosse a bardare i cavalli dagli aurei frontali Era stessa,
Era, la Dea veneranda, la figlia di Crono possente.
Ebe poi subito al carro le ruote di bronzo rotonde,
ad otto raggi, aggiunse, figgendole all’asse di ferro.
L’anima dentro è di ferro, che mai non si strugge; ma sopra
sono adattati cerchi di bronzo, stupendi a vederli:
sono d’argento i mozzi, che giran da entrambe le parti,
la cassa è tutta a intrecci di cingoli d’oro e d’argento,
e tutto in giro agli orli si volgono due parapetti.
Sporgeva anche il timone d’argento: all’estremo di questo,
il bel giogo legò tutto d’oro, ed i bei pettorali
d’oro v’aggiunse. E al giogo costrinse i veloci cavalli
Era, di Giove figlia, bramosa di stragi e di pugne.
Atena poi, di Giove signore dell’ègida figlia,
lasciò cader sul suolo d’Olimpo il suo morbido peplo,
variegato, che aveva tessuto ella stessa, ed ornato:
la tunica indossò, di Giove che i nugoli aduna
l’armi impugnò, con quelle s’armò per la guerra dogliosa.
Copri gli omeri entrambi con l’ègida ornata di frange,
tremenda, a cui corona fa tutto d’intorno il Terrore.
E c’è la Rissa, e c’è la Forza, e l’Assalto doglioso.
c’è della Gòrgone il capo, del mostro terribile, orrendo,
e pauroso prodigio di Giove. Sul capo il grande elmo
d’oro posò, dal doppio cimiero, con quattro falère,
dove di cento città scolpiti vedevi i guerrieri.
Poi, sopra il carro salí veloce fiammante, la lancia
grave massiccia strinse, con cui degli eroi le falangi
stermina, quando la invade furore, la figlia di Giove.
Ed ecco, Era i cavalli sfiorò con la sferza. Del cielo
diedero mugghio spontaneo le porte, guardate dall’Ore,
a cui tutto è affidato l’Olimpo ed il cielo infinito,
sia per dischiudere, sia per serrare quel nugolo denso.
Fecer passare di qui, dal pungolo spinti, i cavalli.
Ed il Croníde, in disparte trovaron dei Numi, seduto
sopra la vetta piú alta, fra i vertici tanti d’Olimpo.
Quivi fermò la Dea dalle candide braccia i cavalli,
e si rivolse al sommo Croníde, con queste parole:
«O Giove, e non t’adiri con Marte, per tanti suoi scempi?
Quanti guerrieri e quali distrusse del popolo Acheo,
senza riguardo, alla cieca, per darmi tormento! E tranquilla
Cípride intanto s’allegra col Nume dall’arco d’argento,
ch’àn questo pazzo eccitato, che legge non sa. Giove padre,
vorrai forse adirarti con me, se con aspro dolore
Marte percuoto, e lungi lo faccio fuggir dalla pugna?»
E a lei Giove cosí rispose che i nugoli aduna:
«Su, dunque, Atena vaga di prede a lui súscita contro,
che piú d’ogni altro suole colpirlo di duri tormenti».
Disse cosi. Né indugio frappose la Diva Giunone.
Sopra i cavalli vibrò la sferza, né furono tardi
quelli a volar, fra il cielo cosparso di stelle e la terra.
Quanto di cielo un uomo sovressa una eccelsa vedetta
scorge, spingendo l’occhio sul piano purpureo del mare,
tanto i nitrenti divini corsieri percorron d’un salto.
Ma quando a Troia poi furon giunti, e ai due rapidi fiumi
dove le lor fluenti confondon Simèta e Scamandro,
qui pose fine al corso la Diva Giunone, dal carro
sciolse i cavalli, effuse d’intorno caligine densa;
e germinò Simèta per essi dal suolo l’ambrosia.
E mossero le Dee, con trepido vol di colombe,
desiderose di dare soccorso agli Argivi guerrieri.
E, come poi fûr giunte là dove piú fitti e piú prodi
stavano intorno al Tidíde, maestro a domare cavalli,
stretti, e parevan leoni che sbranino cruda la preda,
o forse apri selvaggi, di forza che mai non si fiacca,
qui stette, e un grido alzò la Diva Giunone; e d’aspetto
Stèntore prode sembrava, l’eroe dalla voce di bronzo,
che tanto alto gridava da solo, quanti altri cinquanta:
«Vergogna, Argivi, belli d’aspetto, ma turpi di cuore!
Finché nelle battaglie moveva il divino Pelíde,
neppur sotto le porte dàrdanie, a pugnare i Troiani
erano arditi: tanto temevan l’orrenda sua lancia:
lungi dalla città pugnano ora, vicino alle navi».
Con tali detti, eccitò la furia d’ognuno e l’ardire.
Atena aizza Diomede a combattere contro Marte e lo affianca sul carro. Diomede ferisce Marte, che si rifugia in Olimpo e viene curato da Peone.

Ed a cercar balzò, la Diva occhiazzurra, il Tidíde;
e quell’eroe trovò, che presso ai cavalli ed al cocchio
refrigerava la piaga che Pàndaro inflitta gli aveva.
Di sotto al bàlteo largo dell’ampio suo scudo rotondo,
lo tormentava il sudore: patíva, la mano era stanca;
e, sollevato il bàlteo, tergevasi i grumi del sangue.
La Dea poggiò la mano sull’orlo del carro, e gli disse:
«Poco simile a sé Tidèo generato ha suo figlio!
Era Tidèo di membra non grandi, ma saldo alla pugna.
E sin quando io vietavo che parte prendesse alle zuffe,
che sua prodezza mostrasse — quando egli lontan dagli Achivi
araldo a Tebe venne fra i molti guerrieri di Tebe,
io gli ordinai che tranquillo sedesse con gli altri a banchetto — ,
egli, che mal poteva mutare il suo cuore gagliardo,
i giovani cadmei sfidò, senza sforzo li vinse
in ogni prova: ch’io vicino gli stavo, al soccorso.
E invece presso a te sono ora, di te mi do cura,
t’esorto di gran cuore che tu coi Troiani combatta;
ma tu, da travagliosa stanchezza fiaccate hai le membra,
oppure il cuor ti frena timore, e t’arresta. Davvero
figlio non sei di Tidèo, del prode figliuolo d’Enèo».
E Dïomede, prode guerriero, cosí le rispose:
«Ben ti conosco, o Dea, dell’egioco Giove figliuola:
perciò, ben volentieri ti parlo, ché nulla io ti celo.
Il cuore mio non frena terrore, né esito. Solo
io dei comandi tuoi mi ricordo, che tu m’impartisti:
ché proibisti ch’io faccia a faccia coi Numi lottassi:
con gli altri Numi: solo se fosse venuta Afrodite
alla battaglia, potevo ferirla col lucido bronzo.
Per questo io qui ritratto mi sono, ed agli altri compagni
Argivi, ordine diedi che qui si adunassero tutti:
perché mi sono accorto che Marte presiede alla pugna».
E a lui cosí rispose la Diva dagli occhi azzurrini:
“O figlio di Tidèo, Dïomede diletto al mio cuore,
non paventare, no, di Marte, né d’altro qual sia
degli Immortali: tale sono io, che, a te presso, t’assisto.
Su’, spingi prima i tuoi cavalli su Marte, e da presso
fa’ di colpirlo, riguardo non abbi di quel furïoso,
di quel pazzo, di quel gran malanno, di quel voltafaccia,
che, pur dïanzi, a me promise e a Giunone, che guerra
egli farebbe ai Troiani, darebbe soccorso agli Argivi:
e coi Troiani, invece, pugna ora, ed ha tutto scordato!».
E, cosí detto, cacciò dal carro giú Stenelo a tèrra,
che con la mano indietro lo trasse; ed ei subito scese;
e sopra il carro sali, vicina al figliuol di Tidèo,
ansia di pugne, la Dea. Cigolava alto l’asse di faggio,
al peso: ché un eroe portava, e una Diva tremenda.
Essa i corsieri avventò solidunguli prima su Marte.
L’armi al piú prode campione d’Etolia stava egli predando,
a Perifante, immane d’Ocesio bellissimo figlio.
Marte cruento lo stava spogliando. Ed Atena si cinse
l’elmo d’Averno, che lei rendesse invisibile a Marte.
Or, come questi vide venire il divino Tidíde,
quivi disteso a terra lasciò Perifante gigante,
dov’ei l’aveva ucciso, gli aveva levata la vita,
e al figlio di Tidèo, domator di cavalli, si volse.
E quando l’un su l’altro movendo, già eran vicini,
Marte per primo, sopra le redini e il giogo proteso,
scagliò l’asta di bronzo, bramoso di tòrgli la vita.
Ma lo ghermí con la mano la Diva dagli occhi azzurrini,
e sotto il carro lo spinse, ché vano sortisse il suo volo.
Secondo, poi, lanciò Dïomede, fiero urlo di guerra,
l’asta di bronzo; e la spinse la Diva, figliuola di Giove,
verso l’estremo ventre, dov’era aggirata una fascia.
Qui lo colpí la Dea, lo ferí, lacerò la sua cute,
e l’asta ancora svelse. Un urlo die’ il bronzeo Marte,
qual novemila, o vuoi diecimila guerrieri a battaglia
levano insieme, quando s’appicca la zuffa di guerra.
E sbigottirono, e invase terrore Troiani ed Achivi;
tale fu l’urlo di Marte, che mai non si sazia di guerre.
E quale tutto negro pei nugoli l’ètere appare
quando per la calura si leva la furia dei venti:
tale il bronzeo Marte apparve al figliuol di Tidèo,
mentre, di nembi avvolto, movea verso il cielo infinito.
Rapidamente giunse dei Numi alla sede, all’Olimpo,
e si sede’, col cuore doglioso, vicino al Croníde,
l’icore ambrosio a lui mostrò, che scorrea dalla piaga,
a lui, tra le querele, parlò queste alate parole:
«E non t’adiri, Giove, mirando questi orridi scempi?
Sempre noialtri Numi soffriamo le pene piú crude,
l’uno crucciando l’altro, cercando il piacer dei mortali.
E tutti in guerra siamo con te; ché una stolta figliuola
hai generato, funesta, ch’a sempre la mente ad empiezze.
E tutti gli altri, quanti noi siamo Celesti d’Olimpo,
tutti obbediamo a te, ti siamo, uno ad uno, soggetti:
costei, non a parole tu mai la castighi, né a fatti,
anzi, la provochi, questo malanno ch’ài tu generato.
Ed ora, essa eccitò Dïomede, il superbo Tidíde,
che la sua pazza furia sui Numi celesti provasse.
Esso, Cípride prima nel carpo ferí della mano:
contro me stesso poi si lanciò, che pareva un demonio;
e me trassero in salvo le gambe veloci; o che a lungo
avrei patito lí, fra le orrende cataste dei morti,
oppur, vivo, sarei disfatto dai colpi del bronzo!».
Ma bieco lo guardò, gli rispose il signore dei nembi:
«Non ti piantare qui, voltafaccia, a fiottare! Fra quanti
sono d’Olimpo i Numi, su tutti odioso mi sei,
ché sempre è a te la rissa diletta, e la zuffa e la guerra.
L’indole hai tu di tua madre Giunone, sfrenata, implacata,
che io con le parole a stento riesco a domare.
Ed or, pei suoi consigli tu soffri, dico io, ciò che soffri.
Ma tuttavia, non vo’ che tu debba piú a lungo patire,
perchè sei sangue mio, di me t’ha concetto tua madre.
Ché, se nefasto qual sei, fossi figlio d’un altro dei Numi,
da un pezzo tu saresti piú giú dei figliuoli d’Urano».
Cosí detto, a Peone die’ ordine che lo curasse.
E la sua piaga Peone di farmachi leni spalmando,
lo risanò: ché nato non era di stirpe mortale.
Come in breve ora il presame coagula il candido latte
ch’era fluente, e presto, nei rapidi giri, s’addensa,
presto cosí Peone guariva quel Dio veëmente.
Ebe poi lo lavò, lo cinse d’amabili vesti;
e presso egli sede’, raggiante di gloria, al Croníde.
Ecco, e alla casa di Giove di nuovo tornarono anch’esse
Era l’argiva, e Atena, la Dea che Alalcòmene guarda,
quando ebber cosí tronche le stragi di Marte omicida.
Gli Achei continuano a combattere senza pietà contro i Troiani
Soli alla dura battaglia rimasero Achivi e Troiani,
e furïava la pugna, da entrambe le parti, nel piano,
questi su quelli scagliando diritte le bronzee zagaglie,
fra i rivi del Simeto, fra quelli del Xanto, nel mezzo.
Il Telamonio Aiace, presidio agli Achivi, per primo
valse a spezzar la falange troiana, ed un raggio di luce
fece brillare ai compagni, colpendo il guerriero Acamante,
dei Traci il piú gagliardo, d’Eussòro figliuol, grande e prode.
Per primo ei lo colpí nel cimiero e la cresta dell’elmo,
e l’ossa traversò fuor fuori la punta di bronzo,
si conficcò nella fronte: la tènebra gli occhi gli avvolse.
E Dïomede, alto grido di guerra, die’ morte al figliuolo
di Teutrànide, Axílo, che viver soleva in Arisbe
bella: opulento egli era, diletto era a tutti: ché tutti
egli ospitava; e sorgeva lunghessa la via la sua casa.
Niuno però di quelli corse ora, che schermo gli fosse
alla fatale sciagura: ché lui col suo servo Calesio
che allor dei corridori le briglie reggea, Dïomede
uccise; e l’uno e l’altro s’immersero giú ne la terra.
E morte Euríalo diede a Dreso e ad Ofeltio; poi mosse
contro Pedàso ed Esèpo; entrambi la Ninfa dei fonti
Abarbarèa generati li aveva a Bucalïone.
Era Bucalïone figliuolo di Laomedonte,
primo di tutti i fratelli, però non legittimo. Or questi,
mentre pasceva il gregge, si strinse in amor con la Ninfa;
e questa concepí, die’ a luce i due gemini figli.
Ora la furia d’entrambi fiaccò di Mecíste il figliuolo,
prostrò le belle membra, predò dai loro omeri l’armi.
Diede ad Astíalo morte Polípete, saldo guerriero.
Ulisse con la lancia di bronzo trafisse Pidíte,
giunto da Pèrcote: Teucro die’ morte al divino Aretòne.
Con la zagaglia il figlio di Nèstore, Antíloco, uccise
Ablero; ed Agamènnone, sire di popoli, Elàto,
che nell’eccelsa Pedàso, vicino alle sponde abitava,
del Satnio ricco d’acque. A Fílaco diede la morte,
mentre fuggiva, Leito: Euríalo uccise Melanzio.
E Menelao, possente guerrier, fece Adrasto prigione:
ché sbigottiti s’erano i suoi corridori. Nel piano,
di tamerisco in un tronco cozzato essi aveano; e, spezzato
presso alla punta il timone del carro, si volsero in fuga,
verso la rocca, dove fuggiano pur gli altri corsieri.
Ed egli rotolò dal cocchio, vicino alla ruota,
giú nella polvere prono, col viso alla terra: su lui
fu Menelao, figliuolo d’Atrèo, con la lunga sua lancia.
E le ginocchia Adrasto gli strinse, cosí supplicando:
«Prendimi vivo, Atríde, riscatto ne avrai che convenga.
Nell’opulenta mia casa paterna son molti tesori:
oro v’è, bronzo, e ferro foggiato con vario travaglio:
te ne darebbe mio padre larghezza infinita, di cuore,
quando sapesse che vivo sono io, degli Achei su le navi».
Disse: ed il cuor gli molcí nel seno, con queste parole;
e al servo stava già per darlo, che via lo guidasse,
alle veloci navi. Ma in quella Agamènnone giunse,
e un grido alto levò, gli volse cosí la parola:
«Tenero cuor, Menelao, perché sei cosí pïetoso?
Devi lodarti davvero, di quello che in casa t’han fatto
questi Troiani! Nessuno ci deve sfuggir dalle mani,
sfuggir da trista morte; neppure se alcuno la mamma
bambolo ancora in grembo lo porta, ci deve sfuggire:
tutti spariscano, e niuno li pianga, né traccia ne resti».
L’eroe con questi detti la mente piegò del fratello,
si ch’ei mutasse avviso. Respinse da sé con la mano
Adrasto; e lo colpí nel fianco Agamènnone forte.
Supino giú piombò: sul petto puntandogli il piede,
fuor dalle carni la lancia di frassino svelse l’Atríde.
Nèstore poi gli Argivi chiamò, favellando a gran voce:
«O Dànai, prediletti campioni, seguaci di Marte,
niuno ci sia tra voi, che, indotto da brama di preda,
resti indietro, per poi gran massa alle navi portare.
Ora, uccidiamo nemici: ché dopo, a bell’agio ciascuno
per la pianura potrà spogliare dell’arme i caduti».
Cosi, con questi detti, spronava eccitava ciascuno.
L’indovino Eleno manda il fratello Ettore da Ecuba, loro madre, perché faccia sacrifici e plachi l’ira di Atena

E nuovamente i Troiani, respinti dai validi Achei,
vinti per manco di forza, tornati sarebbero in Ilio,
se qui non fosse accorso, dov’era con Ettore Enea,
Èleno, figlio di Priamo, tra gli auguri sommo che disse:
«Ettore, Enea, voi due, che fra tutti i Troiani ed i Lici
nelle battaglie reggete lo sforzo piú grande, che i primi
siete dovunque si pugna, per opra di senno e di mano,
fate argine, correte da tutte le parti, le turbe
lungi tenete dai valli, che, in fuga, alle femmine in braccio
non debban mai piombare, dar grande sollazzo ai nemici!
Poi, quando tutte abbiate frenate, animate le schiere,
noi, rimanendo qui, sosterremo coi Dànai la pugna,
e sia pur dura prova: ché forza è suprema. E tu, torna
Ettore, alla città; e quivi, di’ ciò ch’io ti dico
a nostra madre: ch’essa, raccolte le bianche matrone,
sopra la rocca, nel tempio d’Atena dagli occhi azzurrini,
con la sua chiave schiuda le porte del santo recesso,
e nella reggia un peplo trascelto, il piú bello di tutti,
quello che piú leggiadro le sembri, il piú caro al suo cuore,
su le ginocchia lo ponga d’Atena dal fulgido crine;
e dodici giovenche prometta immolar nel suo tempio,
candide, ancor non dome, si ch’ella a pietà si commuova
della città, delle spose troiane, dei pargoli infanti,
e dalla sacra Troia lontano il figliuol di Tidèo
tenga, il selvaggio guerriero, di morte il possente ministro,
il piú gagliardo, io penso, fra quanti combattono Achivi.
Neppure Achille, sire di genti, è cosí temerario,
ch’è d’una Dea pur figlio, si dice. Ma troppa è la furia
del figlio di Tidèo; né alcuno può stargli di contro».
Disse cosi. Senza indugio segui del germano i consigli
Ettore. Strette l’armi, balzò giú dal cocchio; e, vibrando
le due zagaglie acute, correva per tutte le file,
e li spronava alla zuffa, destava la mischia feroce.
Volsero quelli la fronte, ristetter dinanzi agli Achivi:
questi cederono il campo, sospesero l’opra di morte,
immaginando che alcuno dei Numi del cielo stellato
fosse a soccorrerli sceso: si fu quel restare improvviso.
Ettore allor, fra i Troiani, gridando, lanciò questo appello:
«O valorosi Troiani, di gloria famosi alleati,
uomini siate, amici, reggete ben saldi a la pugna,
sin ch’io mi rechi ad Ilio, per dire ai vegliardi e a le spose
ch’alzino preci ai Numi, promettano scelte ecatombi».
Ettore dunque, poi ch’ebbe ciò detto, partiva. E, movendo,
l’orlo di cuoio negro che tutto d’intorno girava
l’umbilicato scudo, batteva i calcagni ed il collo.
Diomede e Glauco si scontrano, ma poi, venuti a conoscenza delle loro stirpi, si scambiano doni

Glauco, d’Ippòloco figlio, nel mezzo, e il figliuol di Tidèo,
d’ambe le parti convennero, entrambi bramosi di pugna.
Or quando l’un contro l’altro movendo, già eran vicini,
primo a parlare prese l’ardito guerrier Dïomede:
«Da quale umana stirpe provieni tu mai, valoroso,
ch’io prima d’ora non t’ho visto mai nella nobile zuffa?
Ma ti sei fatto innanzi, ma tutti hai di molto or precorso.
Nel tuo valore ben fidi, se attendi la lunga mia lancia:
ché la mia furia affronta soltanto chi nacque a sciagura.
Ma se tu fossi un Nume, se fossi disceso dal cielo,
io non combatterò davvero coi Numi celesti:
poiché neppur Licurgo, possente figliuol di Driante,
a lungo visse, quando contese coi Numi immortali,
ei che le Ninfe, nutrici dell’ebro Diòniso, un giorno
cacciò pei gioghi santi di Nisa. Gittarono quelle
tutte i lor tirsi a terra, battute dal pungolo aguzzo
dell’omicida Licurgo: Diòniso, tutto sgomento,
giú si tuffò nei flutti del mare; e lui pavido accolse
Teti nel grembo; e per gli urli del sire era tutto un tremore.
Ma si crucciaron con lui gli Dei dalla facile vita,
e lo privò della vista di Crono il figliuolo; né a lungo
visse: ché l’odio ei divenne di tutti gli eterni Celesti.
Dunque non io coi Numi beati combatter vorrei.
Ma se degli uomini sei, che pascono il frutto dei campi,
fatti piú presso, ché prima tu giunga al confine di morte».
E gli rispose cosí d’Ippòloco il fulgido figlio:
«O valoroso Tidíde, perché la mia stirpe tu chiedi?
Simili sono le stirpi degli uomini a stirpi di foglie.
Le foglie, queste a terra le spargono i venti, e la selva
altre ne germina, e torna di nuovo a fiorir primavera:
cosí le stirpi umane, spunta una, quell’altra appassisce.
Pure, se tu vuoi questo sapere, se fatto esser certo
qual sia la mia progenie: è dessa a molti uomini nota.
V’è la città d’Efíra nel cuor dell’Argòlide equestre,
dove Sísifo nacque, che fu dei mortali il piú scaltro,
Sísifo, d’Èolo figlio. Da Sísifo Glauco nacque,
e fu Glauco padre del nobile Bellerofonte,
ch’ebbe dai Numi in dono bellezza e virile prodezza.
Pur, contro lui macchinò nell’animo infesti disegni
Preto, e via lo scacciò dalla patria; e ben era possente
ei fra gli Argivi: ché Giove li aveva soggetti al suo scettro.
Arsa di folle brama, voleva la sposa di Preto,
la diva Antèa, con lui mescolarsi d’amore furtivo;
ma non sedusse Bellerofonte, l’onesto, l’accorto.
E corse allora a Preto con questa menzogna, e gli disse:
«Muori tu, Preto, o dà la morte a Bellerofonte,
che mi voleva pigliare d’amore, se ben mi schermivo».
Disse, ed a queste parole fu invaso il sovrano dall’ira.
Schivò di porlo a morte, ché in cuore pur n’ebbe ritegno;
ma lo mandò nella Licia, scrivendogli cifre funeste
entro due chiuse assicelle: dicendo cha al suocero suo
quelle mostrasse, per farlo morir: ch’eran cifre di morte.
Dunque, in Licia egli andò con la scorta secura dei Numi.
E quando giunto in Licia tu poi, presso i rivi del Xanto,
il re dell’ampia Licia lo accolse, gli fe’ grande onore,
l’ospitò nove giorni, sgozzò nove bovi ai Celesti.
Ma quando poi spuntò, col decimo giorno, l’Aurora,
anche domande allora gli volse, le cifre vedere
volle, che aveva a lui recate del genero Preto.
Quando ebbe viste poi le cifre funeste del sire,
prima gli comandò che uccidesse l’immane Chimera.
Era quel mostro stirpe di Numi, non già di mortali:
sopra leone, capra nel mezzo, di drago la coda,
terribilmente spirando la furia di fuoco avvampante.
Pur, nei propizi prodigi dei Numi fidando, ei la uccise.
Poi s’azzuffò coi magnanimi Sòlimi: e dire soleva
che quella era la pugna piú dura che avesse affrontata.
Terzo, poi, sterminò le Amazzoni, cuori virili.
E il sire macchinò, quand’ei fu tornato, una frode.
Scelti dall’ampia Licia quanti eran piú prodi guerrieri,
contro un’insidia gli tese; né a casa tornarono quelli:
tutti li sterminò l’invincibile Bellerofonte.
Or, quando il sire conobbe ch’egli era pro’ stirpe di Numi,
presso di sé lo tenne, gli die’ per consorte la figlia,
gli diede la metà di tutti gli onori regali:
e gli assegnarono i Lici di campi una fertile stesa,
bella di vigne e maggesi, ché quivi egli avesse dimora.
E generò tre figli la sposa a Bellerofonte:
Laödamia, con Isandro e Ippòloco. Il saggio Croníde
giacque con Laödamia, che a luce Sarpèdone diede,
divino eroe, dall’armi di bronzo. Ma Bellerofonte
cadde nell’odio anch’egli di tutti i beati Celesti.
Onde a vagare prese soletto pei campi d’Alèo,
e si rodeva il cuore, schivava degli uomini l’orme.
Ed al figliuolo Isandro, quando egli coi Sòlimi prodi
pugnava, Ares die’ morte, il Dio non mai sazio di guerre:
Artèmide, la dea briglia d’oro, gli spense la figlia:
Ippòloco a me diede la vita, io di quello son figlio,
ch’or m’inviava a Troia, porgendomi molti consigli:
ch’io primeggiassi sempre, che sempre fra gli altri emergessi,
né svergognassi la stirpe dei padri, che in Èfira sempre,
e della Licia nell’ampie contrade eran primi tra i primi.
È questo il sangue ond’io mi onoro, questa è la progenie».
Disse; e nel cuor s’allegrò Dïomede possente guerriero,
e conficcò ne le zolle del suolo ferace la lancia,
e con melliflui detti si volse al pastore di genti:
«Ospite dunque antico per parte di padre a me sei.
Sappi che accolse Enèo magnanimo sotto il suo tetto,
per venti giorni, Bellerofonte, l’eroe senza pecca.
Fecero poi, l’uno e l’altro, ricambio di doni ospitali.
Enèo diede una fascia di porpora bella, fulgente,
Bellerofonte una coppa di gemina faüce, d’oro,
ch’io custodita in casa lasciai quando venni alla guerra.
Non mi ricordo Tidèo: ché quando ero piccolo tanto,
ei mi lasciò; ché quel sire d’Achivi spirò sotto Tebe.
Ospite dunque io sono per te, se tu in Argo venissi,
tu ne la Licia a me, se tra il popolo io giungo dei Lici.
Anche per ciò nella pugna le lancie evitiam l’un dell’altro.
Molti a me restano sempre Troiani e valenti alleati
da sterminare, se un Dio me li offre, se al corso li aggiungo:
restano molti Achivi per te, se ad ucciderli vali.
Su via, dunque, tu ed io scambiamoci l’arme: ché tutti
veggano quale ci stringe dagli avi legame ospitale».
Dette queste parole, balzati dai cocchi giú a terra,
strinser la mano l’uno dell’altro, scambiaron la fede.
Ed il Croníde Giove del senno qui Glauco fe’ privo,
che col figliuol di Tidèo scambiò l’armi sue: queste d’oro,
quelle di bronzo; e die’ cento giovenchi per nove giovenchi.
Ettore arriva a Troia, alla porte Scee; va quindi dalla madre, a chiederle di fare sacrifici ad Atena

Ettore al faggio intanto giungeva, e alle porte Sceèe.
Qui dei Troiani le spose gli corsero incontro e le figlie;
e gli chiedeva ciascuna dei figli, i fratelli, i consorti,
d’ogni parente. A ciascuna rispose che preci ai Celesti
ora levassero. E molte restaron col lutto nel cuore.
Ma poi, quando alla casa di Priamo bellissima giunse,
tutta recinta in giro di portici al sole fulgenti —
ché da una parte v’eran di lucida pietra cinquanta
talami, l’uno all’altro costrutti vicini; ed i figli
di Priamo qui dormiano accanto a legittime spose;
e dirimpetto a questi, nell’ala sorgevano opposta
dodici talami, bene coperti di lucida pietra,
l’uno vicino all’altro costrutti, ed i generi quivi
dormivano del re, vicino alle nobili spose —
e dunque, incontro allora gli venne la madre amorosa,
che Laödice, la figlia piú bella di tutte, cercava.
E per la mano lo prese, gli volse cosí la parola:
«Figlio, perché la guerra crudele hai lasciata, e qui giungi?
I maledetti figli d’Acaia c’incalzano troppo
nella battaglia, alle mura d’intorno; o il tuo cuore t’ha spinto
qui, perché tu dalla rocca, tendessi le mani al Croníde?
Dunque, rimani, ché il vino soave di miele io ti rechi,
si che tu possa a Giove libare ed agli altri Celesti,
prima, e tu stesso quindi ne beva, e ne tragga conforto:
sai che ristora il vino le forze d’un uomo spossato,
come spossato sei tu coi tuoi, rintuzzando il nemico».
Ettore, il prode dall’elmo fulgente, cosí le rispose:
«Nobile madre, il vino soave di miei non offrirmi,
ch’io non mi stempri bevendo, ché oblio del valor non mi colga.
Né con le mani impure libar vino limpido a Giove
io l’oserei: ché a Giove dai nugoli negri, le preci
volger non è concesso, bruttati di fango e di sangue.
Ma le matrone tu raccogli, ed al tempio d’Atena
récati, della Dea predatrice, con fumi d’incenso.
E nelle stanze un peplo trascelto, il piú bello e il piú grande,
quello ch’è molto piú d’ogni altro diletto al tuo cuore,
ponilo su le ginocchia d’Atena dal fulgido crine;
e dodici giovenche prometti immolar nel suo tempio,
fulve, del pungolo ignare, ov’ella a pietà si commuova
della città di Troia, dei teneri figli e le spose.
Muovi or tu dunque al tempio d’Atena, la Dea predatrice,
ed io mi recherò da Paride: voglio chiamarlo,
se per ventura il richiamo sentisse. Cosí l’inghiottisse
dove si trova, la terra: ché in lui Giove Olimpio ha creato
per i Troiani, per Priamo, pei figli di Priamo, un flagello.
Se lo vedessi giú ne le case discender d’Averno,
quasi direi che il mio cuore dovesse obliare il suo pianto!».
Disse. Ed entrata in casa, la madre chiamava le ancelle,
che via per tutta Troia girando, adunar le matrone.
Essa discese poi nel talamo tutto fragrante,
dov’eran chiusi i pepli di mille colori, tessuti
dalle donne sidonie. Da Sídone il vago Alessandro
li avea su l’ampio gorgo recati del pelago, quando
Elena in Ilio, la bella di Giove figliuola condusse.
Ecuba uno di questi trascelse, e l’offerse ad Atena,
quello ch’era piú bello, piú vario di tinte, piú grande,
fulgido come un astro, riposto, per ultimo, in fondo:
quindi si mosse, e insieme moveano con lei le matrone.
Or, quando giunsero al tempio d’Atena, sovressa la rocca,
schiuse le porte ad esse Teàno, la figlia di Cisse,
la sposa guancia bella d’Antènore, il pro’ cavaliere,
ché aveano lei prescelta d’Atena ministra i Troiani.
Tutte con alte grida rivolser le mani ad Atena:
quindi, preso il bel peplo, Teàno dal viso leggiadro,
sulle ginocchia d’Atena dal fulgido crin lo depose,
ed invocò, scongiurando, la figlia di Giove possente:
«O somma Atena, o Dea fra le Dee, che la rocca proteggi,
a Dïomede spezza la lancia nel pugno, e lui stesso
fa’ che bocconi procomba dinanzi alle porte Sceèe:
e dodici giovenche verremo a immolar nel tuo tempio,
candide, al giogo non dome, qualora a pietà tu ti muova
della città, delle spose troiane, dei teneri figli».
Disse; ma Pallade Atena il capo in su volse, a diniego.
Queste preghiere dunque volgeano alla figlia di Giove.
Ettore va alla casa di Paride e rimprovera il fratello per la sua assenza dalla battaglia. Paride gli dice che sta tornando a combattere.

Ettore intanto alla casa movea del divino Alessandro,
bella, ch’ei stesso aveva costrutta con quanti a quel tempo
sperti maestri di mura contava la fertile Troia.
E avevano costrutta la casa la sala ed il letto
presso alle case di Priamo e d’Ettore, in cima alla rocca.
Ettore quivi giunse diletto ai Celesti; e la lancia
d’undici cubiti in pugno stringeva: la cuspide in vetta
lampi mandava di bronzo, cingevala d’oro un anello.
E lo trovò che l’armi nel talamo stava forbendo,
il corsaletto e lo scudo bellissimi, e l’arco ricurvo.
Elena poi, l’Argiva, sedea fra le donne di casa,
ed alle ancelle dava comandi, e compieano bell’opre.
Ettore, come lo vide, lo invase di turpi rampogne:
«Oh sciagurato! Hai proprio ragione di fare l’offeso!
Alla città d’attorno, d’attorno alle mura, le genti
cadono nella battaglia: fiammeggiano intorno a la rocca
l’urlo di guerra e la mischia: tu pure arderesti di sdegno
qualora altri vedessi non darsi pensier de la pugna!
Su, ché la rocca presto non arda pel fuoco nemico!» —
Ed Alessandro che un Nume sembrava, cosí gli rispose:
«Ettore, si che a ragione rampogna mi fai, non a torto.
Dunque ti risponderò; tu ascoltami e intendimi bene.
Non per collera no, né per sdegno contro i Troiani,
io me ne stavo chiuso nel talamo, in preda all’accidia.
Anzi la sposa, or ora, volgendomi blande parole,
me, ch’io tornassi a guerra, spronava: ed il meglio è sembrato
questo anche a me: la vittoria sorride ora a questo ora a quello.
Aspettami ora un po’, ché l’arme di guerra io rivesta.
Oppur, va, ch’io ti seguo: di certo raggiungerti penso».
Disse: né a lui risposta veruna diede Ettore prode.
E disse Elena ad Ettore queste melliflue parole:
«Cognato mio, davvero ch’io sono una cagna funesta,
lurida! Oh, se quel giorno che a luce la madre mi diede,
una maligna procella di venti m’avesse rapita,
o sovra un’alpe, o fra l’onde, fra i mille frastuoni del mare,
che m’inghiottissero i gorghi, che tanta sciagura non fosse!
Ma poi che tanti mali volean che seguissero, i Numi,
deh!, fossi almeno stata la sposa d’un uomo piú prode.
non come questo, sordo degli uomini al biasimo e all’onta!
Saldo volere questi non ha, né sarà mai che l’abbia
per l’avvenire; e un giorno dovrà ben pagarne la pena!
Ma dunque, entra, su’ via, su questo sgabello ti siedi,
cognato mio, ché piú d’ogni altro te grava il travaglio,
cagna ch’io sono, per me, d’Alessandro pel tristo destino:
ché Giove sopra noi volle infitta la sorte malvagia,
ché noi fossimo oggetto di canto alle genti future».
Ettore, il prode dall’elmo lucente, cosí le rispose:
«Elena, pur se ti preme di me, non mi chieder ch’io segga.
Non m’indurresti: ché il cuore mi sprona ch’io corra al soccorso
dei miei guerrier, che molto mi bramano, ed io sono lungi.
Scuoti bensí costui, s’affretti egli stesso ad armarsi,
sí che raggiungermi possa mentre io sono ancor fra le mura.
Io vado intanto a casa, ché voglio vedere i miei cari,
la prediletta sposa, col pargolo infante: ché ignoro
se dalla pugna ad essi potrò ritornare, o se i Numi
spento mi vogliano oggi sottesse le man’ degli Achivi». —
Ettore incontra la sua sposa Andromaca e il figlio Astianatte
Dette queste parole, l’eroe dal fulgente cimiero,
Ettore, mosse: e alla bella sua casa in un attimo giunse.
Ma non trovò nelle stanze la sposa dal candido braccio:
ch’essa col bimbo e l’ancella dal peplo fulgente, recata
s’era alla torre, e lí, piangeva, levava lamenti.
Ettore, poi che in casa non trovò la pura sua sposa,
sopra la soglia i passi fermò, si rivolse alle ancelle:
“Donne, di casa, andiamo, sapete di Andromaca dirmi,
sicuramente dove si trovi? Che fuor della casa.
Dalle cognate è andata fors’ella, o nel tempio d’Atena,
dove la Dea tremenda imploran le donne di Troia?». —
La dispensiera fida con queste parole rispose:
«Ettore, come tu chiedi, ti posso dar certa risposta.
Non già dalle cognate né al tempio d’Atena ella è andata,
dove la Dea tremenda imploran le donne di Troia;
ma sovra l’alta torre di Troia, quand’ella ha sentito
c’han gran vantaggio gli Achivi, che cadono stanchi i Troiani.
Subito allora è corsa di furia, verso le mura
come una pazza; e con lei la nutrice, recando il bambino».
La dispensiera disse cosí. Si spiccò dalla casa
Ettore, su la medesima via, per le belle contrade.
Ora, quand’egli, tutta la grande città traversata,
giunse alle porte Sceèe, dond’era l’uscita sul piano,
quivi gli venne contro, correndo, la florida sposa,
Andromaca, la figlia d’Etíone dall’animo grande,
d’Etíone, che sottesse le selve abitava del Placo,
nell’Ipoplacia Tebe, di genti cilicie signore;
e d’Ettore, fulgente guerriero, fu sposa la figlia.
Contro or gli mosse; e l’ancella seguiala, che il bimbo recava
parvolo ancora, né ancora parola dicea, tra le braccia,
d’Ettore il figlio diletto, che un astro del cielo sembrava.
Ettore lo chiamava Scamandrio; ma gli altri Troiani
Astïanatte: ché il padre, da solo era schermo di Troia.
Ecco, e sorrise in silenzio, com’egli il suo pargolo vide.
Ma, lagrime versando, vicina gli venne la sposa,
e per la man lo prese, gli volse cosí la parola:
«Misero te, la tua furia sarà la tua perdita, e il bimbo
non ti commuove a pietà, non io sciagurata, che presto
vedova rimarrò di te: ché ben presto gli Achei
t’uccideranno, piombando su te tutti insieme. Ed allora,
quando di te sarò priva, meglio è ch’io discenda sotterra;
poi che nessun conforto, se un tristo destino ti coglie,
piú mi rimane, ma solo cordoglio. Non padre, non madre
piú mi rimane. Ché il padre m’uccise il terribile Achille,
e la fiorente abbatté popolosa città dei Cilíci,
Tebe dall’alta porta. Die’ morte ad Etíone Achille,
né lo spogliò dell’armi, ché n’ebbe nel cuor peritanza;
ma, chiuso ancor nell’armi sue belle, lo diede alle fiamme,
e su le ceneri il tumulo estrusse; e le Ninfe montane,
figlie di Giove, che l’ègida scuote, lo cinsero d’olmi.
Nella mia casa con me vivevano sette fratelli;
ma nello stesso giorno piombarono tutti nell’Ade;
ché tutti quanti Achille, l’eroe piú gagliardo, li uccise,
presso alle tarde loro giovenche, alle pecore bianche.
La madre mia, la sposa del sire di Tebe Ipoplacia,
qui la condusse Achille con l’altre sue prede di guerra.
Poi rimandata l’aveva, ché n’ebbe riscatto infinito;
ma nella casa del padre, d’Artèmide un dardo la spense.
Ettore, dunque per me tu sei padre, sei tenera madre,
fratello sei per me, sei florido sposo. Oh, t’imploro,
muoviti adesso a pietà! Rimani con noi sulla torre,
non lasciar orfano il bimbo, né vedova me tua compagna!
E presso il caprifico la gente raccogli, ove il varco
s’apre piú facile verso la rocca, e piú agevole è il muro:
ché già l’hanno tentato tre volte i piú prodi guerrieri,
stretti agli Aiaci intorno, intorno ai due figli d’Atrèo,
a Idomenèo, valoroso campione, al figliuol di Tidèo,
sia che scaltriti li abbia qualcuno d’oracoli esperto,
sia che l’animo loro li spinga e costí li diriga».
Ettore grande, il prode dall’elmo corrusco, rispose:
«Di tutto questo anch’io pensiero mi do, sposa mia;
ma dei Troiani troppo temo io, delle donne troiane,
se come un vile in disparte mi faccio, se schivo la guerra;
né mi v’induca il mio cuore, ché appresi a condurmi da prode,
sempre, a combattere sempre fra i primi guerrieri di Troia,
gloria pel padre mio, per me gloria sempre acquistando.
E bene questo io so: me lo dicono l’anima e il cuore:
giorno verrà che cadrà la rocca santissima d’Ilio,
ed il re Priamo, e la gente di Priamo, maestra di lancia.
Ma non cosí dei Troiani la doglia futura mi cruccia,
non d’Ècuba mia madre, né pure del vecchio mio padre,
né dei fratelli miei, che molti, che forti, dovranno
sotto i nemici colpi cader nella polvere spenti,
come di te, quando alcuno dei duri guerrieri d’Acaia
via lagrimosa ti tragga, lontana dai liberi giorni,
e in Argo debba tu filare al telaio d’un’altra,
e da Messíde l’acqua tu debba portar, da Iperèa,
ben repugnante; ma pure costretta sarai dal destino.
E forse alcun dirà, vedendo che lagrime versi:
«D’Ettore è questa la sposa, che primo fra tutti i Troiani
era in valor, quando a Troia d’attorno ferveva la pugna».
Questo qualcuno dirà, nuova doglia sarà nel tuo cuore,
priva dell’uom che potrebbe strapparti alla vita servile.
Ah! Ma la terra sparsa sovresso il mio corpo mi asconda,
pria che il tuo lagno ascolti, che via tratta schiava io ti sappia!».
Poi ch’ebbe detto cosí, le mani tese Ettore al bimbo.
Ma con un grido il bambolo il viso nascose nel grembo
della nutrice bella, sgomento all’aspetto del padre:
ché sbigottí, vedendo rifulgere il bronzo, ed i crini
terribilmente ondeggiare su l’alto cimiero de l’elmo.
Sorrise il padre caro, sorrise la nobile madre.
E súbito dal capo via l’elmo si tolse l’eroe,
e a terra lo posò, che fu tutto un barbaglio di raggi.
Quand’ebbe poi baciato, palleggiato il figlio suo caro,
tale preghiera a Giove rivolse ed a tutti i Celesti:
«Giove, e voi tutti, o Numi, deh!, fate che tale divenga
questo mio figlio, quale sono io, dei Troiani l’insigne,
forte cosí di membra, sicuro signore di Troia.
E quando ei tornerà dal campo, taluno abbia dire:
«Questi è più forte molto del padre!». E, trafitto il nemico,
rechi di sangue intrise le spoglie; e s’allegri la madre».
Detto cosi, fra le braccia depose alla sposa diletta
il suo bambolo. Andromaca al seno odoroso lo strinse,
e fra le lagrime rise. E vide lo sposo quel riso,
e si commosse, e a farle carezza distese la mano:
«O poverina! — le disse — non stare ad affliggerti troppo:
ché contro il fato nessuno potrà giù nell’Ade piombarmi:
ché la sua sorte, ti dico, nessuno degli uomini schiva,
né buono, né malvagio, come essa per lui sopraggiunga.
Via, dunque, adesso, a casa ritorna, ed all’opere attendi,
alla tua rocca, al telaio, partisci comandi alle ancelle,
ch’esse lavorino. E gli uomini, quanti ne nacquero in Ilio,
— io più che tutti gli altri — dovranno pensare alla guerra».
Paride raggiunge Ettore e insieme tornano agli accampamenti a combattere

Detto cosi, raccolse dal suolo il crinito cimiero
Ettore; e verso casa moveva la sposa diletta,
spesso volgendosi addietro, versando amarissimo pianto.
Subito, quindi alla grande magione d’Ettore giunse,
d’Ettore, sterminatore di genti; e trovò molte ancelle
quivi raccolte, che tutte levaron, vedendola, un pianto.
Ettore, vivo ancora, piangevano nella sua casa,
ché non avevano più speranza che vivo tornasse
dalla battaglia, e alle mani sfuggisse e al furor degli Achivi.
Né troppo a lungo indugiava nell’alta magione Alessandro.
Anzi, poiché le belle armi di bronzo ad intarsi ebbe cinte,
traverso la città si lanciò sui piedi veloci,
come un cavallo, d’orzo pasciuto al presepe e rinchiuso,
uso a tuffare le membra nell’ampia corrente del fiume,
che, quando i lacci spezzò, scalpitando si lancia sul piano,
fiero, tenendo pur erta la testa: d’attorno, sul dorso
balzano i crini; e, ratte, lo portano via le ginocchia,
conscio di sua beltà, dove pascono gli altri corsieri.
Paride similemente, di Pergamo via per la rocca,
tutto fulgente nell’armi correa, come un sole, e levava
alte le grida, portandolo i piedi veloci; e d’un tratto,
Ettore, il prode fratello raggiunse, che appunto dal luogo
si distaccava dove parlato egli avea con la sposa.
Primo Alessandro, che un Nume sembrava, lo vide, e gli disse:
«Caro fratello, troppo tardare ti fo, quando hai fretta:
ché m’indugiai, né, come volevi, qui subito giunsi».
Ettore, il prode dall’elmo fulgente, cosí gli rispose:
«Fratello mio, nessuno, pur ch’egli sia giusto, potrebbe
biasimo darti nell’opre di guerra: ché sei valoroso.
Ma, come puoi, t’abbandoni, volere non sai: si che tutto
mi duole il cuor, se ascolto di che vitupèri coprirti
usa la gente di Troia, che tanto per te si travaglia.
Ora si vada: ché ammenda faremo di tutto, se un giorno
Giove conceda che ai Numi del ciel sempiterno si possa
dentro le case libare la coppa dei liberi giorni,
dopo scacciati gli Achivi guerrieri dal suolo di Troia».
Ettore e Paride uccidono molti Achei. Atena e Apollo decidono che è il momento di fare una tregua per seppellire i morti, e che Ettore dovrà affrontare in duello uno degli Achei
Poi ch’ebbe detto cosí, tutto fulgido fuor dalle porte
Ettore irruppe, e seco moveva il fratello Alessandro,
pieni di brama entrambi, nel cuore, di guerra e di zuffe.
E come ai navichieri che ansiosi lo attendono, un Nume
manda propizio vento, quando essi, correndo sul mare,
stanchi già sono sui remi, fiaccate han le membra al travaglio:
tali ai Troiani, che brama ne avevano, apparvero quelli.
Quivi Alessandro uccise Menestio figliuol d’Aritòo,
ch’Arne abitava: Aritòo, clavigero sir, gli fu padre,
Filomedusa dagli occhi rotondi lo diede alla luce.
Ed Ettore colpí con l’acuta zagaglia Eionèo,
sotto il frontale di rame dell’elmo, e gli tolse la vita.
Glauco, d’Ippòloco figlio, signor della gente di Licia,
con la zagaglia Ifímo trafisse, nel fiero cimento,
figlio di Dexïo, mentre pugnava sul rapido carro.
L’omero gli ferí: cadde a terra, e fiaccato fu il corpo.
Come di lor s’accorse la Diva dagli occhi azzurrini,
che nel cimento fiero, sterminio facevan d’Argivi,
giù con un lancio verso Ilio piombò dalle vette d’Olimpo.
Ma Febo, che voleva conceder vittoria ai Troiani,
come veduta l’ebbe da Pèrgamo, incontro le mosse.
Stettero presso al faggio, vicin l’uno all’altro, i due Numi;
e parlò primo Apollo sovrano, figliuolo di Giove:
«Perché con tanta furia, figliuola di Giove possente,
sei dall’Olimpo discesa? Che gran desiderio ti spinge?
Conceder forse vuoi la dubbia vittoria agli Achivi?
Ché già, pietà di tanti Troiani caduti, non senti.
Questo, se tu vorrai darmi ascolto, sarebbe pel meglio:
tregua facciam che quest’oggi si ponga agli scontri e le zuffe:
riprenderanno poi la pugna diman, sin che d’Ilio
trovino il fine fatale, giacché questo avete deciso,
voi, sempiterne Dive: che questa città sia distrutta».
E a lui cosí rispose la Diva dagli occhi azzurrini:
«Sia pur cosí, dell’arco Signore: con questo pensiero,
d’Olimpo anche io venuta son qui, fra Troiani ed Achivi.
Ma dimmi, come pensi che fine si ponga alla pugna?»
E a lei cosí rispose Apollo figliuolo di Giove:
«Ettore ardito eccitiamo, l’eroe domator di cavalli,
ch’egli a combattere inviti qualcuno dei Dànai guerrieri,
da solo a sol provando le forze nell’aspro cimento.
E, provocati, anch’essi, gli Achei da le belle gambiere,
qualcuno ecciteranno, che d’Ettore affronti la furia».
Cosí disse. E concorde fu pur l’occhiglauca Diva.
L’indovino Eleno riferisce il volere degli dei al fratello Ettore. Gli schieramenti si fermano ed Ettore annuncia il duello; gli Achei devono scegliere chi di loro lo sfiderà.

Ed Èleno sentí, di Priamo il figlio, nell’alma,
quale partito fosse piaciuto al consiglio dei Numi,
e verso Ettore mosse, gli stette vicino, e gli disse:
«Ettore, figlio di Priamo, che a Giove sei pari nel senno,
vuoi far ciò ch’io ti dico? ch’io son tuo fratello germano.
Fa’ che i Troiani tutti si fermino, e tutti gli Achivi,
ed il più prode invita dei loro, che teco s’azzuffi
da solo a solo, provi le forze nell’aspro cimento:
poi che destino non è che tu muoia ancora e soccomba:
la voce a me lo disse dei Numi che vivono eterni».
Ettore, a queste parole, pervaso di gioia profonda,
tra le falangi balzò dei guerrieri troiani, a frenarli,
la lancia a mezzo pugno stringendo; e ristettero tutti.
Anche Agamènnone, allora, le schiere frenò degli Achivi.
E Atena allora, e Apollo, signore dall’arco d’argento,
assunsero la forma di vúlturi alati, e del faggio
sacro all’egíoco Giove posâr su l’altissima vetta,
mirando con diletto le schiere. E posavan le schiere,
fitte, con lucidi guizzi di scudi, di lance, d’elmetti.
Come allorché sul mare di Zefiro un brivido corre
sorto da poco, e negri sotto esso divengono i flutti,
cosí nella pianura le schiere d’Achivi e Troiani
stavano; ed Ettore, in mezzo, cosí cominciava a parlare:
«Datemi ascolto. Troiani, e Achei da le belle gambiere,
sí ch’io vi dica quello che il cuor mi consiglia nel seno.
Giove, l’eccelso re, vietò che tenessimo i giuri,
e gli uni e gli altri pose, con animo infesto, al cimento,
sinché di Troia voi le solide torri prendiate,
o siate voi domati vicino alle rapide navi.
Ma i primi son tra voi campioni di tutta l’Acaia.
Ora, se alcuno di questi lo spinge il suo cuore a battaglia,
venga, e l’eletto sia fra tutti, contro Ettore forte.
Questo io vi dico; e sia Giove re testimonio ad entrambi:
se quegli a me la morte darà con la spada affilata,
faccia dell’armi preda, le porti alle concave navi,
e in Troia il corpo mio di nuovo rimandi, e i Troiani
possano al fuoco dare la salma, e le spose troiane.
E s’io l’uccido, e Apollo tal gloria mi dà, l’armi sue
io prenderò, porterò di Troia nel sacro recinto,
le appenderò nel tempio d’Apollo che lungi saetta,
e il corpo renderò ai legni dai solidi banchi,
perché gli dian sepolcro gli Achei dalle floride chiome,
e d’una tomba il clivo gl’innalzin su l’ampio Ellesponto,
sí che taluno dica, di quanti verranno in futuro,
con la sua nave grande solcando il purpureo mare:
— Questa è la tomba d’un uomo che visse nei tempi remoti:
Ettore illustre l’uccise, mentre ei combatteva da prode. —
Cosí dirà taluno. Né fine avrà mai la sua gloria».
Cosí diceva. E muti rimasero tutti gli Achivi,
ché avean di rifiutare vergogna, e timor d’accettare.
Tutti gli Achei temono Ettore, Menelao accetta per primo la sfida, ma Agamennone lo distoglie; altri nove allora si offrono, e viene estratto a sorte il nome di Aiace.

Pure, a parlar si levò Menelao, con parole rissose,
con vituperî ai compagni: ché il cuor gli gemeva nel petto:
«Ahimè!, millantatori, Achivi non più, bensí Achive,
che macchia sarà questa, tremenda e assai più che tremenda,
se niuno degli Achei contro Ettore ardisse pugnare?
Or tutti quanti possiate disperdervi in polvere ed acqua,
senza coraggio qui, senza gloria restando seduti;
ed io contro costui pugnerò: delle pugne l’evento
tengono su, dall’Olimpo, i Numi che vivono eterni».
Come ebbe detto ciò, prese a cingere l’armi sue belle.
E qui giungeva il fine per te, Menelao, di tua vita,
d’Ettore sotto le mani, che era di tanto piú forte,
se, per frenarti, in pie’ non balzavano i principi Achivi.
Primo il possente re, l’Atríde Agamènnone, ei stesso
la destra t’afferrò, ti parlò con alate parole:
«Di senno uscito sei, Menelao, caro alunno di Giove,
né tal follia ti s’addice. Per quanto crucciato, rattienti,
e non voler, nell’ira, pugnar con un uomo più forte
di te, col Priamíde, di cui sbigottiscono tutti.
Achille, anch’esso trema, che tanto di te piú gagliardo,
se negli scontri deve di guerra affrontare quell’uomo.
Via, fra le schiere tu dei compagni ritorna tranquillo,
e contro Ettore, un altro campion manderanno gli Achivi;
ed ei, sebbene intrepido sia, né mai sazio di lotte,
sarà pago, dico io, di piegar le ginocchia al riposo,
se pure scamperà della pugna alla furia, all’orrore».
Cosí disse, distolse cosí del fratello la mente,
ché buono era il consiglio. Convinto fu quello, ed allora,
ben lieti, i suoi scudieri gli tolsero l’arme di dosso.
E fra gli Argivi, in pie’ surse Nèstore allora, e sí disse:
«Ahimè, che lutto grande colpisce la terra d’Acaia!
Ahimè, quanto dovrà lagrimare l’antico Pelèo
re dei Mirmidoni probo, valente a parlar nei consigli!
Nella sua casa, un giorno, domande su tutti gli Argivi
ei mi rivolse: le stirpi di tutti mi chiese, e le genti,
e s’allegrò. Ma, se udisse che treman per Ettore tutti,
ei leverebbe ai Numi le palme, pregando, che, uscita
l’anima sua dalle membra, piombasse nel regno d’Averno.
Deh!, Giove padre, Apollo, Atena, se giovane io fossi,
come allorché le schiere degli Arcadi, prodi lancieri
del Celadóne sui flutti veloci pugnaron coi Pili,
presso le mura di Feia, lunghessi del Giàrdano i rivi!
Euritalíone primo sorgeva fra loro, d’aspetto
simile a un Dio: cingeva le membra con l’armi d’Arète,
d’Arète sire, stirpe divina, a cui gli uomini tutti,
tutte le donne, dare solean di Clavígero il nome,
perché non combatteva con l’arco e le lunghe zagaglie,
bensí con una clava di ferro spezzava le schiere.
Licurgo uccise lui con la frode, non già con la forza,
in un’angusta via, là dove la clava di ferro
non lo salvò dalla morte, perché lo prevenne Licurgo
che lo trafisse a mezzo con l’asta; e quei cadde supino.
Dell’armi lo spogliò, ch’eran dono del ferreo Marte,
ed egli or le indossava negli aspri tumulti di guerra.
E poi che nella casa Licurgo fu giunto a vecchiaia,
Euritalíone l’ebbe da lui, suo diletto scudiero.
E con quell’arme indosso sfidava i più prodi alla pugna.
Tutti tremavano, tutti temevano, e niun s’arrischiava:
sol me spinse alla zuffa lo spirito ardito e tenace,
col suo coraggio; ed ero per anni il più giovin di tutti.
E combattei con lui, e Atena a me diede vittoria:
quell’uomo uccisi, ed era di tutti il più forte e il più grande,
ché in lungo e in largo, molto di suolo ingombrava la salma.
Deh!, cosí giovine io fossi, deh!, avessi tuttor quella forza!
Ettore il prode, ben presto dovrebbe esser sazio di pugne.
Ma voi, quanti qui siete più prodi fra tutti gli Argivi,
neppure voi bramate venire con Ettore a pugna!».
Li rampognava il vecchio cosi. Nove sursero tosto.
Surse Agamènnone, primo fra tutti, pastore di genti;
secondo si levò Dïomède, il gagliardo Tidíde;
quindi gli Aiaci entrambi, vestiti di furia guerresca;
e quindi Idomenèo, poi d’Idomenèo lo scudiere,
Meríone, ch’era pari a Eníalo vago di stragi;
Eurípilo poi surse, d’Evèmone il fulgido figlio,
surse Toante, il figlio d’Andrèmone, e Ulisse divino:
tutti volevano a zuffa venire con Ettore divo.
Nèstore allora parlò, cavaliere Gerenio, e sí disse:
«Ora, su’ via, la sorte provate, chi venga prescelto.
Costui potrà recare non piccolo aiuto agli Achei,
e darne anche a sé stesso, se salvo riesce a sfuggire
dalla battaglia infesta, dall’urto nemico furente».
Cosí diceva. E quelli segnarono ognun la sua sorte,
e d’Agamènnone re la gittaron nell’elmo. E le genti,
alte le braccia ai Numi levaron con molte preghiere;
e ognuno, verso il cielo rivolte le luci, diceva:
«Deh!, Giove padre, Aiace sia scelto, o il figliuol di Tidèo,
oppur lo stesso re di Micene che sfolgora d’oro».
Cosí dicean. Le sorti nel casco agitava il guerriero
Nèstore; e quella fuori balzò che bramavano tutti:
quella d’Aiace. Si mosse da destra pel campo l’araldo,
di luogo in luogo; e il segno mostrava a quei prodi campioni.
Niuno però lo conobbe, diniego ne fecero tutti.
Ma quando poi, girando via via per le schiere, pervenne
a chi l’aveva impresso, gittato nel casco, ad Aiace,
tese costui la mano, l’araldo vi pose la sorte.
E quegli, il proprio segno conobbe; e, gioendo nel cuore,
presso ai suoi piedi, a terra, lasciò che cadesse, e proruppe:
«Amici, è proprio mio, questo segno, ed il cuore mi gode,
ché io vincere spero di Priamo il figlio divino.
Orsú, dunque, mentre io mi cingo dell’armi di guerra,
le preci voi frattanto levate al figliuolo di Crono,
muti, fra voi, che nulla ne debban sapere i Troiani:
od anche, apertamente, ché noi non temiamo nessuno.
Niuno a sua posta potrà, se non voglio, respingermi a forza,
né ciò potrà con l’arte: ché tanto inesperto di guerra,
in Salamina, io credo, non fui generato, né crebbi».
Cosí diceva; e quelli pregarono il figlio di Crono;
e ognuno, verso il cielo volgendo le luci, diceva:
«O Giove, o sommo padre famoso, che regni dall’Ida,
fa’ tu che vinca Aiace, che fulgida gloria riporti;
e pur se il suo rivale te caro, se d’Ettore hai cura,
uguale all’uno e all’altro concedi la forza e la gloria».
Aiace ed Ettore, dopo un rapido scambio di battute, si affrontano in duello. Ettore rimane leggermente ferito, ma continua a lottare.

Cosí diceano. E Aiace s’armava del fulgido bronzo.
E poscia ch’ebbe tutte le membra coperte dell’armi,
solo si mosse, come procede l’orribile Marte,
quando egli a guerra muove fra genti che il figlio di Crono
spinge a pugnar, nella furia di scontri che struggon le vite.
Tale l’immane Aiace sorgea, degli Achei baluardo,
con un terribile riso ridendo; ed i piedi moveva
a lunghi passi, e l’ombra crollava dell’asta sua lunga.
E lieti anch’essi, quando lo videro, furon gli Argivi;
ma di tremore orrendo fu invaso ciascun dei Troiani;
e sino Ettore, in petto sentí forte battere il cuore.
Ma non poteva più ritirarsi, piegar tra le schiere,
ch’ei provocata aveva la pugna. E gli fu presso Aiace.
Simile a torre un palvese di pelli bovine e di bronzo
egli recava: Túchio foggiato l’aveva, che in Ila
dimora aveva, il primo fra quanti foggiavano il cuoio.
Questi costrutto aveva lo scudo brillante, con sette
giri di pelli di buoi ben pasciuti; e l’ottavo di bronzo.
Questo dinanzi al petto reggea di Telàmone il figlio.
Stette ad Ettore presso, parlò con minaci parole:
«Ben chiaro, Ettore, adesso, da solo a solo, vedrai
quanti gagliardi sono fra i Dànai campioni di guerra,
anche oltre Achille, sterminio di genti, dal cuor di leone.
Ora ei sopra le navi ricurve che solcano il mare
poltrisce, in odio al re di genti Agamènnone: molti
però ci sono ancora, che stare ti possono a fronte.
Su via, dunque, si dia principio alla guerra e alla zuffa».
Ettore, agitatore dell’elmo, cosí gli rispose:
«O Telamònio Aiace, divino pastore di genti,
non fare questa prova su me, come io fossi un fanciullo
privo di forze, o una donna che ignora le prove di guerra.
Esperto io molto sono di guerre e di zuffe omicide:
a destra e a manca so palleggiare lo scudo di guerra,
senza fatica: cosí leggera è per me la battaglia:
precipitarmi so nel tumulto dei rapidi carri;
so, combattendo a pie’ fermo, danzare la danza di Marte.
Ora, cercare il modo non vo’ di colpire ad inganno
te cosí prode; bensí, se posso, di colpo palese».
Detto cosí, librò, vibrò la sua lunga zagaglia
contro l’orrendo palvese foggiato di pelli bovine.
Percosse il disco ottavo, di bronzo, sui sette di pelle:
sei falde penetrò la furia del solido bronzo,
e trattenuta fu dalla settima. Aiace, di Giove
stirpe, secondo l’asta vibrò che gittava lunga ombra,
ed Ettore colpi sovresso lo scudo rotondo.
L’asta massiccia passò fuor fuori lo scudo lucente,
e nell’usbergo, tutto d’agèmine vario, s’infisse.
La tunica passò, presso il fianco, diritta la punta;
ed egli si chinò, schivando la livida Parca.
Trassero fuori ancora entrambi le lunghe zagaglie;
e l’un sull’altro poi piombarono, pari a leoni
crudi, a cignali selvaggi, di cui non è poca la forza.
Il Priamíde colpi con l’asta lo scudo nel mezzo,
né frangerlo poté, ché indietro la punta si torse.
Aiace s’avventò, lo scudo percosse, e fuor fuori
l’asta passò, frenò del figlio di Priamo la furia,
toccando a striscio il collo, sprizzare facendone il sangue.
Né desisté dalla pugna, per questo, il Priàmide forte.
Ma, fatto un balzo indietro, raccolse di terra un macigno
giacente al suolo, negro, tutto aspro; e con mano possente
l’avventò contro Aiace. Percosse lo scudo nel mezzo
sopra l’umbone: fu alta la romba del bronzo percosso.
Ecco, e un macigno Aiace raccolse di molto più grosso,
lo roteò, lo scagliò, v’impresse una forza infinita.
Quella pietra da mola colpí, spezzò dentro lo scudo,
ad Ettore fiaccò le ginocchia: ed ei cadde supino,
stretto serrato allo scudo. Ma Febo l’alzò senza indugio.
Aiace ed Ettore stanno combattendo corpo a corpo quando arrivano gli Araldi ad interromperli perché ormai è notte. Aiace ed Ettore si scambiano doni; poi tornano agli accampamenti.

E adesso, a corpo a corpo, venivano già con le spade,
quando gli araldi, che sono di Giove e degli uomini messi,
giunser, da Troia l’uno, dai prodi guerrieri d’Acaia
l’altro, Taltibio e Idèo, di mente scaltrissimi entrambi.
In mezzo ai due campioni frapposer gli scettri; e tai detti
rivolse ad essi Idèo, maestro d’accorti consigli:
«Ponete fine, figli diletti, allo scontro e alla zuffa,
però ch’entrambi siete diletti al tonante Croníde,
e prodi entrambi: questo, nessuno è fra noi che nol sappia.
Ma già scende la notte: conviene alla notte ubbidire».
Aiace a lui rispose cosi, di Telàmone il figlio:
«Queste parole volgetele ad Ettore, ed egli proponga:
ei provocava alla pugna per primo i più forti campioni:
anche or sia primo; ed io farò come fare a lui piace».
Ettore, agitatore dell’elmo, cosí gli rispose:
“Poi che un Celeste, o Aiace, ti die’ la grandezza e la forza
e la saggezza, e prode guerrier sei fra tutti gli, Achivi,
per questo giorno, fine si ponga allo scontro e alla zuffa.
Un’altra volta, poi, torneremo a pugnare, sin quando
giudichi un Nume, e ad uno dei due, la vittoria conceda.
Ora, la notte scende: conviene alla notte ubbidire,
sicché presso le navi tu possa far lieti gli Achivi
tutti, e gli amici più di tutti, e i diletti compagni;
ed io torni alla grande città di Priamo, e lieti
tutti i Troiani, e tutte di Troia le donne eleganti
renda, che pregheranno per me nelle case dei Numi.
E l’uno e l’altro, su, scambiamoci fulgidi doni,
ché dir possa cosí ciascun degli Achivi e i Troiani:
«L’un contro l’altro questi pugnarono in lotta mortale,
ma poi, fatto un accordo, la pugna lasciar come amici».
Disse. E una spada gli offri, tutta ornata di chiovi d’argento:
con la guaina la porse, col balteo di taglio elegante.
E un cinto diede a lui, di porpora fulgido, Aiace.
Cosí furon divisi. L’un dessi tornò fra gli Achivi,
l’altro fra le falangi troiane, e il frastuono. E i Troiani
furono lieti, quando lo videro incolume e vivo,
sfuggito all’ira e al pugno d’Aiace invincibile; e ad Ilio
lo ricondussero, quando perduta n’avean la speranza.
Dall’altra parte, poi, gli Achivi belligeri, Aiace
lieto di sua vittoria guidarono al figlio d’Atrèo.
Come alla tenda poi d’Agamènnone giunse, per essi
fece immolare l’Atride signore di genti, un giovenco
maschio, che aveva cinque anni, di Crono al possente figliuolo.
Tutta gli tolser la pelle, gli fecero a quarti le membra:
fattolo a pezzi minuti, lo infissero poi negli spiedi,
con cura lo arrostiron, poi tolsero tutto dal fuoco.
E poi che fu il lavoro cessato, e allestito il banchetto.
si banchettò, né alcuno restò con la brama del cibo.
Ed i filetti interi, donò, per sua parte, ad Aiace
l’eroe figlio d’Atrèo, Agamènnone, sire possente.
Nestore propone una tregua agli Achei per seppellire i morti e costruire una palizzata nella notte. Antenore suggerisce ai Troiani di restituire Elena agli Achei. Paride si oppone, dichiarandosi però disposto a restituire i beni di Elena, aggiungendone di suoi.

Quando èbber poi sedata la brama del cibo e del vino,
incominciò tra loro per primo ad intesser progetti
Nèstore, il cui consiglio sembrato era innanzi il migliore.
Pensando al loro bene, cosí prese questi a parlare:
«Atríde, e quanti siete piú forti fra tutti gli Achivi,
Achei molti, di già, dalla florida chioma son morti,
e il loro sangue negro d’intorno al veloce Scamandro
Marte feroce sparse, discesero l’anime all’Orco.
Quindi, convien che a l’alba diman tu sospenda la zuffa,
e che gli Achei, raccolte le salme, coi muli e coi bovi
qui le trascinin sui carri: qui poi li daremo alle fiamme,
tanto cosí lontano dai legni ché l’ossa d’ognuno
possano avere, quando si torni alla patria, i suoi figli.
Ed una tomba s’innalzi d’intorno alla pira, indistinta
dalla pianura; e presso la tomba s’innalzino presto
eccelse torri, a noi riparo e alle navi; e costrutte
sian nelle torri porte di salda compagine, in guisa
che schiusa sia per esse la strada ai cavalli ed ai carri;
e fuori, innanzi ad esse, si scavi una fossa profonda,
che tutto intorno giri, respinga i cavalli ed i fanti,
sicché non ci soverchi l’assalto dei prodi Troiani».
Cosí diceva; e i prenci lodarono tutti i suoi detti.
Ed anche in Ilio sacra tenevan concione i Troiani,
con gran tumulto e grida, di Priamo presso a le porte.
E cominciò per primo Antènore saggio a parlare:
«Udite, voi Troiani, voi Dàrdani, e genti alleate,
ché udir possiate quello che il cuore m’impone ch’io dica.
Su’, dunque, Elena argiva si renda, con tutti i suoi beni,
che se la portin gli Atridi. Ché or, nella pugna, spergiuri
noi combattiamo: per questo giammai non avremo il vantaggio».
Come ebbe detto ciò, sedette. E il divino Alessandro,
d’Elena chioma bella lo sposo, allor surse fra loro;
e a lui cosí rispose, parlò queste alate parole:
«Le tue parole a me non furono, Antènore, grate.
Certo potresti dire parole migliori di queste.
Se poi quello ch’ài detto, l’hai detto davvero, sul serio,
allora si, che i Numi t’avranno levato di senno!
Ma voglio tuttavia parlare ai guerrieri troiani,
e senza ambagi dico: non restituisco la donna;
ma i beni, quanti d’Argo ne addussi alla casa paterna,
restituire tutti li voglio, ed aggiunger del mio».
Com’ebbe detto ciò, sedette. E successe a parlare
Priamo, di Dàrdano figlio, l’uguale dei Numi per senno.
Esso, pensando al bene, parlò, disse queste parole:
«Udite, voi. Troiani, voi Dàrdani, e genti alleate,
ché udir possiate quello che il cuore m’impone ch’io dica.
Or, come al solito, dentro le mura, si pensi alla cena,
e si provveda alla guardia, ché ognuno sia vigile e desto.
Domani, all’alba, Idèo si rechi alle concave navi,
e dica ai due figliuoli d’Atrèo, condottieri di turbe,
quanto propone Alessandro, che origine fu della guerra.
Ed anche questa saggia proposta si faccia: che tregua
ora si ponga all’orrendo frastuono di guerra, sin quando
arse le salme abbiamo. Sarà poi ripresa la guerra,
sin che decida un Nume di chi pur sarà la vittoria».
Cosí diceva. E tutti l’udirono, e dieder consenso.
Fecero quindi, a schiere nel campo divisi, la cena.
L’araldo Ideo riferisce agli Achei l’offerta di Paride, ma essi non accettano. Agamennone acconsente ad una tregua per seppellire i morti

E mosse Idèo, sul fare dell’alba, alle concave navi,
e i Dànaï trovò, valletti di Marte, a convegno,
presso alla poppa del legno del sire Agamènnone. Stette
fra loro, e disse queste parole l’araldo canoro:
«Atrídi, e quanti siete qui primi fra tutti gli Achivi,
Priamo, e seco gli altri valenti Troiani, m’impose
ch’io vi dicessi, se pure l’udirlo v’aggradi e vi piaccia,
quanto propone Alessandro, che origine fu della guerra.
I beni tutti, quanti sovresse le concave navi
ei n’ha recati a Troia — deh!, prima cosí fosse morto! —
ei tutti quanti vuole ridarveli, e aggiunger del proprio;
ma non di Menelao ridar la bellissima sposa
vuole, per quanto a ciò lo esortino tutti i Troiani.
Questa proposta ancora mi disse, se mai vi piacesse:
che si sospenda l’orrendo furore di guerra, sin quando
arse le salme abbiamo. Sarà poi ripresa la guerra,
sin che decida un Nume a chi pur darà la vittoria».
Cosí diceva; e tutti rimasero a lungo in silenzio.
Pure, alla fine, parlò Dïomede, alto grido di guerra:
«Nessuno accetti mai, né i doni che v’offre Alessandro,
né pure Elena. È chiara cosí, da vederlo un fanciullo
che sui Troiani oramai sovrasta l’estrema rovina».
Cosí diceva. Ed alto levarono un grido d’assenso
tutti gli Achivi, ammirando, per ciò ch’egli disse, il Tidíde;
ed Agamènnone queste parole rivolse all’araldo:
«Idèo, tu stesso l’odi, che cosa rispondon gli Achivi:
la lor parola è chiara; né ciò che a me piace è diverso.
Quanto alle salme, oppormi non so che si diano alle fiamme
ché niuno impedimento pei corpi si fa degli estinti,
quando la vita han persa, che tosto si plachin col fuoco.
E Giove, sposo d’Era, sia vigile ai patti giurati».
Cosí disse; e invocò tutti i Numi, levando lo scettro.
E Idèo fece ritorno di nuovo alla rocca di Troia.
Achei e Troiani danno sepoltura ai morti. Gli Achei approfittano della tregua per costruire mura e un fossato a protezione delle navi. Poseidone, invidioso, medita di distruggerle

Stavano quivi accolti coi Dàrdani in piazza i Troiani,
ed attendevano, insieme ristretti, che Idèo pur tornasse.
Ed ecco, egli tornò. Fermandosi in mezzo a la folla,
die’ la risposta. E quelli si mossero, tolti gli arnesi,
questi a raccoglier le salme, quegli altri nel bosco, a far legna.
Cosi, dall’altra parte, dai legni si mosser gli Achivi,
questi a raccoglier le salme, quegli altri nel bosco a far legna.
Il sole allora allora scagliava sui campi i suoi raggi,
surto dal placido corso, dai gorghi d’Ocèano profondi
salendo al cielo. E qui s’incontrarono Achivi e Troiani.
E qui, difficile era distinguere un corpo dall’altro.
Ma pure, via con l’acqua tergendone i grumi del sangue,
versando caldo pianto, le salme levaron sui carri.
Ma Priamo proibiva che pianto versassero; e muti,
pieni di cruccio il cuore, sui roghi ammucchiarono i morti;
e poi, dopo bruciati, tornarono ad Ilio la sacra.
Cosi, dall’altra parte, gli Achivi dai vaghi schinieri,
pieni di cruccio il cuore, sui roghi ammucchiarono i morti:
e poi, dopo bruciati, tornarono ai concavi legni.
E ancor l’alba non era, ma incerto bagliore di notte,
quando alla pira intorno d’Achivi, uno scelto drappello
s’accolse, e intorno ad essa levarono un tumulo solo
nella pianura; e ad esso vicino costrussero un muro,
sul muro eccelse torri, ripari alle navi e a sé stessi,
e vi dischiusero porte di salda compagine, in guisa
che aperta fosse qui la strada ai cavalli ed ai carri.
Fu poi dal lato esterno del muro scavata una fossa
grande, profonda, larga, confitti vi furono pali.
Stavan cosí gli Achei dalle floride chiome al travaglio.
E i Numi, presso Giove, che i folgori avventa, seduti,
stupivan degli Achei loricati di bronzo, le gesta.
Ed a parlare prese fra loro Posídone, e disse:
«Deh!, Giove padre, qual uomo piú mai su la terra infinita
agli Immortali vorrà svelar ciò che crede e che sente?
Or non vediamo noi che gli Achei dalla florida chioma
hanno levato un muro dinanzi alle navi, e una fossa
hanno scavata, e ai Numi non hanno immolata ecatombe?
Dovunque Aurora sorge, sarà questo muro famoso,
e quello oblieranno che io con Apolline Febo
già costruimmo per Laömedonte, e fu grave fatica!».
E a lui crucciato, Giove che i nugoli aduna, rispose:
«Ahimè, Nume possente che scuoti la terra, che dici?
Altri, se mai, fra i Numi, di questo potrebbe temere,
che assai fosse di te piú fiacco e di mani e d’ardire.
La gloria tua sarà dovunque rifulga l’Aurora.
Animo, dunque, allorché gli Achei dalle floride chiome
faranno, essi e le navi, ritorno alla terra nativa,
tu la muraglia spezza, disperdila tutta nel mare;
e poi la spiaggia grande di nuovo ricopri di sabbia:
sia degli Achei cosí da te la muraglia distrutta».
Queste parole cosí scambiavano l’uno con l’altro.
E il sol s’immerse, e l’opra compiuta era già degli Achivi.
E buoi presso le tende sgozzarono, e presero il pasto.
E poi, giunsero navi da Lemno, e recarono vino,
molto: lo avea mandato Evèno figliuol di Giasone,
cui generava a Giasone, signore di genti, Issipíle;
or, per i due figliuoli d’Atrèo condottieri di turbe,
mille misure mandò di vin pretto il figliuol di Giasone.
Vino da lui compravan gli Achei dalle floride chiome,
e davano in compenso, chi bronzo, chi lucido ferro,
altri di bove pelli, ed altri gli stessi giovenchi,
ed altri, schiavi. Lauto cosí fu allestito il banchetto.
Tutta la notte, gli Achei dalla florida chioma nel campo,
ed i Troiani in città banchettaron coi loro alleati:
tutta la notte Giove per essi annunziò la sciagura,
terribilmente tonando. Invasi di bianco terrore,
quelli lasciavano il vino cader dalle coppe; e nessuno
bevve, che non avesse libato al possente Croníde.
Giacquero poscia. E tutti goderono i doni del sonno.
Giove impedisce agli dei di partecipare alla battaglia; Atena dice che si limiterà a consigliare. Giove va su una vetta per contemplare dall’alto entrambi gli schieramenti, e destina la vittoria ai Troiani
Spandeasi Aurora, peplo di croco, su tutta la terra,
quando, sul picco piú alto dei vertici molti d’Olimpo,
Giove chiamò, che s’allieta dei folgori, i Numi a concione.
Ed egli favellò, l’udirono tutti i Celesti:
«Voi tutti, o Numi, e tutte voi, Dive, ora datemi ascolto,
ché io vi dica quello che il cuor mi comanda ch’io dica.
Nessun di voi Celesti, né uomo né femmina, tenti
di render vano quello ch’io sono per dire; ma tutti
siate concordi, perché sian queste opere presto compiute.
Se alcun di voi vedrò che voglia, in disparte dai Numi,
scendere a terra, e soccorso recare agli Achivi o ai Troiani,
dovrà, da me colpito, tornare scornato in Olimpia,
oppur lo ghermirò, lontano nel Tartaro buio
lo scaglierò, dov’è sotterra piú fondo l’abisso,
dove le porte sono di ferro, la soglia di bronzo,
tanto dell’Ade piú giú, quanto il cielo è piú su de la terra.
Conoscerete cosí quanto sono il piú forte dei Numi.
Fate, se no, la prova, se tutti volete saperlo;
fate che penda giú dal cielo una gómena d’oro,
ed attaccatevi ad essa, voi Dei tutti quanti, e voi Dive;
ma non potrete giú tirare dal cielo a la terra,
Giove, il piú saggio dei Numi, per quanto pur voi v’affanniate.
Se poi di buona voglia anch’io mi mettessi a tirare,
su vi potrei tirare con tutta la terra ed il mare;
poi legherei la fune d’intorno a un ronchione d’Olimpo,
e resterebbe cosí tutto quanto sospeso nell’aria:
tanto io sono piú forte di tutti i mortali e i Celesti».
Cosí diceva; e niuno parlò, ché rimasero muti,
stupiti ai detti suoi, che furono proprio gagliardi.
Pure, alla fine, parlò la Diva dagli occhi azzurrini:
«O padre nostro, figlio di Crono, che imperi su tutto,
ciascun di noi lo sa, che a niuno si piega tua possa;
ma, tuttavia, pietà mi stringe dei Dànai guerrieri,
che, la lor triste sorte compiendo, s’avviano a morte.
Noi dalla guerra, come c’imponi, staremo lontani:
solo qualche consiglio che giovi daremo agli Achivi,
perché tutti, per l’ira che t’arde, non restino spenti».
E a lei, ridendo, Giove che i nugoli aduna, rispose:
«O Tritogenia, figlia diletta, fa’ cuore: non parlo
con volontario cruccio; ma teco voglio essere mite».
Disse. E al suo carro aggiogò due corsieri dai piedi di bronzo,
rapidi al volo; e d’oro, su alto, ondeggiavano i crini;
ed egli stesso, d’oro le membra recinse, la sferza
bella impugnò, foggiata nell’oro, salí sul suo carro,
sopra i corsieri, e vibrò la sferza; né furono quelli
tardi a volare, in mezzo fra il cielo stellato e la terra.
E giunse all’Ida irrigua di fonti, nutrice di fiere,
dove sul Gàrgaro a lui si leva un sacrario ed un’ara
fumida. Quivi i corsieri, degli uomini il padre e dei Numi
fermò, li sciolse, intorno diffuse caligine fitta.
Ed ei, nella sua gloria raggiando, sede’ su la vetta,
guardando la città di Troia, e le navi d’Acaia.
Presero dunque il pasto gli Achei dalle floríde chiome,
presso le tende: a furia poi súbito tolsero l’armi.
E dentro la città s’armavano anch’essi i Troiani:
meno di numero: e pure, correvan con avida furia,
per i figliuoli e le spose costretti alle pugne, alle zuffe.
Or, poi che, gli uni sugli altri movendo, pervennero a un punto,
un cozzo fu di scudi, di lancie, d’usberghi di bronzo,
d’uomini in furia; e l’uno sull’altro batteano i palvesi
umbilicati: immenso frastuono spargevasi attorno.
E qui s’udíano insieme levarsi i lamenti ed i vanti
dei vincitori e dei vinti; la terra correva di sangue.
Sin che durò il mattino, crescendo la vampa del giorno,
dardi volavan da entrambe le parti, e cadevan le turbe;
ma quando il sole già nel mezzo del cielo era asceso,
l’aurea bilancia prese degli uomini il padre e dei Numi,
pose due fati sui piatti, di morte e di lungo dolore,
qui dei Troiani, lí degli Achei loricati di bronzo,
e la levò, pel mezzo tenendola. E il giorno fatale
piombò giú degli Achivi: piombò sino al suolo fecondo;
e quello dei Troiani s’aderse a l’illimite cielo.
Nestore è in difficoltà e viene soccorso da Diomede, che punta verso Ettore ma invece ferisce l’auriga. Ettore, furente, lo vuole uccidere. Diomede non può difendersi perché Giove glielo impedisce; deve ritirarsi.

E allora, il Dio scagliò dall’Ida un gran tuono, e rovente
un folgore avventò sugli Achei. Sbigottirono quelli,
furon, mirando il prodigio, cospersi di scialbo terrore.
Né quivi Idomenèo, né Agamènnone osò rimanere,
né l’uno e l’altro Aiace rimasero, alunni di Marte:
Nèstore solo gerenio restò, degli Achei baluardo:
non di sua voglia, bensí fiaccato gli s’era un cavallo.
Con una freccia lo aveva colpíto Alessandro, lo sposo
d’Elena, a sommo il capo, nel punto ove crescono i crini
primi del cranio al cavallo, né alcuno ce n’è piú mortale.
Fe’, per la doglia, un gran balzo: la freccia trafisse il cervello;
ed anche spaventò, dibattendosi, gli altri cavalli.
Ed ecco, mentre il vecchio le redini a colpi di spada
recidere tentava, giungevano i ratti corsieri
d’Ettore, tutti foga, recando l’auriga animoso.
E qui di certo avrebbe perduta la vita il vegliardo,
se Dïomede, aguzza pupilla, alto grido di guerra,
non lo vedeva; e spronò, con urlo terribile, Ulisse:
«O di Laerte figlio divin, dove mai fra le turbe
tu fuggi, quasi un vile tu fossi, voltando le spalle?
Ve’, che qualcuno la lancia non t’abbia a piantar nella schiena!
Férmati; e lungi dal vecchio spingiamo quell’uomo selvaggio».
Cosí dicea; ma Ulisse tenace neppure l’intese,
ed oltre fuggi, verso le rapide navi d’Acaia.
Ma si lanciò Dïomede, sebben solo fosse, tra i primi,
stette dinanzi ai cavalli del vecchio figliuol di Nelèo,
e a lui favellò, queste parole veloci gli volse:
«I giovani guerrieri t’incalzano troppo, o vegliardo,
e scema è la tua forza, ti preme l’infesta vecchiezza,
l’auriga tuo ben poco ti giova, son tardi i cavalli.
Or sul mio carro sali, su’ via, ché tu possa vedere
quali i cavalli sono di Tròo, bene esperti del piano,
a correre di qua, di là, se s’insegua o si fugga,
ministri di terrore, che un giorno ho rapiti ad Enea.
Abbiano cura i tuoi due servi di quelli; e noi, questi
contro i guerrieri troiani spingiamo, sí ch’Ettore anch’egli
sappia la lancia mia, come infuria, se in pugno la stringo».
Cosí disse; e l’eroe gerenio, signor di cavalli,
sordo non fu. Dei suoi cavalli i suoi prodi scudieri
Stènelo ed Eurimedonte cortese si presero cura,
ed essi tutti e due sul cocchio salîr del Tidíde.
Nèstore in pugno strinse le briglie, sul dorso ai cavalli
vibrò la sferza; e presto ad Ettore furono presso.
Questi su loro piombò; ma vibrò la zagaglia il Tidíde;
né lo colpí; ché invece trafisse l’auriga scudiero
Enïopèo, di Tebaio dal cuore magnanimo figlio,
che gli reggea le briglie, nel petto, vicino alle mamme.
Piombò dal carro giú, s’impennarono indietro i cavalli
piedi veloci: fiaccati gli furono spiriti e forze.
D’atroce doglia allora percosso fu d’Ettore il cuore,
per il compagno. Qui lo lasciò, sebben pieno di cruccio,
e un altro ardito auriga si diede a cercare; né a lungo
privi di guida i suoi cavalli rimaser: ché tosto
trovò d’Ifito il figlio, l’ardito Archeptòlemo. Seco
lo trasse egli sul carro, gli porse le fulgide briglie.
E quivi orride stragi seguite sarebbero e mali,
fuggiti come agnelli sarebbero in Ilio i Troiani,
se la pupilla acuta su lor non volgeva il Croníde.
Con un gran tuono lanciò terribile un folgore ardente,
a terra lo scagliò, del Tidíde dinanzi ai cavalli;
ed una vampa orrenda surse alta dal solfo che ardeva,
e sbigottiti i cavalli s’accovacciâr sotto il carro.
Sfuggiron dalle mani le redini a Nèstore, il cuore
terror gl’invase, e queste parole rivolse al Tidíde:
«O Dïomede, volgi di nuovo i cavalli alla fuga!
Non vedi tu che Giove rifiuta di darci soccorso?
A questo adesso Giove Croníde concede la gloria,
domani la darà, se pure lo voglia, anche a noi.
Ma nessun uomo potrà mutare la mente di Giove,
per quanto sia gagliardo: ché Giove è piú forte di molto».
E gli rispose cosí Dïomede, fiero urlo di guerra:
«O vecchio, certo sí, tutto quello ch’ài detto è opportuno;
ma questo è un cruccio grave che l’anima e il cuore m’invade:
ch’Ettore un giorno dire potrà, favellando ai Troiani:
— Di me temendo, un giorno fuggito è alle navi il Tidíde. —
Cosí millanterà. S’apra allora la terra e m’inghiotta!».
E Nèstore, gerenio signore, cosí gli rispose:
«Ahimè!, che cosa hai detto, figliuol dell’accorto Tidèo?
Se pure Ettore dica che un vile e un imbelle tu sei,
non gli daranno, no, né Troiani né Dàrdani ascolto,
né dei Troiani guerrieri dal cuore animoso le spose,
a cui tu nella polve prostravi gli sposi fiorenti».
Disse. E i corsieri voltò solidunguli in mezzo alle turbe,
novellamente a fuga. Ed Ettore, e seco i Troiani
le grida al cielo alzando, scagliaron le amare saette.
E un grido alto lanciò di Priamo il figlio su lui:
«Renderti assai d’onore solevano i Dànai, Tidíde,
il posto nei banchetti, le carni, le coppe ricolme;
ma or ti spregeranno: ché a fatti eri come una donna.
Alla malora, trista bagascia, ché il campo diserti:
mai non sarà che le torri di Troia tu ascenda, e le nostre
donne alle navi trascini: avrai da me prima il malanno!».
Cosí disse; e ondeggiava con duplice avviso il Tidíde:
voltar volle i cavalli, combatter con lui faccia a faccia:
tre volte questo avviso volgea nella mente e nel cuore,
e tre tuonò dai gioghi dell’Ida il prudente Croníde,
dando ai Troiani il segno che ad essi ridea la vittoria.
Ettore sente che Giove gli è favorevole e si spinge all’attacco. Era, adirata, vorrebbe che Poseidone intervenisse, ma lui non vuole andare contro il volere di Giove.

Ed Ettore parlò, levando alte grida, ai Troiani:
«Dàrdani, Lici, Troiani valenti a combatter da presso,
uomini siate, amici, mostrate il valore guerresco!
So certo ch’ora a me, con cenno propizio, il Croníde
vittoria ed alta gloria promise, e cordoglio agli Achivi.
Stolti, che a gran fatica levâr questa fiacca muraglia
che a nulla gioverà, che frenar non potrà la mia furia:
presto i cavalli miei balzeranno di là dalla fossa.
E quando sarò giunto vicino alle concave navi,
memoria abbia qualcuno di porgermi il fuoco funesto,
si ch’io bruciare possa le navi, e i medesimi Argivi
spenti vicino ai legni procombano, oppressi dal fuoco».
Cosí detto, ai cavalli parlò, disse queste parole:
«O Xanto, Etóne, e tu, Podarge, e tu, Lampo divino,
rendete a me la grazia che a voi con tal copia largiva
la figlia d’Etïóne magnanima, Andromaca, quando
a voi prima che a me, frumento piú dolce del miele
porgea, vino mesceva, se brama di bere avevate,
prima di me, che pure mi vanto suo florido sposo.
Su via, movete insieme, lanciatevi a caccia, ché preda
fare possiam dello scudo di Nèstore, ch’à tutti d’oro
— fama ne sale al cielo! — gl’imbracci e il medesimo piatto;
e dalle spalle poi del Tidíde, togliamo l’usbergo
cui fabbricò Vulcano, foggiò tutto vario d’intarsi.
Se questi due pigliamo, speranza nutro io che gli Achivi
questa medesima notte dovranno scampar su le navi».
Parlò con tale vanto; e molto fu d’Era lo sdegno.
Sul trono ella si scosse — die’ grande sussulto l’Olimpo —
e questi motti al Dio possente Posídone disse:
«Ahimè, Nume possente che scuoti la terra, nel seno
pur non ti piange il cuore, per tanto sterminio d’Achivi?
Pure, ad Elíca e ad Ège portare ti sogliono doni
molti e graditi! Or tu provvedi ch’essi abbian vittoria!
Ché se volessimo, quanti siam Numi propizi agli Achivi,
respingere i Troiani, frapporre una remora a Giove,
solo soletto sull’Ida restare dovrebbe a crucciarsi».
E il Nume a lei che scuote la terra, adirato rispose:
«Era, che a tempo tacere non sai, che parole son queste?
Io non vorrei che venissimo a lotta col figlio di Crono,
tutti noialtri; perché di tutti egli è molto più forte».
Agamennone incita gli Achei al contrattacco

Mentre cosí parole scambiavano l’uno con l’altro,
quanto era spazio di qua dalle navi, tra il muro e la fossa,
tutto s’andava empiendo di cavalli e d’uomini armati
sospinti a frotte. Il figlio di Priamo simile a Marte,
Ettore l’incalzava: ché Giove gli dava la gloria.
E qui col fuoco ardente bruciava le navi librate,
se d’Agamènnone in cuore la Dea veneranda Giunone
non ispirava l’idea d’eccitare egli stesso gli Achivi.
Si mosse, dunque, lungo le tende e le navi d’Acaia,
nella gagliarda mano reggendo il purpureo manto.
Presso la negra nave panciuta d’Ulisse ristette,
che sita era nel mezzo, perché la sua voce, da un lato
giunger potesse alla tenda d’Achille, dall’altro alla tenda
del Telamonio Aiace: ch’entrambi agli estremi del campo
aveano tratti i legni, fidando nel proprio valore.
Dunque, di qui levò ai Danai altissimo un grido:
«Vergogna, Achivi, tristi magagne, sol belli a vedere!
Dove sono iti i vanti di quando i piú prodi fra tutti
ci credevamo, e in Lemno, parlando con vana iattanza,
mangiando carne a iosa di buoi dalle corna diritte,
e vino dai cratèri ricolmi attingendo e bevendo,
millantavate che ognuno potrebbe affrontare in battaglia
cento, duecento Troiani? Se or non bastiamo per uno,
per Ettore, che presto col fuoco rapace le navi
avrà distrutto! O Giove, qual mai dei possenti sovrani
spingesti a tal rovina, struggendo l’insigne sua gloria?
Eppure, mai dei tuoi bellissimi altari nessuno
ho trascurato, quando per mar, col mio danno, qui venni;
ma sopra tutti cosce bruciai di giovenchi, ed omento,
d’abbattere bramoso le solide mura di Troia!
O Giove, almeno adesso compiscimi questa preghiera:
fa’ tu che scampo adesso trovare possiamo, e fuggire;
e non lasciar che gli Achei sian cosí dai Troiani abbattuti!».
Cosí disse. E pietà n’ebbe il padre, vedendo il suo pianto,
e consentí, con un cenno, che salvo il suo popolo fosse;
e un’aquila mandò, perfetto fra tutti gli alati,
che fra gli artigli il rampollo stringea d’una rapida cerva;
e lo gittò presso all’ara di Giove bellissima, dove
porgean gli Achivi a Giove, signor dei responsi, le offerte.
E questi, allor, veduto l’augurio propizio di Giove,
con nuovo ardor guerresco piombarono ancor sui Troiani.
Teucro, riparandosi dietro lo scudo di Aiace, uccide con il suo arco molti Troiani. Ettore infine lo colpisce con un masso.

Quivi, nessuno dei Dànai, per molti che fossero, vanto
aver pote’ che prima spingesse i veloci cavalli
di Dïomede, a varcare la fossa, e affrontare i Troiani.
Primo fra i primi, quegli trafisse il troiano Agelao
figlio di Fràdmone, mentre volgeva, a fuggire, i cavalli.
L’asta nel dorso, mentre le briglie volgea, gli confisse
fra l’una spalla e l’altra: la punta gli uscí fuor dal petto.
Piombò dal carro giú, su lui rintronarono l’armi.
E, dopo quello, i due sovrani figliuoli d’Atrèo
e l’uno e l’altro Aiace, vestiti di furia guerresca,
e quindi Idomenèo, dopo lui Merïóne, compagno
d’Idomenèo, gagliardo non meno d’Eníalo omicida,
e dopo loro, il figlio d’Evèmone, Eurípilo bello:
Teucro veniva nono, che l’arco ricurvo tendeva,
e se ne stava dietro lo scudo d’Aiace, al riparo.
Aiace quivi un poco scostava lo scudo; e l’eroe
mirava; e quando alcuno colpiva, di mezzo alla plebe
con le sue frecce, e quello cadeva e perdeva la vita,
egli tornava, come bambino alla mamma, al riparo
presso ad Aiace; e Aiace tendeva lo scudo, a coprirlo.
Chi fra i Troiani prima qui Teucro infallibil trafisse?
Cadde Orsíloco primo, quindi Òrmeno, quindi Ofelèste,
poi Dètore, poi Cromio, poi, pari agli Dei, Licofonte,
poi Melanippo, poi di Polièmone il figlio Amepone:
tutti, l’uno su l’altro, sul suolo fecondo li stese.
Ed Agamènnone, re di genti, fu lieto, vedendo
com’egli dei Troiani le schiere abbatteva con l’arco;
e a lui, standogli presso, cosí la parola rivolse:
«Teucro, diletto mio, Telamonio signore di genti,
saetta pur, ché tu pei Dànai sarai gran fulgore,
e per il padre tuo, che te maturò da piccino,
che te nella sua casa, sebben fossi spurio, raccolse:
fa’ or, sebbene lungi ti sia, ch’egli ascenda la gloria.
Ed una cosa ti dico, che avrà compimento sicuro:
se Giove a me concede, signore dell’ègida, e Atena,
che un giorno alfine abbatta le solide mura di Troia,
il primo dono a te d’onore offrirò dopo il mio,
o sia tripode, o sian due cavalli col carro aggiogato,
od una donna che salga con te nel medesimo letto».
E l’infallibile Teucro rispose con queste parole:
«O glorïoso Atríde, perché tu mi spingi, se sono
già di per me tutto foga? Sin quando la forza mi assista
io non desisterò. Da quando incalzammo i Troiani,
io qui, stando alla posta, trafiggo col dardo i guerrieri.
Otto lanciate ho già saette di cuspide aguzza,
tutte si son nelle membra di giovani svelti confitte:
ma solo questo cane rabbioso colpire io non posso!».
Cosí diceva. E un’altra saetta scagliò dalla corda,
contro Ettore, diritta, ché brama avea pur di colpirlo.
Ma lo sbagliò: colpí Gorgitíone immune da pecca,
figlio diletto di Priamo, in petto la freccia gl’infisse.
Lui generato avea Castinéïra bella, che sposa
era venuta d’Asime, di forme una diva. — Ed il capo
piegò da un lato, come papavero quando negli orti
a Primavera l’aggrava la bacca e la fresca rugiada:
cosí piegò da un lato la testa gravata da l’elmo.
E Teucro un altro dardo lanciò dalla corda dell’arco,
contro Ettore, diritto, ché brama avea pur di colpirlo:
ed anche qui sbagliò, ché il colpo rese írrito Apollo.
Ma d’Ettore l’auriga, l’audace Argettòlemo, mentre
moveva a zuffa, colpí nel petto, vicino a una mamma.
Piombò dal cocchio giú, si fecero indietro i cavalli
piedi veloci, e a lui mancarono spiriti e forze.
D’acuta doglia, allora, colpito fu d’Ettore il cuore,
per il compagno: qui lo lasciò, sebben pieno di cruccio,
e Cebrïone chiamò, suo fratello, che gli era vicino,
ché dei cavalli reggesse le briglie; né quegli fu tardo.
Ed egli giú balzò, dal carro suo lucido, a terra,
con un orribile grido: e, stretto nel pugno un macigno,
dritto su Teucro mosse, ché il cuor gli dicea di colpire.
Dalla faretra quegli fuor tratta un’amara saetta,
posta l’aveva sul nervo; ma mentre tendeva la corda,
Ettore gli colpí la clavicola, ov’essa divide
dal collo il petto; ed è sovra ogni altro mortale quel punto.
Qui lo colpí, mentr’egli mirava, con l’aspro macigno,
e gli spezzò la corda. La man cadde inerte sul polso:
sopra i ginocchi piombò, dalla mano gli cadde giù l’arco.
Ma non lasciò senza aiuto Aiace il fratello caduto:
corse, gli stette d’intorno, riparo gli fe’ dello scudo.
E lui, fattisi presso, sostenner due fidi compagni,
d’Èchio il diletto figlio, Mecísto, ed Alàstore divo;
e lo portaron, che grave gemeva, alle concave navi.
Ettore sparge terrore e gli Achei, spaventati, invocano gli dei. Atena e Giunone, impietosite, vogliono scendere ad aiutarli. Ma Giove si adira e manda Iris a bloccarle.

E nuovo allora infuse furore l’Olimpio ai Troiani,
che dritto spinser verso la fossa profonda gli Achivi.
Ed Ettore moveva fra i primi, raggiante di forze.
Come allorquando un cane dai piedi veloci persegue
apro selvaggio o leone, tentando addentargli di dietro
le cluni, o i fianchi, attento se dietro si volga: del pari
Ettore al corso incalzava gli Achei dalle floride chiome,
l’ultimo sempre uccidendo. Fuggivano quelli, sgomenti;
e poi che furon giunti di là dalla fossa e dai pali,
e dei Troiani sotto le mani ne caddero molti,
stettero alfine lí, si raccolsero presso le navi,
e l’uno all’altro dava coraggio; ed a tutti i Celesti
alte levando le mani, ciascuno facea lunga prece;
ed Ettore qua e là volgeva i chiomati cavalli,
e della Gòrgone aveva l’aspetto, e di Marte omicida.
Era n’ebbe pietà, la Dea dalle candide braccia;
ed ecco, queste alate parole ad Atena rivolse:
«Ahimè!, figlia di Giove signore dell’ègida, dunque
noi non avremo piú mai dei Dànai pietà, che distrutti
vanno cosí, che per tristo destino pervengono a morte,
per l’impeto d’un uomo! Ché niuno pon freno a la furia
d’Ettore, figlio di Priamo, che tanti malanni ha compiùti!».
E a lei cosí rispose la Diva dagli occhi azzurrini:
«Deh!, se davvero costui perdesse la forza e la vita
sotto le man’ degli Achivi, distrutto nel suol di sua patria!
Ma sempre il padre mio delira fra tristi pensieri,
perfido sempre, e tristo, che ad ogni mia brama s’oppone.
Non si ricorda piú quante volte suo figlio salvai
che soccombeva già d’Euristèo sotto i gravi travagli.
Quegli piangeva allora, volgendosi al cielo; e il Croníde
soleva me dal cielo mandare, per dargli soccorso.
Ma se poteva ciò prevedere la scaltra mia mente,
quando egli scese all’Ade, che sta delle porte a custodia,
per trarne il cane esoso d’Averno dall’Èrebo fuori,
non si salvava, no, dai gorghi rapaci di Stige.
Ora ei m’esècra invece, di Tètide approva i disegni,
che gli baciò le ginocchia, che al mento gli tese la mano,
perché d’onore Achille di rocche eversore coprisse.
Giorno però verrà, che ancor dovrà dirmi sua cara!
Su via, dunque i cavalli per noi solidunguli appresta,
e intanto io nella casa di Giove, dell’ègida sire,
entro, e dell’armi da guerra mi vesto: ché voglio vedere
se sarà lieto il figlio di Priamo dall’alto cimiero,
quando apparire vedrà noi due nella lizza di guerra,
oppur se pascerà cani e uccelli qualcun dei Troiani
col grasso e con le polpe, dinanzi alle navi cadendo».
Cosí disse. E fu pronta la Dea dalle candide braccia,
Era, la Dea veneranda, la figlia di Crono l’eccelso;
mosse, e i cavalli aggiogò dagli aurei frontali; ed Atena
la figlia occhiazzurrina di Giove dell’ègida sire,
spogliò sopra la soglia del padre il suo morbido peplo,
variopinto, che aveva foggiato ella stessa ed ornato,
la tunica indossò di Giove che i nugoli aduna,
l’armi indossò, con cui moveva fra il pianto e la guerra,
e sopra il cocchio balzò fiammante, stringendo nel pugno
l’asta massiccia, grande, pesante, che stermina a schiere
gli eroi con cui s’adira la figlia del padre possente.
Di qui, dunque, i corsieri guidarono, al pungolo pronti.
Giove però le scòrse dall’Ida, e fu grave il suo cruccio;
e spinse Iri, ch’à d’oro le penne, a recare un messaggio:
«Iri veloce, va’, fa’ che tornino; e starmi di contro
più non ardiscano! Brutta sarà, se verremo a contesa!
Ché questo io dico adesso, che avrà compimento sicuro:
io prima azzoppirò sotto il cocchio i veloci cavalli,
dal seggio abbatterò loro stesse; ed il carro in frantumi;
sicché, neppure quando saranno trascorsi dieci anni,
sane saranno, ove l’abbia la folgore impresse, le piaghe:
ché l’occhiazzurra impari, se ardisce azzuffarsi col padre.
D’Era non tanto mi cruccio, né tanto mi provoca a sdegno:
ché sempre contro me, checché possa io dire, la trovo».
Disse. E a recare il messaggio corse Iri dal pie’ di procella.
Mosse dai picchi d’Ida ai vertici sommi d’Olimpo,
e dell’Olimpo fitto di gioghi trovò su le porte
le Dive, e le rattenne, recando il comando di Giove:
«Dove correte? Quale delirio nel seno v’infuria?
Giove non vuole che voi soccorso rechiate agli Argivi.
Fece il Croníde questa minaccia, che avrà compimento:
prima, zoppi farò sotto il cocchio i veloci cavalli,
dal seggio abbatterà voi stesse, ed il carro in frantumi;
sicché, neppure quando saranno trascorsi dieci anni,
sane saranno, ove l’abbia la folgore impresse, le piaghe:
ché apprenda tu, se ardisci, col padre, Occhiazzurra, azzuffarti.
D’Era non tanto si cruccia, né tanto lo provoca a sdegno:
ché sempre contro lui, checché possa dire, la trova;
ma, prepotente, di te, di te, cagna sfacciata, si cruccia,
se tu la lancia tua volessi levar contro Giove!».
Detto cosí, partiva la Diva dai piedi veloci;
ed Era allora queste parole rivolse ad Atena:
«Ahimè, figlia di Giove dell’ègida re, non consento
che col Croníde veniamo per causa degli uomini, a lotta.
Di questi viva l’uno, distrugga pur l’altro la morte,
come il destino vuole: comparta ai Troiani e agli Achivi
come gli detta il cuore, giustizia il Croníde: a lui spetta».
Atena e Giunone tornano all’Olimpo, e qui arriva anche Giove, che le rimprovera duramente e dice che gli Achèi dovranno subire i Troiani finché Achille non tornerà a combattere.

Detto cosí, voltò di nuovo i corsieri veloci.
Sciolsero l’Ore per lei dal carro i chiomati cavalli,
e li legaron dinanzi le greppie fragranti, ed i carri
alle pareti presso poggiâr, che fulgevano tutte.
E sopra i seggi, d’oro foggiati, sedetter le Dive,
in mezzo agli altri Numi, col cuore crucciato nel seno.
E Giove padre, il carro veloce e i cavalli sospinse
dal monte Ida all’Olimpo, pervenne al consesso dei Numi.
A lui disciolse il Nume che scuote la terra i corsieri,
presso ai pilastri il carro poggiò, la coperta vi stese.
E il Dio voce possente, sul trono foggiato nell’oro
sede’; sotto i suoi piedi l’Olimpo die’ lungo sussulto.
Sole, lontane da Giove, sedevano Era ed Atena,
né a lui parola alcuna volgevano, alcuna domanda.
Ed ei, che se n’accorse, cosí prese a dire alle Dive:
«Era ed Atena, perché vi veggo sí piene di cruccio?
Pur, non vi siete stancate nel nobil cimento di guerra,
a sterminare i guerrieri di Troia, che tanto odïate!
Smuovermi poi, tale è la mia furia e le invitte mie mani,
non lo potrebbero quanti Celesti ci sono in Olimpo:
e voi, tremito prima v’avrebbe pervase le membra,
prima che voi vedeste la guerra, e i suoi fieri cimenti.
Perché questo ora dico che allor si sarebbe compiuto:
dal folgore colpite, piú voi non sareste tornate
sul vostro carro qui, dove i Numi han dimora, in Olimpo».
Cosí disse. E crucciate rimasero Atena con Era,
l’una vicina all’altra, pensando al malanno di Troia.
E l’Occhiazzurra muta restò, ché non disse parola,
sdegnata contro Giove, pervasa di bile selvaggia.
Ma ben parlò Giunone, che in cuor non contenne la bile:
«Quali parole mai dici tu, potentissimo Giove?
Ben lo sappiamo anche noi, che poca non è la tua forza;
ma, tuttavia, pietà ci stringe dei Dànai guerrieri,
che vanno ora distrutti, compiendo il lor triste destino.
Or, dalla guerra lungi, se tu lo comandi, restiamo;
ma diam qualche consiglio che possa giovare agli Argivi,
sicché, pel tuo furore, non debbano tutti morire».
E a lei Giove cosí rispose, che i nugoli aduna:
«Doman, se tu lo brami, di Crono il possente figliuolo
veder potrai, divina mia sposa dagli occhi rotondi,
le schiere degli Argivi colpir con piú duro sterminio:
ch’Ettore, il fiero campione, non desisterà dalla guerra,
prima che presso i legni si levi il Pelíde veloce,
quel dí che avvamperà vicino alle navi, la zuffa,
in un’orrenda stretta, di Patroclo presso alla salma:
cosí vuole il destino. Di te, della furia che t’arde,
pensiero io non mi do, neppur se agli estremi confini
del mare e della terra tu giunga, ove Crono e Giapeto
seggon, né quivi li allieta del Sol ch’alto valica il raggio,
né lo spirar dei venti, ma il Tartaro fondo li cinge:
neppur se quivi tu, vagando, giungessi, pensiero
non mi darei di te: ché di te non c’è altra più cagna».
Disse. Né motto rispose la Dea dalle candide braccia.
Ettore ordina ai compagni di accendere fuochi e vegliare sugli Achei fino all’alba, perché non fuggano.

E nell’Ocèano cadde la lucida vampa del Sole,
la negra notte sopra le zolle feraci traendo.
Cara ai Troiani non fu la luce, sparendo; ma cara
giunse la fosca notte, tre volte invocata, agli Argivi.
Ettore fulgido, allora, raccolse i guerrieri Troiani
sul vorticoso fiume, lontan dalle navi, in un luogo
libero, dove sgombro di salme appariva uno spazzo.
Qui dai cavalli a terra balzarono, e udîr le parole
ch’Ettore, ai Numi caro, diceva. Stringeva la lancia
d’undici cubiti, in pugno: splendeva la punta di bronzo
in cima, e la cingeva, foggiato ne l’oro, un anello.
Poggiato a questa, tali parole rivolse ai Troiani:
«Udite, o voi Troiani, voi Dàrdani, e tutti, o alleati.
Or credevamo che ad Ilio ventosa tornati saremmo
dopo distrutte tutte le navi con tutti gli Achivi;
ma prima è sopraggiunta, purtroppo, la tènebra; e salvi
fatti ha gli Achivi e i legni sovressa la spiaggia del mare:
ora, alla negra notte conviene che pur ci rendiamo.
Dunque, apprestate la cena, sciogliete i chiomati cavalli
di sotto i cocchi, ad essi dinanzi ponete la biada,
e dalla rocca bovi recate, con pecore pingui,
senza indugiare; e il pane recate, ed il vin dalle case,
che i cuori allegri; e poi gran raccolta di legna si faccia,
e, sinché duri la notte, sinché non rifulga l’aurora,
s’ardano grandi fuochi, ché al cielo il bagliore ne salga,
perché gli Achei chiomati non possan, durante la notte,
sopra l’immane dorso del mare, tentare la fuga.
Non debbon senza fretta salir sulle navi, a bell’agio:
deve più d’uno una piaga portare, e smaltirsela a casa,
vuoi da una freccia, vuoi da un’acuta zagaglia colpito,
mentre salia su la nave: sicché qualcun altro abbia a schivo
recar contro i Troiani le dure battaglie di Marte.
Quindi, per la città, gli araldi diletti di Giove,
gl’impuberi fanciulli avvertano, e i vecchi canuti,
che intorno alla città, su le mura costrutte dai Numi,
s’accolgano; e le donne che accendano ognuna un gran fuoco,
nella sua casa; e guardia continua si faccia, ché mentre
le schiere sono lungi, non entri un drappello nemico.
Fate cosí, Troiani magnanimi, come vi dico.
Queste parole ora ho dette, che valgano a vostra salvezza,
il resto le dirò su l’alba, ai guerrieri Troiani.
Io spero, e Giove invoco, e tutti i beati Celesti,
ch’io scaccerò quei cani, qui giunti per nostra sciagura,
ché su le negre navi guidati qui li hanno le Furie.
Su, dunque, sinché dura la notte, facciam buona guardia:
dimani all’alba, poi, coperti le membra dall’arme,
risveglieremo presso le concave navi la pugna:
vedremo se il gagliardo figliuol di Tidèo, Dïomede,
respingermi alle mura saprà dalle navi, o se io
l’ucciderò col bronzo, ne avrò sanguinanti le spoglie.
Domani ei mostrerà quanta è la sua forza: se l’urto
reggere della mia lancia potrà; ma credo io che fra i primi
soccomberà ferito, tra molti compagni caduti,
da quando il sole sorge, sin quando tramonta. Immortale
esser cosí vorrei, immune cosí da vecchiezza,
ed essere onorato al pari d’Atena e d’Apollo,
come ora questo dí segnerà per gli Achivi il malanno».
Ettore disse cosí. Levaron clamore i Troiani:
disciolsero i cavalli, grondanti sudore, dai gioghi,
e li legâr presso i carri, dov’era ciascun, con le cinghie.
E buoi dalla città portarono, e pecore pingui,
senza indugiare, e il pane recarono e il vin dalle case,
gioia dei cuori; e poi raccolsero legna in gran copia.
Quindi agli eterni Numi offersero scelte ecatombi;
e i venti il pingue fumo levarono, tutto fragrante,
dal piano al ciel: però non l’ebbero caro i Celesti,
lo rifiutarono: Troia la sacra aborrivano troppo,
e Priamo, ed i figliuoli di Priamo, maestro di lancia.
Ma pieni essi d’orgoglio rimasero tutta la notte,
presso alla lizza di guerra: fulgevano i fuochi in gran copia.
Come allorquando in cielo, d’intorno alla luna, le stelle
brillano tutte chiare, se il vento nell’aria è caduto,
e si distinguono tutte le balze e le cime dei colli
dentro le valli; ché l’aria si stende dal cielo infinito:
brillano tutte le stelle, ne gode nel cuore il pastore:
tanti sul piano, in mezzo fra i rivi del Xanto e le navi,
i fuochi dei Troiani brillavano ad Ilio dinanzi.
Mille brillavano fuochi sul piano; e davanti a ciascuno
sedeano, al raggio ardente del fuoco, cinquanta guerrieri
ed i corsieri anch’essi, cibando orzo candido e spelta,
stavano presso ai cocchi, l’Aurora divina attendendo.
Agamennone convoca un’assemblea e propone di far ritorno in patria; ma Diomede si oppone. Nestore intanto consiglia Agamennone di mettere delle sentinelle lungo il fossato, e si riserva di dare ulteriori consigli dopo il banchetto
Cosí guardia i Troiani faceano; e i guerrieri d’Acaia
oppressi aveva Fuga, compagna al sanguineo Terrore,
e d’acerbissima doglia percossi eran tutti i più prodi.
Come talor due venti sconvolgono il mare pescoso,
Zefiro e Bora, quando vi piombano sopra improvvisi,
che spiran l’uno e l’altro di Tracia; ed il livido flutto
alto si gonfia, ed alghe sovressa la spiaggia riversa:
similemente in seno sconvolto era il cuore agli Achivi.
Ecco, e l’Atríde, in cuore percosso da grave cordoglio,
mosse, e agli araldi impose di voce canora, che tutti
chiamino, ad uno ad uno, d’Acaia i signori a concione,
senza gridare; ed egli moveva con loro, tra i primi.
Sedettero a concione, crucciati; e Agamènnone surse,
pianto versando, al pari di cerula bruna sorgiva
che da una roccia stilla scoscesa l’oscura sua linfa:
cosí questi, gemendo, piangendo, diceva agli Argivi:
«O condottieri e re degli Argivi, compagni diletti,
Giove Cronide m’ha stretto tra i lacci di grave sciagura.
Crudele! Acconsentì, con un cenno del capo promise
che d’Ilio avrei distrutte le mura, e tornato sarei;
ed ora un tristo inganno mi trama, e dispone che ad Argo
ritorni senza gloria, poi ch’ò tanta gente perduta.
Questa è la volontà di Giove, possente signore,
che tante e tante cime distrusse di rocche superbe,
e ne distruggerà: ché sommo è il potere di Giove.
E, dunque, tutti, via, pigliamo il partito ch’io dico:
verso la terra patria fuggiam su le concave navi,
ché l’ampie vie di Troia mai piú non potremo espugnare».
Cosí diceva; e tutti rimasero senza far motto.
Muti restarono a lungo, crucciati, i figliuoli d’Acaia:
pure, alla fine, parlò Dïomede, alto grido di guerra;
«Atríde, io contro te parlerò: ché tu sei sconsigliato
nella concione. Ed è mio diritto, né devi adirarti.
La mia prodezza tu negasti testé, fra gli Argivi:
che imbelle io sono, e senza coraggio dicevi. Di questo
possono, o giovani, o vecchi, risposta dar tutti gli Achivi.
A te, piuttosto, il figlio di Crono concesse un sol dono:
ti die’ che pel tuo scettro tu fossi fra tutti onorato;
ma non ti diede il coraggio, che pure è la forza piú grande.
Deh, sciagurato! Credi tu forse che i figli d’Acaia
imbelli siano, e senza coraggio, cosí come dici?
Se nel tuo seno il cuore t’induce davvero a tornare,
va’, ché la strada è aperta, le navi son presso alla spiaggia
che da Micene t’hanno seguito per mare in gran copia;
ma resteranno qui altri Achei dalle floride chiome,
sinché non abbian Troia distrutta. E se voglion fuggire,
fuggano anch’essi, sopra le navi, alla terra materna;
ma noi, Stènelo ed io, resteremo, sinché non si veda
Ilio distrutta: ché qui venimmo pel cenno del Nume».
Cosí parlava; e fu tra gli Achivi un clamore d’assenso,
che del Tidíde prode stupiti ascoltavano i detti.
E poi, Nèstore surse fra loro a parlare, che disse:
«Gagliardo piú d’ogni altro tu sei nella guerra, o Tidíde,
e nel consiglio su tutti gli eguali d’età sei valente;
e niun le tue parole vorrà biasimar degli Achivi,
né contro te parlerà. Ma tutto però non hai detto,
ché giovane ancor sei, potresti ben essermi figlio,
il piú giovin dei figli, sebbene assennato favelli
ai prenci Argivi, e quello ch’ài detto fu tutto opportuno.
Su, dunque, io che di te son tanto piú innanzi negli anni,
favellerò, tutto quanto dirò quel che penso; e i miei detti
nessuno spregerà, neppure Agamènnone forte:
ché non ha legge o tribú, non ha focolare quell’uomo
che vago è della guerra civile, ferace d’orrori.
Ma prima, ora obbedire conviene alla notte ed al buio.
Dunque, si appresti la cena; dinanzi alla fossa scavata,
scólte si pongano fuori del muro, ciascuna al suo posto.
Questi comandi, per me, rivolgo ai soldati: del resto
comanda, Atríde, tu: chè il duce supremo tu sei.
Ed offri indi un banchetto, ché questo è opportuno, agli anziani.
Son le tue tende piene di vino, che giorno per giorno
recano a te dalla Tracia, sul mare, le navi d’Acaia;
e tutto hai quanto basta, ché a molti comandi, al convito.
E quando in molti, poi, saremo adunati, si ascolti
chi dia miglior consiglio: di buono, d’accorto consiglio
hanno bisogno gli Argivi: ché presso le navi i nemici
bruciano molti fuochi: chi mai ne trarrebbe allegrezza?
Sí, questa notte vedrà distrutto l’esercito, o salvo».
Cosí parlava; e gli altri l’udirono, e furon convinti.
Dunque, le scólte, fuori balzarono, d’armi coperte,
intorno a Trasimède sovrano, di Nèstore figlio,
intorno ad Ascalàfo e Iàlmeno, figlio di Marte,
intorno ad Afarèo, intorno a Meríone, a Dípíro,
a Licomède intorno, figliuolo divin di Creonte.
Guidavan sette duci le scólte, e ciascuno dei duci
seguian cento soldati, stringendo le lunghe zagaglie.
Mossero dunque; e in mezzo seder fra la fossa ed il muro,
e quivi acceso il fuoco, ciascuno apprestò la sua cena.
Tutti gli anziani allora l’Atríde adunò nella tenda,
e cibi ad essi offerse, che ognuno a sua brama ne avesse.
Nestore propone di andare a riconciliarsi con Achille. Agamennone acconsente e fa un lungo elenco di doni che intende fargli.

Su le vivande pronte gittarono quelli le mani;
e poi che fu sedata la brama del cibo e del vino,
Nèstore imprese il suo disegno ad intessere primo,
ché il suo consiglio, già pel passato, fu sempre il migliore.
Dunque, pensando al bene di tutti, cosí prese a dire:
«O glorioso Atríde, di genti, o Agamènnone, sire,
le mie parole avranno da te compimento e principio,
perché su molte genti l’impero tu stendi, e lo scettro
Giove ti diede, e le leggi, ché tu governare potessi.
Per questo piú d’ogni altro parlare tu devi, e ascoltare,
e ciò che un altro dice, compirlo, se mai la sua mente
gli suggerisca il bene: ché l’esito tu lo disponi.
Quello che sembra a me pel meglio, ora dunque t’espongo,
ché mai nessuno avrà consiglio migliore di quello
che adesso io vi dirò, che m’empie or la mente, e da un pezzo,
dal dí che tu, rampollo di Giove, a la tenda d’Achille
furente andasti, e a lui rapisti la figlia di Brise,
né il mio consiglio al tuo fu conforme: a distoglierti, io dissi
molte parole; ma tu, cedendo al tuo cuore superbo,
vilipendesti l’uomo che onorano sino i Celesti,
ché gli togliesti il suo dono, ché ancora lo tieni. Ma ora
si cerchi per che via mitigarlo possiamo o placarlo,
doni mirabili offrendo, parole piú dolci del miele».
E a lui cosí rispose l’Atríde signore di genti:
«Vecchio, gli errori miei son veri, né dici menzogna.
Fui cieco, neppure io lo posso negare: ché vale
per molti e molti, l’uomo cui Giove diliga di cuore,
come or questi onorò, struggendo le schiere d’Acaia.
Ma poi che la funesta mia mente mi trasse all’errore,
voglio di nuovo adesso placarlo con doni infiniti;
e innanzi a tutti voi descrivo i magnifici doni.
Sette tripodi, intatti dal fuoco, dieci aurei talenti,
venti lebèti, che tutti scintillano, venti corsieri
forti, che premii sempre solean dalle gare portarmi:
privo di pane mai non può essere l’uomo che li abbia,
mai non sarà sprovvisto dell’oro, che tanto è pregiato:
tanti hanno vinto premii per me, quei veloci corsieri.
Poi, sette donne di Lesbo, spertissime d’opere egregie,
io gli darò, che scelsi per me, quando ei Lesbo espugnava,
che per bellezza tutte vincean quante femmine sono.
Io queste gli darò: la figlia di Brise fra loro
anche sarà, che un giorno gli tolsi; ed un giuro solenne
faccio: che il letto mai non ne ascesi, che seco non giacqui,
come costume è pure degli uomini tutti e le donne.
Ei tutti quanti avrà questi doni; e se un giorno i Celesti
consentano che cada la rocca di Priamo a terra,
quando noialtri Achei saremo a spartire la preda,
venga, e a sua posta d’oro la nave ricolmi e di bronzo,
e venti poscia elegga per sé delle donne troiane,
quelle che a lui piú belle parranno, dopo Elena argiva.
Se ad Argo achiva poi, della terra mammella, torniamo,
genero mio lo bramo, diletto non meno d’Oreste,
l’ultimo figlio mio, che in mezzo ad ogni agio è nutrito.
Nella mia casa bene costrutta, mi crescon tre figlie,
Ifïanassa, Laodíce, Crisòtemi: scelga fra queste
quella che vuole, e l’adduca, né doni di nozze io pretendo,
alla magion di Pelèo: ché anzi, gradevoli doni
io gli darò, quanti mai ne diede alcun padre alla figlia.
Sette gli voglio dare munite città popolose,
Ènope, Cardamíle, con Ire di pascoli ricca,
Fere, la molto santa, dai prati pinguissimi, Antèa,
Epèa la bella, e, tutta coperta di vigne, Pedàso,
tutte vicino al mare, di Pilo sabbiosa ai confini.
Uomini in tutte opulenti di greggi e di bovi han dimora,
che a lui, come ad un Nume, presenti offriranno, che sotto
lo scettro suo, larghezza daranno di pingui tributi.
Io tutto questo farò, se dall’ira desiste. Ed ei ceda:
Ade soltanto non sa piegare, non cede a lusinghe;
ed è fra tutti i Numi, per questo, odioso ai mortali:
si sottometta a me, però ch’io son re piú possente,
però ch’io sono, penso, a lui piú provetto negli anni».
E a lui Nèstore questo rispose, il guerriero gerenio:
«O glorïoso Atríde, di genti, Agamènnone, sire,
non son da poco, no, questi doni che offri ad Achille.
Su via, scelti campioni si mandino, e senza indugiare
si rechino alla tenda d’Achille figliuol di Pelèo.
Su’, voglio sceglierli io; né alcuno m’opponga rifiuto.
Scelgo per primo, e sia duce, Fenice diletto ai Celesti:
il grande Aiace sia secondo, ed Ulisse sia terzo;
e degli araldi, con sé conducano Euríbate e Odío.
Acqua ora date alle mani, si faccia silenzio d’intorno,
si che la prece si levi, se mai ci commiseri, a Giove».
Cosí diceva; e a tutti sembrarono saggi i suoi detti.
Súbito poscia gli araldi versarono l’acqua alle mani,
empierono i cratèri di vin sino all’orlo i valletti;
e poi, libato, a tutti partirono il vin nelle coppe.
E poi ch’ebber libato, bevuto ciascuno a sua brama,
fuor dalla tenda usciron del sire di popoli Atríde,
e assai consigli ad essi die’ Nèstore, il sire Nelíde,
con gli occhi a questo e a quello volgendosi, e massime a Ulisse
come potessero fare convinto il figliuol di Pelèo.
Mossero dunque lungo la spiaggia del mare sonante,
preci a Nettuno volgendo, che facile ad essi rendesse
piegar l’altero spirto del prode nipote d’Eàco.
Achille si trova con Patroclo nella sua tenda e accoglie bene i messaggeri offrendo un banchetto. Ulisse, abile oratore, gli parla per convincerlo a tornare.

Giunti alla tenda cosí dei Mirmídoni presso, e alle navi,
l’eroe trovar, che il cuore molcía con la cetera arguta
adorna bella, e un giogo d’argento stringeva i due bracci:
l’ebbe allorché la rocca d’Etíone espugnò, tra le prede.
Gesta d’eroi cantava, molciva con esse il suo cuore.
Pàtroclo solo, a lui d’accanto sedeva in silenzio,
ed attendeva quando smettesse il Pelíde il suo canto.
Quelli si fecero avanti, guidandoli Ulisse divino,
stettero a lui dinanzi. Balzò su, stupito, il Pelíde,
Pàtroclo anch’egli si alzò, come vide quegli uomini; e ad essi
volse un saluto, e disse Achille veloce: «Salvete!
Diletti a me giungete, per cruccio ch’io m’abbia: mi siete
cari su tutti gli Achei. Che grande bisogno vi spinge?».
E, cosí detto, Achille divino li fece avanzare,
posare sopra i seggi li fece, e i purpurei tappeti.
Quindi a Pàtroclo disse, che gli era vicino: «Il cratère
prendi piú grande che c’è, figliuol di Menezio; ed un mischio
fa’ ben gagliardo, e metti dinanzi a ciascuno una coppa;
ch’or sotto la mia tenda son giunti gli amici piú cari».
Disse. E del caro amico fu Pàtroclo pronto al comando.
Poscia, accostato un grande tagliere alla vampa del fuoco,
sopra di pingue capra vi pose, e di pecora il dorso,
e d’un maiale pasciuto la schiena fiorente di grasso.
Tutto tagliò con arte, i pezzi infilò negli spiedi,
gran fuoco il figlio accese, che un Nume parea, di Menezio.
E poi che il fuoco fu bene acceso, e la fiamma languiva,
tutta spianò la brace, poggiò sugli alari gli spiedi,
di sale cospargendo, di vino le carni sospese.
Poi che arrostite l’ebbe, posate sovressi i taglieri,
Pàtroclo prese il pane, lo distribuí su la mensa,
entro canestri belli: le carni divise il Pelíde.
Ed egli si sede’ dinanzi ad Ulisse divino,
alla parete opposta. L’incarico a Pàtroclo diede
poscia, di fare ai Numi le offerte: le offerte nel fuoco
quegli gittò; poi tutti disteser sui cibi le mani.
E poi che fu bandita la brama del cibo e del vino,
volse ad Aiace un cenno Fenice. Ma Ulisse lo vide,
ed una coppa empiuta, rivolse un saluto ad Achille:
«Salute, Achille! A noi non manca la mensa gradita
entro la tenda, sia dell’Atríde Agamènnone, sia
qui, nella tua, come ora, che cibi vi sono in gran copia
da banchettare. Ma ora pensar non possiamo a banchetti:
ché troppo grande sciagura dobbiamo vedere, o divino,
e sbigottiamo: siamo nel dubbio, se salve le navi
saranno, oppur distrutte, se tu tua prodezza non vesti:
poi che posto hanno il campo vicino alle navi ed al muro,
di Troia i figli altieri, coi loro alleati famosi,
e bruciano pel campo gran fuochi, né, dicono, sosta
faranno ancora: voglion piombare sui negri navigli.
Auspíci ad essi il figlio di Crono mandati ha da destra,
folgoreggiando; e infuria, fremente d’orgoglio e di forza,
Ettore, terribilmente, ché in Giove confida, e non teme
uomini piú, né Numi, sí grande furore l’ha invaso;
e prece fa che presto si mostri l’Aurora divina,
ché allora gli alti aplustri minaccia stroncar delle navi,
arder col fuoco vorace le navi medesime, e quivi
fare sterminio di tutti gli Achei sgominati dal fumo.
Ed orrida paura mi domina il cuore, che i Numi
voglian le sue minacce compiute, e sia nostro destino
morir lontani d’Argo, sottesse le mura di Troia.
Ma su, vedi se vuoi dall’urto schermir dei Troiani,
benché già tardi, i figli d’Acaia che giacciono oppressi:
tu stesso poi cordoglio ne avresti; ma piú non si trova
farmaco al male, quand’è compiuto: e tu prima provvedi
come tu possa lontano tener dagli Achivi il mal giorno.
Eppure questo, o caro, ti disse tuo padre Pelèo,
quel di ch’ei t’inviò da Ftia, con l’Atríde, alla guerra:
«Atena ed Era a te, daranno, o figliuolo, vittoria,
se lo vorranno; ma tu nel seno il magnanimo cuore
sappi frenare: è meglio saper contenere lo sdegno.
L’ira tu sempre allontana, che macchina mali; e gli Argivi,
giovani o vecchi, tanto di piú ti sapranno onorare».
Cosí diceva il vecchio; ma tu l’hai scordato. Sù, ora
smetti, deponi l’ira che i cuori divora; e l’Atríde
degni presenti a te darà, se tu l’animo plachi.
Senti che doni a te promette Agamènnone sire.
Sette tripodi, intatti dal fuoco, dieci aurei talenti,
venti lebèti, che tutti scintillano, venti corsieri
forti, che a lui delle gare portare solevano i prèmi;
privo di pane mai non può esser l’uomo che li abbia,
mai non sarà sprovvisto dell’oro, che tanto è pregiato:
tanti hanno vinto premi per lui, quei veloci corsieri.
Poi sette donne di Lesbo, spertissime d’opere egregie,
ei ti darà, che scelse per sé, quando Lesbo espugnasti,
che per bellezza tutte vincean quante femmine sono.
Ei queste ti darà: la figlia di Brise fra loro
anche sarà, che un giorno ti tolse; ed un giuro solenne
farà: che il letto mai non ne ascese, che seco non giacque,
come costume è pure degli uomini tutti e le donne.
Tu tutti quanti avrai questi doni; e se un giorno i Celesti
consentiranno che crolli la rocca di Priamo al suolo,
quando noialtri Achei saremo a spartire la preda,
vieni, e a tua posta d’oro la nave riempi e di bronzo;
e venti poscia eleggi per te delle donne troiane,
quelle che a te piú belle parranno, dopo Elena argiva.
Se ad Argo achiva poi, della terra mammella, ritorni,
genero suo ti brama, diletto non meno d’Oreste,
l’ultimo figlio suo, che in mezzo ad ogni agio è nutrito.
Nella sua casa bene costrutta, gli crescon tre figlie,
Ifïanassa, Laodíce, Crisòtemi: scegli pur quella
che brami, di Pelèo nella casa conducila; e doni
di nozze ei non pretende: ché anzi, gradevoli doni
ei ti darà, quanti mai ne diede alcun padre alla figlia.
Sette poi ti darà munite città popolose,
Énope, Cardamíle, con Ire, di pascoli ricca,
Fèa, con la molto santa Antèa dai pinguissimi prati,
Epèa la bella, e, tutta coperta di vigne, Pedàso,
tutte vicino al mare, di Pilo sabbiosa ai confini.
Uomini in tutte han dimora di greggi opulenti e di bovi,
che a te, come ad un Nume, presenti offriranno, che sotto
lo scettro tuo, larghezza daranno di pingui tributi.
Questi i presenti che a te farà, se tu l’ira deponi.
Ché pur se troppo in odio ti sono l’Atríde e i suoi doni,
muoviti almeno a pietà degli altri compagni, che stanno
sgomenti, esterrefatti, pel campo, che al pari d’un Nume
t’onoreranno: grande fra loro sarà la tua gloria.
Ettore cogliere adesso potresti: ché certo vicino
or ti verrebbe, tanta è la furia che l’arde; e millanta
che niuno a par gli sta, dei Dànai venuti per mare».
Achille rifiuta i doni di Agamennone, non lo stima più. Vuole tornare a Ftia.
E a lui rispose Achille veloce con queste parole:
«Figlio divin di Laerte, Ulisse dai molti lacciòli,
una parola senza riguardo ti debbo pur dire,
cosí come io la penso, cosí come avrà compimento,
perché chi qua chi là non veniate a garrirmi d’intorno.
Per me, come le porte d’Averno odioso è quell’uomo
che nel pensiero una cosa nasconde, ed un’altra ne dice.
Io chiaro ti dirò qual mi sembra l’avviso migliore.
Farmi convinto, no, non potrà l’Agamènnone Atríde,
né gli altri Dànai tutti; perché niuna grazia io riscossi
del mio combatter senza mai tregua le genti nemiche.
Uguale premio attende chi sempre combatte e chi poltre,
sono tenuti nel pregio medesimo il prode e il codardo.
E nulla resta a me, poiché tanti crucci ho sofferto,
sempre la vita mia nelle zuffe ponendo a cimento.
Come ai pulcini il cibo portare un aligero suole,
quand’ei l’abbia trovato, che nulla per lui ne rimane,
del pari, io molte notti passai, senza chiudere ciglio,
molte giornate passai fra sangue e tumulto di guerre,
con gl’inimici pugnando, a pro’ delle vostre consorti.
Dodici io con le navi distrussi città popolose,
undici a terra, lo affermo, nei piani feraci di Troia.
Da tutte quante, egregi tesori in gran copia raccolsi,
e tutti li portai, li diedi al figliuolo d’Atrèo.
Ed ei, restando indietro, vicino alle rapide navi,
li riceveva; e poco spartiva, ed il piú si teneva.
Ma, tuttavia, qualche dono faceva ai piú prodi sovrani,
ed essi li han tuttora: me solo fra tutti gli Achivi
ei n’ha privato, e si tiene la cara mia sposa. E sia! Dorma
vicino a lei, la goda. Ma allora, che causa sospinge
gli Achei contro i Troiani? Perché tanta gente raccolse
l’Atríde, e qui l’addusse? Non forse per Elena bella?
Oppur gli Atrídi soli, fra quanti sono uomini al mondo
aman le spose loro? Chiunque ha valore e saggezza
ama la propria sposa, la cura, come io quella amavo
con tutto il cuore mio, sebbene era preda di guerra.
Ora, poiché mi frodò, mi tolse il mio dono, non speri
piú di tentarmi, di farmi convinto, or che ben lo conosco.
Ma con te cerchi, Ulisse divino, e con gli altri sovrani,
lungi l’infesto fuoco vorace tener dai navigli.
Anche senza di me compiute ha molte opere grandi,
ha costruito un muro, scavata ivi sotto una fossa
grande, profonda, e v’ha dinanzi confitti dei pali.
Però, neppur cosí trattiene la furia omicida
d’Ettore. Quando alla guerra movevo coi figli d’Acaia,
Ettore no, non voleva pugnare lontan dalle mura,
ma solo nello spazio tra il faggio e le porte Sceèe,
dove una volta m’attese, e a pena di man m’usci salvo.
Ma ora, poi, che voglia non ho piú di seco azzuffarmi,
a Giove e a tutti i Numi dimani farò sacrificio,
quindi caricherò, poi che in mar le avrò spinte, le navi,
e tu vedrai, se pure tu vuoi, se la cosa t’importa,
le navi mie su l’alba solcar l’Ellesponto pescoso,
e le mie genti dentro piegarsi a gran forza di remi;
e se ci manda, il Nume che scuote la terra, bonaccia,
tre giorni ancora, e il suolo vedrò della fertile Ftia.
Là molti beni lasciai, quando io qui ne venni in malora,
molto altro oro di qui, con fulvido rame, con donne
dalla cintura bella riporto, con candido ferro,
tutto ch’io m’ebbi in sorte. Si tenga Agamènnone il dono
che pria m’aveva offerto, che poi con la forza mi tolse.
Or tutto questo di’, come io te lo dico, all’Atríde,
palesemente, perché si cruccino tutti gli Achivi,
se ancora alcuno ei voglia dei Dànai trarre in inganno,
di sfrontatezza sempre coperto com’è. Ma per quanto
muso di cane, me non potrebbe guardarmi negli occhi.
Non vo’ nessun accordo con lui, né a parole, né a fatti,
ch’ei mi frodò, m’offese. Ma piú non saprebbe ingannarmi
con le sue ciance: gli deve bastare. Ora, vada in malora,
mi lasci stare in pace: ché Giove l’ha tolto di senno.
Sono i suoi doni odiosi per me, men che nulla io li pregio.
Neppur se dieci volte, neppure se venti altrettanti
ei me n’offrisse di quanti n’abbia ora, od aver mai ne possa,
oppur quanti affluire ne vedono Orcòmeno, o Tebe
d’Egitto, ove le case son tutte ricolme di beni,
e cento porte vi sono, varcare duecento guerrieri
possono sotto ciascuna, guidando i cavalli ed i carri;
sè me ne desse quant’è la polve o l’arena del mare,
neppur cosi l’Atride potrebbe piegare il mio cuore,
se pria tutto non lava l’oltraggio che il cuore mi cruccia.
Sposa la figlia avere non vo’ d’Agamènnone Atride,
neppur se di bellezza dovesse emulare Afrodite,
neppur se sperta fosse nell’opere al pari d’Atena,
non la vorrei sposare neppure cosi. Fra gli Achivi
scelga qualche altro che più gli convenga, che più sia possente;
perché, se salvo i Numi mi vogliono, e in patria io ritorno,
bene saprà Pelèo cercarmi da solo una sposa.
Molte fanciulle sono d’Achivi, per l’Ellade e in Ftia,
figlie di principi prodi, che sono presidio alle rocche:
quella ch’io bramo di queste, farò mia fedele consorte.
E molto a questo il cuore mio forte nel seno mi spinge,
ch’io lí mi scelga, adatta per me, la legittima sposa,
e le dovizie mi goda raccolte dal vecchio Pelèo.
Perché la vita mia non posson pagar quanti beni
ebbe, raccontano, un di’, la città popolosa di Troia,
quando era pace, avanti che quivi giungesser gli Achivi,
non quanti in sé ne chiude la soglia pietrosa del Nume
saettatore Apollo, nei clivi rocciosi di Pito.
Poiché predare bovi si possono, e floride greggi,
tripodi puoi conquistare, cavalli di bionda cervice;
ma che ritorni d’un uomo lo spirito, quando la cerchia
lasciò dei denti, cosa non è che si predi o s’acquisti.
E Tèti a me lo disse dai piedi d’argento, mia madre,
che me duplice fato conduce alla fine mortale:
se qui resto, se intorno combatto alle mura di Troia,
più non ritornerò, ma sarà la mia gloria immortale;
se a casa invece torno, se torno alla terra materna,
spenta sarà la mia gloria, ma lunga sarà la mia vita,
né sopra me piomberà veloce il destino di morte.
Ed anche a tutti gli altri vorrei questo mònito dare,
di ritornare in patria, perché non vedrete la fine
d’Ilio scoscesa: troppo la mano a proteggerla tende
Giove tonante, troppa baldanza animò le sue genti.
Or dunque, voi movete, recate ai sovrani d’Acaia
questo messaggio: poiché tale è degli anziani l’ufficio,
che trovino, pensando, partito migliore di questo,
che salve ad essi faccia le navi e le turbe d’Acaia
sopra le navi ricurve; poiché non agevole è questo,
ch’ànno pensato, per essi: ché io non desisto dall’ira.
Ma qui, presso di noi, rimanga Fenice a dormire,
e poi meco, dimani, sovresse le concave navi
torni alla patria, se vuole: ché a forza condurlo non voglio”.
Cosí diceva. E tutti rimasero senza parola,
stupiti ai detti suoi: tanto furono fieri e gagliardi.
Anche Fenice, che ha allevato Achille come un figlio, prova a convincerlo a tornare. Ma Achille persiste nella sua ira.

Pure, alla fine, il vecchio signor di cavalli Fenice,
disse, piangendo, ché troppo temea per le navi d’Acaia:
«Se tu davvero fitto ti sei nella mente il ritorno,
fulgido Achille, e non vuoi schermire le navi d’Acaia
dalle voraci fiamme, perché t’arde l’anima d’ira,
come io potrei da te lontano, o figliuolo diletto,
qui rimanere solo? Con te mi mandava Pelèo,
quel dí che t’inviò da Ftía, per venir con l’Atríde,
ch’eri tuttora fanciullo, che ancor non sapevi le guerre,
né le concioni, dove la fama degli uomini cresce.
Per questo ei m’inviò, perché tutto ciò t’insegnassi:
a pronunciare acconce parole, ed a compiere gesta.
Cosí, lungi da te restare, o figliuol, non vorrei,
neppur se a me promessa facesse un Iddio di raschiarmi
via la vecchiezza, e farmi tornar giovinetto, qual’ero
quel di ch’Ellade prima lasciavo e le donne sue belle.
Del padre mio la furia, d’Amíntore figlio d’Ormèno
fuggivo. Era adirato con me per la ganza sua bella.
Esso l’amava; e la sua legittima sposa, mia madre,
più non amava. Ed essa mi stava lí sempre a pregare
ch’io seducessi la ganza, per far ch’ella il vecchio odïasse.
Io mi convinsi, e lo feci; ma come mio padre lo seppe,
mi maledí, contro me imprecò dall’Erinni odïose
ch’io sulle mie ginocchia veder mai non possa un figliuolo
caro, nato da me: compiuto gli resero il voto
Giove che regna sotterra, Persèfone, Diva tremenda.
Col bronzo acuto allora mi venne l’idea di svenarlo:
ma l’ira mia frenò qualcuno dei Numi; e la fama
che avrei, pensar mi fece, fra gli uomini, e i biasimi grandi,
sicché me parricida chiamar non dovesser gli Achivi.
Ma quindi innanzi piú il cuor non mi resse nel seno
di rimaner nella casa dov’ero odïoso a mio padre.
Molto i parenti, molto, venendomi attorno, i cugini,
me trattener con le preci tentarono sotto quel tetto,
molte sgozzarono pecore pingui, con lucidi bovi
dal torto pie’, gran copia di porci fiorenti di grasso
furono rosolati, distesi sul fuoco d’Efèsto,
molto vin pretto fu bevuto dagli orci del vecchio.
Per nove notti a me rimasero vigili attorno,
guardia facendo alterna; né mai si spengevano i fuochi:
l’uno, nel ben costrutto recinto del portico ardeva.
dentro il vestibolo, un altro del talamo innanzi alle porte.
Ma quando giunse po col buio la decima notte,
le ben connesse porte del talamo allora sfondai,
fuori balzai, con un salto varcai del recinto le mura,
agevolmente alle guardie sfuggendo e a le vigili ancelle.
E poi, per l’ampie vie de l’Ellade corsi fuggiasco,
e giunsi a Ftía, ferace di zolle, nutrice di greggi,
dove di cuore m’accolse benevolo il sire Pelèo,
m’amò, sí come un padre fornito di molte sostanze,
amar potrebbe un figlio che unico fosse, e bambino,
ricco mi rese, mi diede di genti in gran copia il governo.
Sui Dòlopi, cosi, regnavo, ai confini di Ftía.
E te resi quale ora tu sei, pari ai Superi, Achille,
con amorosa cura: ché tu con niun altro volevi
recarti ad un banchetto, né in casa gustare alcun cibo,
se prima su le mie ginocchia preso io non t’avessi,
e sminuzzato il cibo, pasciuto, mesciuto da bere.
E spesso a me sul petto la tunica molle rendesti
di vin, che tu spruzzavi nei tuoi fanciulleschi capricci.
Cosí molte fatiche per te, molte pene soffersi,
questo pensando, che a me gli Dei non concessero un figlio,
nato da me; ma come mio figlio te, Achille divino,
crebbi, perché da sorte funesta tu un di mi schermissi.
Su via, domina, Achille, lo sdegno tuo grande. Serbare
cuore implacato a te non s’addice: si piegano anch’essi
i Numi. Essi han pur tanto più forza, decoro e valore;
eppure, con incensi di vittime e voti solenni,
con libagioni ed omenti, li piegano gli uomini, e preci,
quando fallisca, o franga qualcuno le leggi divine.
Poiché ci son le Preci, figliuole di Giove possente,
zoppe, coi volti rugosi, con gli occhi che guardano losco,
che dietro alla Follia s’affannano a spingere il piede.
È vigorosa Follia, gagliarda nei piedi; e per questo
passa dinanzi a tutti, si lancia degli uomini a danno
sopra la terra tutta: poi tentan rimèdi le Preci.
E chi rispetta, quando s’appressan, le figlie di Giove,
esse gli rendono copia di beni, l’ascoltan se prega;
chi le respinge, invece, chi oppone durezza e rifiuto,
esse rivolgono a Giove, figliuolo di Crono, la prece
che lui segua Follia, ch’ei sconti col danno la colpa.
Achille, dunque, tu di Giove alle figlie il rispetto
che suol di tutti i buoni piegare le menti, concedi.
Se non t’offrisse doni l’Atríde, se d’altri promessa
non ti facesse, e sempre serbasse immutato il corruccio,
non io t’esorterei che tu deponessi lo sdegno,
che soccorressi gli Argivi, per grande che fosse il bisogno.
Ma invece molti doni t’offre ora, molti altri promette;
e ti mandò, per farti preghiera, i più prodi campioni
scelti fra tutti gli Achei, a te fra gli Argivi i più cari.
I passi loro tu non rendere vani, e i lor detti.
Niun biasimarti prima, poteva che tu ti crucciassi:
cosí pure udivamo le gesta degli uomini prischi,
quando invadesse furia di cruccio qualcun degli eroi;
ma le parole poi placarli potevano, e i doni.
Io questo fatto ricordo, che nuovo non è, ma ben vecchio,
come esso avvenne; e a voi lo voglio narrar, cari amici.
Gli Ètoli, prodi alla pugna, facean per Calídone bella,
guerra ai Cureti; e gli uni facevano strage degli altri,
gli Ètoli, per salvare Calídone bella, i Cureti
desiderosi, invece, di prenderla e farne sterminio.
Ora, un malanno inviò agli Ètoli Artèmide, irata,
che non le avesse offerte primizie nel poggio dell’orto
Enèo, mentre ecatombi godevano gli altri Celesti.
Sola non ebbe offerte la figlia di Giove possente,
oblio che fosse, o spregio, che l’anima cieca gli rese.
E irata allor, la Diva fanciulla che vaga è di frecce,
contro gli spinse un cinghiale di candide zanne, selvaggio,
che devastava, con dànno perenne, le terre d’Enèo,
l’uno su l’altro a terra svelleva molti alberi grandi,
con le radici via sbarbate, col fiore dei pomi.
Morte gli diede infine il figlio d’Enèo, Meleagro,
che cacciatori e segugi da molte città quivi addusse;
ché non bastò la forza di pochi mortali, a domarlo,
tanto era grande; e molti mandò su la pira fatale.
Rissa la Diva allora d’intorno al cinghiale e tumulto
per la sua testa accese, pel cuoio di setole fitto,
fra gli Ètoli dal cuore gagliardo, e la gente Curèta.
Ora, sinché pugnò Meleagro diletto di Marte,
trista ai Curèti volse la sorte; né fuor dalle mura
reggevan dei nemici, sebben molti fossero, all’urto.
Ma quando Meleagro fu invaso dall’ira, che il petto
a molti altri pur gonfia, per quanto provvisti di senno,
contro sua madre Altèa, crucciato nel cuor, si ritrasse
presso la sposa sua, Cleopatra dal fulgido viso,
figliuola di Marpessa dall’agil malleolo, figlia
d’Evèno, e d’Ida, ch’era fra gli uomini tutti il più forte:
d’Ida che per la sua fanciulla dagli agili piedi
tendere l’arco osò contro Febo che lungi saetta.
Lei nella casa il padre, la madre onorata. Alcïone
solean chiamare, nome di vezzo, perché la sua madre
avea, come alcïone che sempre si lagna, gemuto
quando rapita Febo l’aveva, che lungi saetta.
Dunque, vicino a lei, Meleagro smaltiva il suo cruccio,
perché la morte ad esso aveva imprecata sua madre.
Molto la terra altrice percossa ella avea con le mani,
Ade invocando, e la Dea spietata Persèfone, al suolo
su le ginocchia stesa, bagnando di lagrime il grembo,
che desse al figlio suo la morte; e dall’Èrebo, Erinni
l’udí, che il cuor mai placa, che libra fra tenebre il volo.
Ed urla e insiem tumulto sorgevano intorno alle mura,
percossa era la terra. Degli Ètoli allora i vegliardi
lui scongiurâr che uscisse, movesse a difesa: i più santi
ministri a lui dei Numi mandâr, promettendo un gran dono.
Dove eran pingui più di Calídone amabile i campi,
quivi dissero a lui che un terreno scegliesse, il piú bello,
grande cinquanta gíe, metà da piantarci la vite,
l’altra metà nel piano, da semina, d’alberi spoglia.
Molto Enèo lo pregò, vegliardo signor di cavalli,
sopra la soglia stando del talamo bene costrutto,
le ben connesse imposte scotendo, pregando suo figlio:
molto pregâr le sue sorelle, e la madre onorata;
ed egli sempre piú persistea nel rifiuto: i compagni
molto pregaron, quanti migliori ne aveva, e piú cari;
ma non poteron, neppure cosí, far convinto il suo cuore,
sinché non fu percosso di colpi il suo talamo, e ascesi
sopra la torre, i Curèti già davano al fuoco la rocca.
E allor, la sposa bella, gemendo, implorò Meleagro,
e ad uno ad uno tutti gli strazi gli espose, che quando
cade espugnata una rocca, s’abbattono sopra le genti:
cadono gli uomini spenti, le fiamme divoran le case.
gli stranïeri via conducono pargoli e donne.
Udendo questi orrori, fu scosso alla fine il suo cuore:
chiuse le membra tutte nell’armi sue lucide, e mosse.
Dunque, cosí tenne lungi dagli Ètoli il giorno fatale,
cedendo al proprio cuore. Né gli altri gli diedero i doni
molti e graditi; eppure salvò da sciagura la patria».
Ma tu simili idee non volger, né un dèmone tristo
a ciò ti spinga, o caro: ché peggio sarebbe, soccorso
recar, quando le navi bruciassero: accetta i presenti,
e vieni: onore a te faran come a un Nume gli Achivi.
Ma se la guerra dovrai micidiale affrontar senza doni,
neppur se l’inimico respingi, avrai simile onore».
E a lui questo il Pelíde dai piedi veloci rispose:
«Fenice, vecchio babbo, di Giove rampollo, bisogno
non ho di questo onore. La sorte di Giove, confido,
onore a me darà, trattenendomi presso le navi,
sin che il respiro io tragga, sinché salde avrò le ginocchia.
E un’altra cosa ancora ti dico, e tu figgila in mente:
piú non volermi il cuore turbare con pianti e querele,
per compiacere l’eroe figliuolo d’Atrèo: tu non devi
amarlo, se non vuoi che teco mi crucci, io che t’amo:
a te conviene offesa recare a chi offesa mi reca.
Sovrano meco sii, partecipa meco ogni onore.
Vadano questi a recare l’annuncio; e in un morbido letto
meco tu resta qui: diman, come fulga l’Aurora,
decideremo se in patria tornare convenga, o restare».
Infine Aiace fa notare ad Achille che la sua ira è eccessiva; Achille comunque non vuole perdonare Agamennone e congeda tutti. Fenice si ferma a dormire presso la sua tenda perché partirà con lui

Disse. E con gli occhi, senza parlare, fe’ a Pàtroclo cenno
che per Fenice apprestasse un solido letto, e che gli altri,
via dalla tenda, al ritorno pensassero. E Aiace divino,
di Telamóne figlio, parlò queste alate parole:
«O di Laerte figlio divino, scaltrissimo Ulisse,
andiam: ché non mi sembra che un esito ai nostri discorsi
si possa avere, almeno da questo viaggio. Al piú presto
dare convien la risposta, per quanto non buona, agli Achivi,
che certo àdesso stanno raccolti in attesa; ma in seno
rempiuto ha il cuore, Achille magnanimo, d’ira selvaggia,
lo sciagurato!, e nulla gl’importa l’amor dei compagni,
che a lui, su ogni altro, presso le navi rendevano onore.
Egli è senza pietà! Persin da chi uccise il fratello
riceve altri l’ammenda, persin da chi uccise il figliuolo,
e riman l’uno, poiché la pena espiò, nel paese,
l’altro alla furia sua pon freno ed al cruccio del cuore,
poscia che ottenne il riscatto; a te, sol per una fanciulla,
furia implacata e sinistra nel cuore istillarono i Numi.
Or te ne offriamo sette, fanciulle, bellissime tutte,
ed altri doni assai. Su’ via, placa dunque il tuo cuore,
la casa tua rispetta: ché sotto il tuo tetto ora siamo,
dove mandati ci hanno gli Achivi; e i piú cari e devoti
a te d’esser crediamo fra tutti gli Achivi, o Pelíde».
E a lui rispose Achille veloce con queste parole:
«Di Telamóne figlio, signore di popoli, Aiace,
è tutto quanto quello ch’ài detto, conforme al mio cuore;
ma il seno a me si gonfia di bile, ogni volta ch’io penso
a ciò ch’è stato, in che vilipendio mi pose l’Atríde,
che m’ha trattato come s’io fossi un ribaldo randagio.
E dunque, andate, voi, ciò ch’io detto v’ho, riferite,
ché io darmi non voglio pensier della guerra cruenta,
se prima Ettore, figlio divino di Priamo guerriero,
giunto alle navi e alle tende non sia dei Mirmídoni, strage
fatta non abbia d’Argivi, struggendo col fuoco le navi.
Vicino alla mia tenda, vicino alla nave mia negra,
dovrà, per quanto ei sia bramoso di pugne, fermarsi».
Cosí diceva. E, presa ciascuno la duplice coppa,
libato presso i legni, tornarono: e Ulisse era guida.
Pàtroclo l’ordine diede ai cari compagni e a le ancelle
che per Fenice un letto stendessero solido, in fretta.
E quelle, pronte, come disse egli, apprestarono il letto,
e la coperta, ed il vèllo, e il molle coltrone di lino;
e quivi giacque il vecchio, l’Aurora divina attendendo.
Dormiva Achille anch’esso, in fondo alla solida tenda,
e a lui presso una donna che aveva condotta da Lesbo,
la figlia di Forbante dal viso gentil, Dïomeda.
Pàtroclo all’altro lato giaceva; e gli stava daccanto
Ifi elegante: a lui donata l’aveva il Pelíde
quando ebbe presa Sciro scoscesa, la rocca d’Evèno.
Ulisse e Aiace tornano da Agamennone e gli riferiscono che Achille è ancora offeso.

Giunsero intanto alla tenda, quegli altri, del figlio d’Atrèo,
e con le coppe d’oro li accolsero i figli d’Acaia,
chi qua, chi là, dimande volgendo, levandosi in piedi.
E parlò prima il re di genti Agamènnone, e disse:
«Dimmi, su’ dunque, Ulisse famoso, gran vanto d’Acaia,
s’egli le navi intende schermire dal fuoco nemico,
o se rifiuta, ed ira gl’invade ancor l’anima grande».
E Ulisse a lui rispose, l’eroe paziente divino:
«O glorioso Atríde, di genti, o Agamènnone, sire,
spengere l’ira sua colui non intende, ma sempre
più di furore è pieno, né te né i tuoi doni gradisce.
E disse che da te tu provveda fra il popolo argivo,
come potrai salvare le navi e le turbe d’Acaia.
E la minaccia aggiunse, che appena si mostri l’Aurora,
sul mare spingerà le navi dai solidi banchi;
ed anche gli altri Achei soggiunse che avrebbe esortati
a ritornare in patria; perché non vedrete la fine
d’Ilio scoscesa: troppo la mano, a proteggerla, tende
Giove tonante, troppa baldanza animò le sue genti.
Cosí disse: costoro che meco lí vennero, Aiace
e gli assennati araldi, lo posson ripetere a voi.
Fenice il vecchio, lí rimase a dormire: ad Achille
piacque cosí, perché lo segua diman su le navi,
verso la patria, se vuole: ché a forza condurlo non brama».
Cosí diceva. E tutti rimasero senza parola,
stupiti ai detti suoi: sí furono fieri e gagliardi.
Muti rimasero a lungo, crucciati i figliuoli d’Acaia:
pure, alla fine, parlò Dïomede, alto grido di guerra:
«O glorioso Atríde, di genti, o Agamènnone, sire,
deh!, non avessi mai pregato il perfetto Pelíde,
mille presenti e mille offrendogli! Troppo è superbo
già di per sé: la sua superbia or tu molto eccitasti.
Dunque, lasciamolo stare, che resti o che torni alla patria.
II giorno ben verrà, che ancora alla guerra egli torni,
quando nel seno il cuore gli dica, od un Nume lo spinga.
Ma ora, tutti, via, facciamo cosí come io dico:
sazie rendete adesso di cibo e di vino le brame,
poscia dormite: ché questo ristora le forze e il coraggio.
Poi, come Aurora appaia, le bella, ch’à dita di rose,
genti e cavalli in fretta dinanzi a le navi tu schiera,
èccitale a battaglia, tu stesso fra i primi combatti».
Cosí diceva; e lui tutti quanti approvarono i prenci,
ché le parole del re Dïomede ammiravano. E allora,
poi ch’ebbero libato, tornarono ognuno alla tenda,
si coricarono qui, goderono i doni del sonno.
Agamennone non può dormire; teme un attacco dei Troiani e invia Menelao dalle sentinelle; poi sveglia Nestore
Cosí gli altri campioni d’Acaia, vicino alle navi,
utta dormian la notte, domati dal sonno soave.
Ma non giaceva il re di genti, Agamènnone Atríde,
vinto dal dolce sonno: ché il troppo pensar lo affannava.
Come allorquando d’Era la bella lo sposo balena,
se mai gran copia appresta di pioggia infinita o gragnuola,
oppur procella, quando la neve cosparge le zolle;
o come quando schiude la faüce grande di guerra;
fitto cosí sorgeva nel sen d’Agamènnone un lagno,
dalle radici del cuore, tremavano dentro i precòrdi.
Ogni qualvolta al piano di Troia mirasse, stupiva
dei fuochi fitti accesi a Troia dinanzi, del suono
di flauti e di sampogne stupía, del frastuono di genti;
ma quando poi guardava le navi e le genti d’Acaia,
dalle radici, a gran ciocche, svellea dal suo capo le chiome,
al cielo vòlto, a Giove, piangendogli il nobile cuore.
E questo parve a lui, pensando, il partito migliore:
Nèstore prima d’ogni altro cercare, il figliuol di Nelèo,
se mai seco potesse tramar qualche scaltro disegno
che lungi il mal tenere potesse da tutti gli Argivi.
Sopra il giaciglio, dunque, seduto, s’avvolse nel manto,
sotto i pie’ svelti strinse coi lacci i suoi sandali belli,
il vello cinse poi d’un fulvido fosco leone,
grande, che sino ai pie’ scendeva; e impugnò la zagaglia.
E anch’esso Menelao, del pari era in preda al terrore —
e a lui neppur disceso sui cigli era il sonno — che male
non incogliesse agli Argivi che a Troia, alla guerra crudele,
eran, per sua cagione, fra tante e tante onde venuti.
Su l’ampie spalle prima si cinse la pelle d’un pardo
multicolore; e poi, sul capo la bronzea celata
alzò, se l’adattò, strinse l’asta nel pugno massiccio,
e suo fratello a destare si mosse, che sopra gli Argivi
tutti tendeva lo scettro, al pari dei Numi onorato.
E lo trovò, mentr’egli, vicino alla poppa del legno,
le belle armi cingeva. Fu lieto, vedendo il fratello;
e primo favellò Menelao, prode all’urlo di guerra:
«Perché t’armi cosí, diletto? Qualcun dei compagni
vuoi tu spedir, che spii le genti troiane? Ma temo,
assai temo, che niuno vorrà sobbarcarsi all’impresa
d’andar solo soletto, nel buio notturno, a spiare
fra la nemica gente. Che intrepido cuore sarebbe!».
E a lui queste parole rispose Agamènnone prode:
«Or c’è bisogno per me, per te, d’uno scaltro consiglio,
o Menelao divino, che possa schermire e far salvi
legni ed Achei: perché mutata è la mente di Giove:
d’Ettore egli or gradisce le offerte assai più che le nostre:
ché io non vidi mai, né udii chi l’avesse veduto,
che un uomo solo tanti prodigi in un giorno compiesse,
quanti ne compie, contro gli Achivi, il diletto di Giove
Ettore: eppure non è figliuol d’una Dea, né d’un Nume.
Gesta ha compiute quante dovran ricordare gli Argivi
ben lungo tempo: tanti malanni ha recati agli Achei.
Ma su, via, corri adesso lunghesse le navi, ed Aiace
chiama, con Idomenèo: io stesso da Nèstore vado,
e quel divino esorto, se sorgere vuole dal sonno,
se delle scólte vuole recarsi alla schiera gagliarda,
ad impartir comandi: sarebbe piú d’altri obbedito,
poiché suo figlio ad essi presiede, e con lui Merïóne,
d’Idomenèo scudiere: ché ad essi le abbiamo affidate».
E a lui disse cosí Menelao, prode all’urlo di guerra:
«Qual’è, proprio, il comando che tu mi rivolgi e proponi?
Debbo aspettare lí con essi, finché tu non giunga,
o debbo a te tornare, quando abbia impartito il comando?».
E a lui questo il signore di genti Agamènnone disse:
«Rimani lí, sicché non ci abbiamo a smarrire, movendo
l’un verso l’altro: ché molti viottoli sono pel campo.
Dà, come giungi, una voce a ciascuno, ridestali tutti,
chiamali ad uno ad uno, nomando la stirpe paterna,
onore a tutti rendi, non far che tu appaia superbo,
ché faticare anche noi dobbiamo: di tale miseria
Giove possente ci volle gravare dal dí che nascemmo».
Disse, con questi chiari comandi inviò suo fratello.
Ed egli in cerca mosse di Nèstore, sire di genti;
e lo rinvenne presso la tenda e la negra sua nave,
su letto molle: presso giacean l’armi, varie di fregi,
lo scudo, due zagaglie, l’elmetto coi quattro pennacchi,
e presso, il corsaletto giaceva, di vago fulgore
onde cingeasi, quando moveva a battaglia, il vegliardo,
guidando il popol suo: ché ancor non cedeva alla trista
vecchiaia. Si levò sul gómito, e, alzata la testa,
parlò, queste parole rivolse al figliuolo d’Atrèo:
«E chi sei tu che lungo le navi, pel campo qui giungi,
entro il notturno buio, nell’ore che dormono tutti?
Cerchi qualcuno, forse, dei muli, o qualcun dei compagni?
Parla, non rimanermi lí muto: che cosa t’occorre?».
E a lui questo il signore di genti Agamènnone disse:
«Nèstore, figlio di Nèleo, gran vanto di tutti gli Achivi,
conoscer tu dovresti l’Atride Agamènnone, a cui
Giove travagli infligge continui, più che a niun altri,
sinché le sue ginocchia lo reggano, e il fiato gli basti.
Errando vo’ cosi, perché non mi scende sugli occhi
placido sonno: la guerra mi cruccia, ed il mal degli Achivi,
perché pei Dànai troppo timore mi stringe, e la forza
più non mi regge, e ambascia m’opprime, ed il cuore mi balza
fuori dal petto, e le salde mie membra son tutte un tremore.
Ora, giacché tu pure non dormi, se vuoi darci aiuto,
vieni, rechiamoci giú, vicino alle scólte, e vediamo
se mai per la stanchezza ceduto non abbiano al sonno,
e dormano, e scordato non abbiano in tutto la guardia:
sono accampati i nemici da presso: né punto sappiamo
se mai combattere anche non voglian durante la notte».
Nèstore a lui cosí, gerenio signore, rispose:
«O glorïoso Atríde, di genti, o Agamènnone, sire,
d’Ettore tutti i disegni, come esso l’immagina e spera,
Giove non renderà compiuti: anzi, penso che crucci
anche maggiori dei nostri dovrà sopportare, se Achille
il cuore suo vorrà distoglier dall’ira funesta.
Ora io dietro ai tuoi passi verrò: ridestiamo anche gli altri,
e il figlio di Tidèo, lanciere fortissimo, e Ulisse.
e Aiace pie’ veloce, e il prode figliuol di Filèo.
E vedi poi, se alcuno potesse anche andare a chiamare
Aiace pari ai Numi, col sire di genti Idomène,
perché le navi loro son lungi, all’estremo del campo.
Però, con Menelao mi cruccio, sebbene onorato,
sebbene caro — ed anche se tu te ne spiaci, non taccio —
che dorme, e t’ha mandato da solo a codesto travaglio:
ad uno ad uno avrebbe dovuto pregare i più prodi,
con ogni zelo: non è da poco, il periglio che incombe».
E a lui cosí l’Atríde, signore di genti, rispose:
«Vecchio, altre volte, io stesso ti dissi di rimproverarlo,
ché trascurato egli è sovente, e non vuole fatiche:
non perché ceda a pigrizia, non già per pochezza di mente,
ma guarda sempre me, da me sempre attende la spinta;
ma questa volta prima di me s’è svegliato a chiamarmi;
ed inviato io l’ho, ché cerchi coloro che dici.
Andiamo, dunque: tra le scòlte, dinanzi alle porte
li troveremo: ché qui dissi loro d’attenderci accolti».
E a lui Nèstore allora, gerenio guerriero, rispose:
«Cosí niuno con lui degli Achivi potrà corrucciarsi,
né calcitrare mai, quando egli lo esorti e lo spinga ».
Nestore sveglia Ulisse, Diomede e altri guerrieri che stanno dormendo vicino alle navi

Cosí dicendo, cinse la tunica intorno al suo petto,
sotto i suoi piedi strinse coi lacci i suoi sandali belli,
su con le fibbie il manto vi strinse purpureo doppio,
che sino ai pie’ scendeva, fiorito di lunga pelurie,
poi la zagaglia prese, che aveva di bronzo la punta,
e lungo i legni andò degli Achei loricati di bronzo.
E primo quivi Ulisse, che in senno era simile a Giove,
destò, levando un grido, dal sonno, il gerenio guerriero
Nèstore. Il grido a quello repente giungeva nell’alma;
e dalla tenda fuori balzò, disse queste parole:
«Perché lungo le navi pel campo vagate soletti,
per l’alta notte? Quale bisogno cosí vi sospinge?».
E a lui Nèstore allora, gerenio guerriero, rispose:
«Ulisse, o molto scaltro divino figliuol di Laerte,
non ti crucciare: troppa sciagura soggioga gli Achivi.
Ma seguimi; e svegliamo qualche altro, a cui pure s’addica
dare consiglio, se ornai la pugna convenga, o la fuga».
Cosí diceva. E Ulisse scaltrissimo entrò nella tenda,
sopra le spalle gittò lo scudo che vario fulgeva,
e andò con essi. E giunser dov’era il Tidíde. All’aperto,
fuor dalla tenda, armato giaceva; e d’intorno i compagni
dormiano, e sotto il capo tenevan gli scudi; e le lance
stavan diritte, infisse sul calcio; ed il bronzo, da lungi
splendea, come baleno di Giove Croníde. L’eroe
dunque dormia: su una pelle giaceva di bove selvaggio,
ed era sotto il capo disteso un tappeto fulgente.
Nèstore, cavaliere gerenio, gli stette vicino,
l’urtò col piede, e, desto che l’ebbe, crucciato gli disse:
«Sveglio, Tidíde! A che dormir, quanto è lunga la notte?
Non sai? Sono i Troiani sul pòggio che domina il piano,
presso le navi, e spazio ben poco da noi li separa!».
Cosí diceva. E quegli, repente dal sonno riscosso,
a lui parlò, si volse col volo di queste parole:
«Sei pur tremendo, o vecchio! Non mai dal travaglio desisti!
Altri non c’eran forse piú giovani figli d’Acaia.
che ad uno ad uno tutti svegliare potessero i prenci,
girando il campo? Nulla, nessuno, può, vecchio, sfuggirti!»
E Nèstore, gerenio guerriero, cosí gli rispose:
«Si tutto ciò ch’ài detto, l’hai detto a proposito, o figlio:
di certo, a me bei figli non mancano, e genti in gran copia,
e ognuno d’essi avrebbe potuto chiamare i sovrani.
Ma ora, troppo grande sciagura soggioga gli Achivi:
sul filo d’un rasoio di tutti gli Achivi è la sorte,
se luttuosa fatale rovina li attenda, o salvezza.
Ora, su presto, Aiace veloce e il figliuol di Filèo
chiama, se provi pietà di me: ché piú giovine sei».
Disse. E il Tidíde la pelle gittò d’un lion su le spalle,
fulvido, grande, che ai pie’ gli scendeva, e impugnò la zagaglia,
e mosse, e dalle tende uscire li fe’, li condusse.
E quando essi fûr giunti dov’erano insieme le scólte,
i loro duci qui non trovarono immersi nel sonno,
ma tutti quanti desti vegliavano, e stretti nell’armi.
Come in un chiuso i cani fan guardia penosa alla greggia,
quando una fiera s’ode feroce che l’alpe traversa,
che per il bosco avanza: le suona d’intorno frastuono
d’uomini e cani; e quelli non godon ristoro di sonno:
cosí non era a quelli sopor sulle pàlpebre sceso,
nella penosa guardia, ma sempre badavano al piano,
come vedevano mosse pel campo nemico. E il vegliardo
li vide, si allegrò, volse ad essi parole a conforto:
«Cosí continuate la guardia, figliuoli, né al sonno
ceda veruno, ché i nostri nemici poi n’abbian sollazzo».
Agamennone raduna l’assemblea per cercare due volontari che vadano a spiare le mosse del nemico. Si offrono Diomede e Ulisse. Atena manda loro un airone come segno di protezione.

Detto cosí, valicò la fossa; e gli tennero dietro
tutti i sovrani argivi chiamati a consulto; e con loro
anche Merïone, e il figlio di Nèstore fulgido andava,
ch’essi li avean chiamati, per prendere parte al consiglio.
E, valicati di là della fossa, sederono in luogo
dove pulito e sgombro di salme appariva il terreno
d’onde ritratto s’era di Priamo il figlio gagliardo,
dopo le stragi, quando nascosto avea tutto la notte.
Seduti qui, parole scambiarono l’uno con l’altro;
e Nèstore parlò per primo, il gerenio signore.
«O cari, niun di voi potrebbe nel cuore gagliardo
trovare tanto ardire che andasse fra i prodi troiani,
se dei nemici alcuno trovasse all’estremo del campo,
oppur se in mezzo a loro potesse udir qualche discorso,
che cosa van tramando fra loro, che cosa hanno in mente,
se rimaner da lungi dinanzi alle navi, o tornare
alla città di nuovo, poi ch’abbiano vinti gli Argivi?
Di questo egli informarsi dovrebbe, ed illeso alle navi
tornare; e sino al cielo potrebbe fra gli uomini lutti
salir la gloria sua. E un dono magnifico avrebbe:
ché quanti sono qui piú ricchi, signori di navi,
ciascuno il dono a lui farà d’una pecora negra,
ch’abbia l’agnello a la poppa: ché dono non v’è che l’agguagli;
e dei banchetti sarà partecipe ognor, dei conviti».
Cosí diceva. E tutti rimasero cheti, in silenzio.
Indi, alla fine, parlò Dïomede, gran voce di guerra:
“Nèstore, il cuore mio mi spinge, e lo spirito prode,
ch’io tra le schiere muova, che presso ci son, dei nemici.
Ma bramerei che meco qualche altro campione venisse:
ché piú sicura sarebbe l’impresa, maggiore il coraggio.
Se vanno insieme due, l’un vede, se l’altro non vede,
quello che sia pel meglio: un solo, se pure lo vede,
è la sua mente però piú corta, minore l’acume».
Cosí diceva; e molti voleano seguire il Tidíde.
Primi volevano i due seguaci di Marte, gli Aiaci,
volea Merïone, piú voleva di Nèstore il figlio,
volea l’Atríde, insigne di lancia guerrier, Menelào,
voleva Ulisse, cuore tenace, affrontare le turbe
degl’inimici, ché pieno d’ardire era sempre il suo cuore.
Fra loro, infine, il sire di genti Agamènnone disse
«O di Tidèo figliuolo diletto al cuor mio, Dïomede,
tu scegli dunque, come lo brami, il compagno, il migliore
di quanti innanzi a te ne vedi: ché molti n’han brama;
né sia che, per rispetto che tu possa avere, il migliore
lasci, e il da meno scelga compagno, per qualche riguardo,
badando alla sua stirpe, perch’egli sia re piú possente .
Cosí dicea: ché molto temea pel fratello suo biondo.
E a lui disse cosí Dïomede, gran voce di guerra:
«Se voi volete ch’io da me stesso mi scelga il compagno,
e come mai potrei scordarmi d’Ulisse divino,
ché piú d’ogni altro ha saldo lo spirito in ogni travaglio,
deciso il cuore, ed è prediletto di Pallade Atena?
Egli mi segua; ed anche di mezzo alla vampa del fuoco
tornar sapremo entrambi: ch’ei supera tutti in astuzia».
E a lui cosí rispose Ulisse divino tenace:
“Tu non mi devi, o Tidíde, né biasimo volger, né lode:
ché fra gli Achivi parli, che ben sanno ciò. Ma si vada:
che già la notte al fine s’appressa, e vicina è l’Aurora,
sono avanzati gli astri, trascorse son già della notte
piú di due parti, e oramai la terza soltanto rimane».
Come ebbe detto ciò, si cinse dell’armi tremende.
Qui, Trasimède, l’eroe guerriero, una spada a due tagli
porse al Tidíde, che aveva lasciata la sua nella nave,
ed uno scudo; e un elmo di pelle di toro gli strinse
d’intorno al capo, senza cimiero né cresta, ch’è detto
barbuta, e suole il capo schermire ai robusti campioni.
E spada arco e turcasso Merïone porse ad Ulisse,
e intorno al capo un elmo gli strinse, foggiato nel cuoio,
che saldo era tenuto da molte coregge protese
dentro nel cavo: fitti di fuori correvano e bianchi
attorno attorno i denti d’un apro selvaggio zannuto,
in bell’ordine posti: nel mezzo adattato era il feltro.
Preso l’aveva Autòlico un dí da Eleóne, che irruppe
dentro la salda casa d’Amíntore, figlio d’Ormèno;
Autòlico lo die’, che a Scandèa lo portasse, al Citerio
Anfidamante; e questi lo die’, come dono ospitale,
a Molo; e Molo poi lo diede a Meríone suo figlio;
e, finalmente, qui fu cinto alla testa d’Ulisse.
Or, poi che i due campioni fûr chiusi nell’armi tremende,
mossero, e tutti quivi lasciarono gli altri signori.
E ad essi Atena, figlia di Giove, inviò dalla destra
un aghiróne, lungo la strada; né il videro quelli,
ché buia era la notte; ma chiaro n’udirono il grido.
E del presagio Ulisse fu lieto, e si volse ad Atena:
«Odimi tu, figliuola di Giove, dell’ègida sire,
che in ogni mia fatica m’assisti, né mossa ch’io faccia
ti sfugge; or che piú mai prediligere, Atena, mi devi.
Fa’ tu che noi possiamo tornar glorïosi alle navi,
compiute avendo gesta che Troia mai piú non oblii».
Secondo poi pregò Dïomede, gran voce di guerra:
«Adesso odi anche me, intatta figliuola di Giove:
seguimi, come quando seguisti mio padre Tidèo
a Tebe, allor che araldo v’andò per gli Achivi. Lasciati
presso l’Àsopo aveva gli Achei loricati di bronzo,
ed ai Cadmèi recava parole soavi di pace
colà; ma nel ritorno compie’ memorabili gesta.
Dea, tua mercè: ché tu gli stavi benevola accanto.
Cosí vicina a me rimani, ed assistimi adesso;
e una giovenca, larga di fronte, d’un anno, non doma
immolerò, dall’uomo non tratta finor sotto il giogo
te l’offrirò, poi che d’oro avrò le sue corna cosparse».
Disser cosí, pregando, né Pallade Atena fu sorda.
E poi ch’ebber pregata la figlia di Giove possente,
mossero, simili a due leoni, pel buio notturno,
via fra le stragi e i morti, fra l’armi ed il livido sangue.
Neanche Ettore dorme e anche lui cerca un volontario che vada a vedere se gli Achei fanno ancora la guardia alle navi. Dolone si offre, con la promessa di ricevere poi in premio il carro di Achille

Né consenti che a dormire restassero i prodi Troiani,
Ettore, ma chiamò tutti quanti i migliori a raccolta,
quanti ve n’eran che in guerra guidavan le schiere troiane;
e poi, tutti adunati, propose un accorto consiglio:
«Chi questa impresa affrontare vorrebbe, e recarla ad effetto,
per un gran dono? Tale compenso agli avrà che gli basti.
Un carro io gli darò con due corridori superbi,
quelli che sian migliori sui rapidi legni d’Acaia,
se alcuno avrà l’ardire, saprà gloria tal procacciarsi,
d’andar presso le navi dal rapido corso, e vedere
se come prima sono guardate le rapide navi,
oppur se, già domati gli Achei dalla nostra vittoria,
van consigliando fra loro la fuga, né il cuore a lor basta
piú di far guardia, oppressi di grave stanchezza, la notte».
Cosí diceva; e quelli rimasero muti in silenzio.
Vera nel campo un certo Dolone, figliuolo d’Eumède,
l’araldo pari ai Numi, che avea d’oro e bronzo gran copia.
Era di misero aspetto costui, ma di piedi veloci,
ed era il solo maschio, con cinque sorelle. Costui
ad Ettore e ai Troiani cosí la parola rivolse:
“Ettore, il cuore mio, lo spirito prode mi spinge
ch’io degli Achivi presso le navi mi rechi, ed esplori;
ma tu lo scettro tuo solleva, per far giuramento
di darmi il carro tutto fulgente di fregi di rame,
ed i cavalli che in guerra trasportano Achille divino.
Né vano esploratore sarò, che ti faccia deluso:
ché tanto avanzerò pel campo, sin ch’io non sia giunto
presso alla nave del re Agamènnone, dove i migliori
terran certo consiglio, se ancora azzuffarsi, o fuggire».
Cosí disse. E levò lo scettro, fece Ettore un giuro:
«Sappia ora Giove, d’Era lo sposo che tuona dal cielo,
che su quel carro niun altri salire dovrà dei Troiani,
ma solo tu dovrai, lo affermo, rifulgervi sempre».
Disse. E fu vano quel giuro; ma pure a sospingerlo valse.
Súbito si gittò sugli omeri l’arco ricurvo,
strinse d’un grigio lupo la pelle d’intorno alle membra,
sopra la testa un berretto di donnola, strinse l’acuta
zagaglia e s’avviò, dal campo alle navi; né indietro
piú ritornar doveva, né ad Ettore dar la risposta.
Ulisse e Diomede sorprendono Dolone, che, per aver salva la vita, dice tutto ciò che sa e tradisce i Troiani. Ma comunque poi Diomede lo decapita.

Ma poi ch’esso lasciò dei cavalli e degli uomini il folto,
pel suo cammino, pieno d’ardire movea. Ma lo scorse
Ulisse; e a Dïomede cosí la parola rivolse:
O Dïomede, vedi che un uomo s’avanza pel campo,
né so se sia diretto ai nostri navigli a spiare,
o predar voglia alcuno dei morti che giacciono in campo.
Prima lasciamo adesso che un tratto s’inoltri nel piano,
e poi balziamo avanti, facciamo di prenderlo in furia.
Se poi sopravanzarci potrà con i piedi veloci,
spingilo, incalzalo sempre, con l’asta, lontano dal campo,
verso le navi, ché salvo non abbia a tornar nella rocca».
Detto cosí, da un canto piegar della via, tra le salme;
e quello, rapido oltre passò, ché non ebbe sospetto.
Ma poi che fu lontano quanto aran del campo in un tratte
due muli, che valenti son piú degli stessi giovenchi
per trascinare il solido aratro nel fondo maggese,
ambi gli corsero dietro. E quegli ristette al rumore,
ché li crede’ compagni, crede’ che del campo troiano
d’Ettore un ordine a lui recasser, perch’egli tornasse.
Ma quando un trar di lancia vicini gli furono, o meno,
s’accorse ch’eran gente nemica; e a fuggir, le ginocchia
agili volse; ma dietro gli furono súbito quelli.
Come allorché due cani mordaci hanno visto una fiera,
sia lepre, sia cerbiatto, l’inseguono senza riposo
per la boscaglia, e quella dinanzi si lancia belando:
tali il Tidíde, e Ulisse di rocche eversor, senza tregua
sopra gli stavano, dopo che l’ebber tagliato dal campo.
Ma quando, verso i legni fuggendo, era presso a mischiarsi
già con le scólte, Atena infuse vigore al Tidíde,
si che niun degli Achei coperti di bronzo, potesse
prima di lui colpírlo, si ch’egli restasse secondo.
Alta la lancia librò Dïomede gagliardo, e gli disse:
«O resta, o ch’io la lancia t’avvento; e ti dico di certo
che tu la mala morte schivar non potrai di mia mano».
Disse, e la lancia scagliò, ma falli di proposito il colpo:
sopra la spalla destra volando, la cuspide aguzza
in terra si piantò. Dolone, atterrito, ristette,
la gamba gli mancò, gli batterono i denti, divenne
verde per lo spavento. Lo aggiunsero quelli ansimanti,
lo preser per le braccia. E disse Dolone, piangendo:
«Vivo pigliatemi, ed io vi sborso il riscatto: ché bronzo
ed oro è in casa mia, con ferro di fine lavoro:
di qui vi pagherà mio padre infinito riscatto,
quando saprà ch’io vivo son presso le navi d’Acaia».
E a lui rispose, Ulisse divino, lo scaltro consiglio:
«Fa’ cuore, e non ti passi pel capo l’idea di morire.
Ma questo dimmi adesso, rispondimi senza menzogna:
dove, dal campo verso le navi, tu vai cosí solo,
di notte piena, quando riposano tutti i mortali?
Forse a spogliare vai qualcun dei guerrieri caduti,
o t’inviò, che tu quanto avvien presso i legni spiassi,
Ettore? Oppure qui la sola tua brama ti spinse?».
E questo, a membro a membro tremando, rispose Dolone:
«Ettore fuori di senno mi trasse con molte follie,
che mi promise che dati m’avrebbe i veloci cavalli
del figlio di Pelèo, col carro fregiato di rame,
e m’ordinò che andassi di corsa pel buio notturno,
ed ai nemici presso venissi, e ridirgli sapessi
se son guardate, come già eran, le rapide navi,
oppur se oramai siete domati dal nostro valore,
e di fuggir prendete consiglio, né il cuore vi basta
piú di far guardia, oppressi di grave stanchezza, la notte».
E a lui rispose Ulisse, lo scaltro consiglio, e rideva:
«Piccol non era, il dono che tu vagheggiavi! I cavalli
del valoroso nipote d’Eàco! Difficile cosa
per gli uomini mortali, costringerli al carro e guidarli,
tranne che per Achille, che ebbe per madre una Diva!
Ma dimmi questo, adesso, rispondimi senza menzogna:
quando venisti qui, dov’era il pastore di genti
Ettore? L’armi sue da guerra ove sono, e i cavalli?
Come disposti sono, le scólte e i giacigli troiani?
Che cosa stan tramando fra loro, che cosa hanno in mente?
Restar forse da lungi dinanzi alle navi, o tornare
alla città di nuovo, poi ch’anno sconfitti gli Achivi?».
E a lui cosí rispose Dolone, figliuolo d’Eumède.
«E dunque, ti dirò, senza nulla mentir, tutto quanto.
Ettore, insieme a quanti compagni gli son dei consigli,
presso alla tomba d’Ilo divino, lontan dal frastuono,
tiene consiglio; e le scólte di cui tu mi chiedi, o signore,
niuna ve n’ha che vegli distinta a difesa del campo.
Quanti fuochi tu vedi brillar dei Troiani, altrettanti
uomini sono a scólta, si esortan l’un l’altro alla guardia.
Nel sonno immersi, invece, son tutti gl’insigni alleati:
la cura essi ai Troiani rimettono ognor di vegliare;
perché vicini ad essi né i pargoli son, né le spose».
E Ulisse allor, l’eroe dai molti consigli, soggiunse:
«E dimmi, or, coi Troiani valenti a domare cavalli,
dormon commisti, o in disparte? Di’ questo, ch’io voglio saperlo».
E a lui cosí rispose Dolone, figliuolo d’Eumède:
«E sia, ché pure questo vo’ dirtelo senza menzogna.
Stanno i Peóni dagli archi ricurvi vicino alla spiaggia,
coi Lèlegi, coi Cari, coi Càuconi e i divi Pelasgi.
Vicino a Timbre stanno coi Lici i belligeri Miŝi,
coi Frigi, e coi Meóni valenti a pugnar sui cavalli.
Ma perché dunque andate cosí, punto a punto, chiedendo?
Se vi volete proprio cacciar fra le turbe Troiane,
qui sono i Traci, giunti da poco, all’estremo del campo,
ed è Reso fra loro, sovrano, figliuolo d’Eióne.
Corsieri io mai non vidi piú belli dei suoi, né piú grandi:
piú della neve bianchi, gareggiano a corsa coi venti:
possiede un carro bello, ch’à d’oro e d’argento gli ornati,
e l’armi tutte d’oro, tremende, stupende a vederle.
Ei le ha recate seco; né sembra che gente mortale
possa indossarle mai; ma solo i beati Celesti.
Ma via, portatemi ora vicino alle rapide navi,
oppure, qui di lacci dogliosi lasciatemi avvinto,
sinché non siaté qui tornati, ed abbiate la prova
se tutto quanto il vero v’ho detto, se ho detto menzogna».
Ma bieco lo guardò Dïomede gagliardo, e rispose:
«Poi che tu in mano ci sei caduto, speranza di scampo
non concepire, per buone che sian le tue nuove, Dolone.
Perché, se ti sciogliamo, se andar ti lasciamo, di nuovo
tu verrai certo presso le rapide navi d’Acaia,
sia per spiare, sia per combattere in campo: se invece
sotto le mani mie cadi ora, se perdi la vita,
essere piú non potrai, d’ora innanzi, di cruccio agli Achivi»
Disse. Ben quegli tentò di stendegli al mento la mano,
per supplicarlo; ma l’altro vibrò giú la spada, ed il collo
a mezzo gli colpí, recise ambi i tendini; e il capo
giú fra la polvere cadde, che ancora la voce suonava.
Dal capo allor l’elmetto di dònnola trassero fuori,
la grande lancia, l’arco ricurvo, la pelle di lupo:
tutto Ulisse levò, tese alte le mani ad Atena
Dea predatrice, e queste parole di prece le volse:
«Dea, questi doni gradisci: fra quanti Immortali ha l’Olimpo,
le nostre offerte avrai tu prima d’ogni altro; ma ora
guidaci tu, dove sono dei Teucri i cavalli e le tende».
Cosí disse; e levò la preda, e alla cima l’appese
d’un tamerisco; e a porvi segnale visibile, sopra
rami di tamerici legò fronzutissimi, e canne,
ché ritornando, poi, non dovesse, nel buio, sfuggirgli.
Ulisse e Diomede arrivano presso i Traci. Ulisse ruba i cavalli a Reso, Diomede fa strage dei Troiani addormentati. Poi fanno ritorno, come suggerito da Atena.

E poi, mossero avanti, fra l’armi ed il livido sangue,
ed alle schiere presto fûr giunti degli uomini Traci.
Giaceano questi, oppressi da grave stanchezza, nel sonno:
vicino ad essi, a terra, giaceano in bell’ordine l’armi
sopra tre file; e presso ciascuno i suoi due corridori.
Reso dormiva nel mezzo: vicino, i cavalli veloci
erano con le briglie legati del carro alla sponda.
E Ulisse lo mostrò, non appena lo scòrse, al Tidíde:
«O Dïomede, l’uomo questo è, questi sono i cavalli
che c’indicò Dolone, a cui data abbiamo la morte.
Mostra su’ via, la tua furia gagliarda: ché a te non conviene
stare ozioso in arme. Su’ via, sciogli dunque i cavalli;
oppur, tu di guerrieri fa’ strage, ed io penso ai cavalli».
Cosí disse. Ed Atena glaucòpide ardore gl’infuse;
e in giro il ferro, a strage vibrò: dei trafitti il lamento
miseramente suonò: rosseggiava la terra di sangue.
Come leone a un gregge di pecore e capre s’arresta
senza pastore, e sovr’essa con animo fiero s’avventa:
cosí balzava il fiero Tidíde sugli uomini Traci.
Dodici n’ebbe trafitti; e Ulisse, frattanto, l’accorto,
quanti accostava e a morte colpía con la spada il Tidíde,
tanti pel piede Ulisse ghermiva, e traeva in disparte,
questo disegno avendo, che i bei corridori chiomati
facile avessero il passo, né a coglierli avesse tremore
per camminar sulle salme: ché avvezzi non erano ancora.
Ma quando poscia al re fu giunto il figliuol di Tidèo,
a cui decimoterzo rapiva la vita soave,
mentre ansimava — ché un sogno maligno volato sul capo
gli era di notte: il rampollo d’Enèo, per volere d’Atena —
i corsïeri staccò solidunguli Ulisse divino,
insieme li legò con le redini, e fuor dalle schiere
li spinse, li batté con l’arco: che aveva obliato
di prendere dal carro dipinto la lucida sferza;
e insieme sibilò, per dare un segnale al Tidíde.
Ma stava quegli, e in mente volgeva che impresa piú audace
compier potesse: o il carro dov’erano l’armi fulgenti
via pel timone trarre, o, alzandolo sopra le spalle,
oppure ad altri molti dei Traci guerrieri dar morte.
Mentre ei questi pensieri volgeva nell’animo, Atena
presso gli venne, e queste parole rivolse al divino:
«Su’, di Tidèo figliuolo magnanimo, pensa al ritorno,
torna alle navi, ché poi non debba tornarci di fuga,
se qualche Nume, a caso, dovesse svegliare i Troiani”.
Cosí disse. Egli intese che aveva parlato una Dea,
e sui cavalli, d’un tratto, balzò, li percosse con l’arco;
e via verso le navi d’Acaia volaron veloci.
Apollo sveglia Ippoconte, cugino di Reso; lui, e in breve anche tutti i Troiani, si rendono conto del furto di cavalli e della strage.

Ma non indarno Apollo dall’arco d’argento vegliava:
la Diva Atena ei vide, che dava assistenza al Tidíde,
e si cacciò, crucciato con lei, fra le schiere troiane,
ed Ippoconte destò, cugino di Reso, dei Traci
buon consigliere. Or questi, dal sonno scotendosi, come
scorse deserto il luogo dov’erano prima i cavalli,
e gli uomini trafitti guizzare tra l’orrida strage,
gemiti alzò, per nome chiamando il compagno diletto;
e si levò fra i Troiani clamore, tumulto infinito
ch’ivi accorrevano in frotta, mirando l’orribile gesta
che quelli avean compiuta, poi salvi alle navi tornando.
Intanto Ulisse e Diomede tornano dalla loro missione e preparano il sacrificio ad Atena

E quando quelli al luogo fûr giunti ove uccisa la spia
d’Ettore avevano, Ulisse rattenne i veloci cavalli;
ed il Tidíde a terra balzato, le spoglie cruente
prese, e ad Ulisse le porse. Di nuovo balzò poi sul cocchio,
vibrò sopra i cavalli la sferza, e volarono quelli
verso le concave navi: ché qui le spingeva la brama.
Nèstore udí per primo lo scalpito, e disse ai compagni:
«O condottieri e re degli Argivi, compagni diletti,
m’inganno, o dico il vero? Ma il cuore mi spinge ch’io parli:
di rapidi corsieri mi batte le orecchie un galoppo.
Deh!, se di furia cosí Dïomede gagliardo ed Ulisse
qui spingesser dal campo troiano i veloci cavalli!
Ma gran timore in cuore mi regna che questo tumulto
sia di Troiani, e doglie ne soffrano i principi argivi!».
Ma tutta non fini la parola, che quelli eran giunti.
E qui, dal carro a terra balzarono; e i principi achivi
li salutaron con strette di mano, con dolci parole;
e Nèstore parlò, cavaliere gerenio, per primo:
«Dimmi, lodato Ulisse, gran vanto d’Acaia, in che modo
questi corsieri aveste? Cacciandovi in mezzo ai Troiani?
O ve li diede, incontro venendovi, alcuno dei Numi?
Ci sbigottiscono! Proprio somigliano a raggi del sole!
Io coi Troiani sempre mi mescolo, e ben posso dire
ch’io non rimango, per quanto sia vecchio, vicino alle navi:
pur, mai non vidi, idea mai non ebbi di tali corsieri:
penso che proprio in un Dio vi siate imbattuti, e donati
egli ve l’abbia: ché Giove che i nugoli aduna, ed Atena,
la figlia sua dagli occhi cerulei, v’amano entrambi».
E Ulisse, a lui, lo scaltro, con queste parole rispose:
«O Nèstore Nelide, gran vanto di tutti gli Achivi,
facile a un Dio sarebbe, se vuole, donare cavalli
anche più belli di questi: ché grande è il potere dei Numi.
Però, questi cavalli di cui tu dimandi, son traci,
venuti or ora; il prò’ Dïomede ne uccise il padrone,
e dodici compagni con lui, quanti v’eran piú prodi.
Decimoterzo un altro spengemmo, che aveano inviato
Ettore e gli altri signori di Troia, vicino alle navi».
E, cosí detto, spinse di là dalla fossa i cavalli,
pieno di giubilo; e lieti con lui mosser tutti gli Achivi.
E poi che del Tidíde fûr giunti alla solida tenda,
tutti alla greppia i cavalli legar con le redini salde,
dove anche eran del prode guerrier Dïomede i cavalli
piediveloci, e biada cibavan piú dolce del miele.
Ulisse, poi, recò di Dolone le spoglie cruente
a poppa della nave, sinché preparato non fosse
il sacrificio ad Atena. Poi tersero, entrati nel mare,
il sudor molto, le gambe, la nuca, ed entrambe le cosce.
E poi, quando ebbe l’acqua del mare deterso il sudore,
via d’ogni membro, e pieno fu il petto di fresco sollievo,
dentro le lisce vasche s’immersero, e fecero il bagno.
E poscia, fatto il bagno, cospersi di liquida uliva,
ambi sederono a mensa, attinser dal sommo cratère,
e propinarono il vino, piú dolce del miele, ad Atena.
È l’alba, e sia i Troiani sia gli Achei sono desiderosi di combattere. Anche Agamennone indossa l’armatura.
Già dal suo letto Aurora, da presso al mirabil Titone
sorgea, ch’essa recava la luce ai Celesti e ai mortali;
e Giove la Contesa feroce alle navi d’Acaia
spedì, che in man serrava l’orrendo segnacol di guerra.
Sopra la negra nave profonda d’Ulisse ristette,
che in mezzo era, perché giungesse ugualmente la voce,
di qui, sino alle tende d’Achille, di lí, del figliuolo
di Telamóne, Aiace: ch’entrambi agli estremi del campo
avean tratto, fidando nel proprio valore, le navi.
Quivi ristette, e un grido terribile acuto la Diva
alto levò, che fiera possanza a ciascun degli Achivi
nel cuore infuse, e brama di guerre, di zuffe perenni:
sí che d’un tratto ad essi la guerra sembrò piú soave
che ritornare sopra le concave navi alla patria.
E un grido alto levò l’Atríde, e ordinò che gli Argivi
l’armi cingessero; e il bronzo che folgora anch’egli si cinse.
Prima, dunque, adattò gli schinieri alle gambe d’intorno,
belli, adattati su le caviglie con fibbie d’argento.
L’arma seconda fu la corazza, che al petto si strinse.
che a lui Cínira un giorno mandò come dono ospitale,
quand’egli in Cipro udí la grande novella, che a Troia
sopra le navi, in guerra sarebbero mossi gli Achivi;
e al sire quell’usbergo mandò, per averne le grazie.
In esso venti strisce correano d’acciaro brunito,
dodici d’oro, venti di stagno; ed al collo d’intorno
correan dragoni bruni cerulei, tre da ogni parte,
e somigliavano agli arcobaleni che il figlio di Crono
sopra le nubi fissa, che siano prodigio ai mortali.
Poi su le spalle gittò la spada: mandavan su l’elsa
le borchie d’oro un vivo fulgore: un’argentea guaina
cingea la lama, al bàlteo sospesa con aurei fermagli.
Poscia lo scudo prese che tutto il copria, bello, adorno.
Dieci d’intorno ad esso correvano giri di bronzo;
e c’eran venti borchie rigonfie, di candido stagno,
ed una in mezzo a quelle, di ciano bruno. Ed in giro,
Gòrgone c’era, come ghirlanda, dall’orrido aspetto,
che saettava sguardi tremendi, e Terrore, e Sgomento.
Ed era anch esso, il bàlteo, d’argento; e sovr’esso un dragone
s’attorcigliava, d’acciaio brunito, ed aveva tre teste,
che su da un collo solo crescevan, rivolte a tre parti.
E un elmo a due cimieri, con quattro ripari sul capo,
con una coda equina, che in alto ondeggiava tremenda.
E due zagaglie prese di brónzea cuspide, salde,
aguzze: sino al cielo brillava il fulgore del bronzo.
E Atena allora ed Era scagliarono un tuono dal cielo,
per fare onore al re di Micene, città ricca d’oro.
Quindi, ciascuno diede comando all’auriga, che quivi
su l’orlo della fossa schierassero in ordine i carri.
Poi, tutti chiusi nell’armi, balzarono innanzi i campioni.
ed incessante surse clamore; e non anche era l’alba.
E furon su la fossa schierati assai prima dei carri;
ma poco dopo seguirono i carri; e un frastuono sinistro
suscitò Giove, figlio di Crono; e dall’alto dell’aria
scagliò rugiade molli di sangue, poiché s’accingeva
a subissar molte vite d’eroi valorosi nell’Ade.
Dall’altra parte poi, dove il piano saliva, i Troiani
stavano ad Ettore grande d’intorno, ad Enèa, che i Troiani
tutti onoravano al pari dei Superi, a Polidamante
senza censura, ai tre figli d’Antènore, Pòlibo, e il divo
Agènore, e Acamante, garzone che un Nume sembrava.
Ettore andava fra i primi, reggendo lo scudo rotondo.
Qual tutto fulgido emerge dai nuvoli un astro maligno,
e nuovamente, poi, fra le nuvole ombrose s’immerge,
Ettore similemente, partendo comandi, appariva
ora tra i primi, ed ora tra gli ultimi; e tutto di bronzo
sfolgoreggiava, come balen dell’egíoco Giove.
E come i mietitori, nel campo d’un uomo opulento,
gli uni di fronte agli altri dispongono in fila i covoni
d’orzo e di grano; e a terra giú cadono fitti i mannelli:
cosí Troiani e Achivi, lanciandosi gli uni sugli altri,
strage facevano; e niuno pensava alla fuga funesta.
Tutte le menti esaltava la zuffa; ed a guisa di lupi
infuriavano. Molto, vedendo, gioiva Contesa
ricca di pianti. Solo essa, fra i Numi assisteva alla zuffa:
ché gli altri Dei possenti non erano qui, ma tranquilli
eran rimasti nelle lor sedi, ove ognuno di loro
la bella casa aveva, costrutta fra i gioghi d’Olimpo.
E tutti contro Giove, signore dei nuvoli negri,
lagno moveano, perché voleva dar gloria ai Troiani.
Ma non si dava cura di loro il Croníde. In disparte
stava, lontano dagli altri sedea, di sua gloria beato,
guardando la citata dei Troiani, le mura d’Acaia,
il folgorio del bronzo, la gente che uccide e che muore.
La battaglia volge a favore degli Achei, che avanzano. Agamennone uccide molti Troiani.

Finché durò l’aurora, finché fu sul crescere il giorno,
d’ambe le parti frecce colpivano, e gente cadeva;
ma quando l’ora giunse che in mezzo alle gole dei monti
il boscaiòlo il suo pasto prepara, che stanche ha le braccia,
stanca ha la lena, poiché tagliati ha tanti alberi grandi,
e desiderio il cuore gl’invase del cibo soave,
ruppero allora i Dànai col loro valore i nemici,
chiamandosi qua e là per le file. E Agamènnone primo
balzò, tolse di vita Bïènore, sire di genti,
lui stesso, e quindi Elèo, suo compagno, signor di corsieri.
Ben questi, giú dal carro balzando, l’aveva affrontato;
ma mentre ei si lanciava, col cuspide acuto la fronte
gli perforò; né valse la grave celata di rame,
ché penetrò per quella, per l’osso; e il cervello di dentro
tutto si spappolò: l’atterrò mentre pur si lanciava.
E qui poi li lasciò l’Atríde signore di genti,
che li spogliò degli usberghi: rifulsero candidi i petti.
Ed egli oltre passò, per uccidere Àntifo ed Iso,
figli di Priamo, l’uno bastardo, legittimo l’altro,
sopra un sol carro entrambi. Reggeva le briglie il bastardo:
Àntifo illustre, accanto gli andava. Nei gioghi dell’Ida
Achille entrambi un di li avvinse coi flessili giunchi,
ché li sorprese mentre pascevan le pecore; e n’ebbe
poscia il riscatto, e li sciolse. L’Atríde Agamènnone, allora
l’uno con l’asta sopra la mamma colpíva: la spada
ad Àntifo vibrò vicino all’orecchio, e dal carro
lo rovesciò: poi presto, dai corpi rubò l’armi belle;
ché li conobbe: visti li avea presso i rapidi legni,
quando dall’Ida Achille, veloce nel corso, li addusse.
Come i poppanti figli di rapida cerva, un leone
agevolmente, se li ha fra le zanne possenti, maciulla,
poi che al lor covo giunse, ne strugge la tenera vita:
la madre, pur se sia vicina vicina, soccorso
dare non può, ché tutta tremendo tremore l’invade;
ma rapida si lancia pei fitti dumeti e la selva,
ed ansa e suda, mentre la fiera possente l’incalza:
cosí, niun dei Troiani salvare quei due dalla morte
poteva: ch’essi stessi fuggivan dinanzi agli Argivi.
E poi, Pisandro colse, e Ippòloco amico di zuffe,
figli d’Antímaco, prode guerriero, che fulgidi doni
aveva, ed oro molto, da Paride avuto, e contrasto
facea ch’Elena render dovessero al biondo suo sposo.
I due giovani dunque coglieva Agamènnone forte,
che, sopra un cocchio entrambi, tentavan frenare i cavalli:
ch’eran a lor di mano sfuggite le fulgide briglie,
ed impennati i cavalli. Di fronte s’aderse l’Atríde,
come un leone; ed essi pregaron dal carro, a ginocchi:
«Pigliaci vivi: e il degno riscatto, figliuolo d’Atrèo,
accetta: sono in casa d’Antimaco molti tesori,
e bronzo, ed oro, e ferro foggiato con vario lavoro:
di qui darti potrà nostro padre riscatto infinito,
ov’ei sappia che vivi noi siam presso i legni d’Acaia».
Cosí, versando pianto, quei due rivolgevano al sire
questi melliflui voti; ma udirono amara risposta:
«Se voi figliuoli siete d’Antimaco crudo, che un giorno
nell’assemblea dei Troiani, propose che fossero spenti
Ulisse e Menelao, che in Ilio eran giunti messaggi,
si che tornare piú non potessero al campo nemico,
ora l’oltraggio turpe scontare dovete del padre”.
Disse. Ed a terra, giú dal carro, sospinse Pisandro,
che lo colpí con la lancia nel petto; e quei cadde rovescio.
Ippòloco balzò giú dal carro; ed a terra l’uccise:
le braccia gli mozzò a colpí di spada, ed il collo,
ed il troncone lanciò, come un curro, a rotar fra le turbe.
Qui lo lasciò. Poi, dove piú fitte volgeansi le schiere,
quivi balzò; dietro lui, gli Achei da le belle gambiere.
E nella pugna, i fanti facevano strage dei fanti,
i cavalieri dei cavalieri — sotto essi sorgeva
polve che il pie’ dei cavalli sonoro levava dal piano —
imperversando col bronzo. Fra loro, Agamènnone prode
movea, continua strage facendo, esortando gli Argivi.
Come se un fuoco infesto piombò sopra fitta boscaglia,
che dappertutto il vento lo spinge, lo voltola; e a terra
piomban le macchie, come le investe la furia del fuoco:
cosí sotto la furia cadean d’Agamènnone Atríde
le teste dei Troiani fuggiaschi; e ai confini del campo
molti corsieri con alto strepore traevano i carri
vuoti, che avean perduti gli aurighi: giacevano al suolo
quei prodi, agli avvoltoi diletti piú assai che alle spose.
Ettore, poi, lo schermì dalle frecce il figliuolo di Crono,
dal sangue, dalla polve, dall’alto frastuon, dall’eccidio.
Ma senza tregua i Dànai l’Atríde eccitava; e i Troiani
presso alla tomba d’Ilo, l’antico Dardànide, dove
cresceva il caprifico, fuggíano, per mezzo alla piana
per giungere alla rocca. Levando alte grida, l’Atríde,
sempre incalzava, di sangue lordando le indomite mani.
Ma quando al faggio poi fûr giunti, e alle porte Sceèe,
quivi fermarono il piede, attesero quivi i compagni;
e quelli, via nel piano fuggivano, come giovenche
fuggono, ch’abbia un leone sgomente nel cuor della notte,
tutte, sebbene l’estrema rovina abbia còlta una sòla:
ché la ghermí, la cervice coi denti gagliardi le franse
prima; ed il sangue poi, le viscere tutte ne inghiotte.
Similemente, l’Atríde gagliardo incalzava i Troiani,
l’ultimo sempre uccidendo: fuggivano quelli atterriti.
E molti proni, e molti supini cadevan dai cocchi,
sotto i suoi colpí: ché pieno di furia ci vibrava la lancia.
Giove manda Iride a dare un messaggio ad Ettore, perché veda Agamennone e istruisca i Troiani a tenergli testa; e gli preannuncia anche che sarà ferito, ma che poi, grazie a Giove stesso, combatterà con grande impeto fino a sera.

Ma quando stava già per giungere sotto la rocca,
sotto l’eccelse mura, degli uomini il padre e dei Numi
giunto era allora dell’Ida sui vertici irrigui di fonti,
ch’era disceso dal cielo: stringeva la folgore in pugno.
E spinse Iri, ch’a d’oro le piume, a recare un messaggio:
«Iri veloce, va’, reca ad Ettore questo messaggio:
sin ch’ei veda Agamènnone prode, pastore di genti
infuriar tra i primi, struggendo le file guerriere,
egli si tenga indietro, dia mònito agli altri guerrieri
ché sappian ne la fiera battaglia affrontare i nemici;
ma quando poi, trafitto di lancia, o colpíto di freccia,
risalirà sul cocchio, infondere in lui vô tal possa,
ch’ei sterminare Achivi potrà sin che giunga alle navi,
e il sol s’immerga, e scenda sul mondo la tenèbra sacra».
Disse. Ed Iri obbedí veloce dai piedi di vento,
e giú dai picchi d’Ida verso Ilio la sacra discese,
ed Ettore trovò divino, di Priamo figlio,
che sui cavalli stava, sul carro di salda compage.
Iri dai pie’ veloci, vicina gli stette, e gli disse:
«Ettore a Giove pari nel senno, di Priamo figlio,
a te qui m’inviò Giove padre, che ciò ti dicessi:
sin che Agamènnone prode, pastore di genti, tu veda
infuriar tra i primi, struggendo le file guerriere,
lungi tu sta dalla pugna, dà moniti agli altri guerrieri,
ché nella fiera battaglia sostengano l’urto nemico;
ma quando poi, trafitto di lancia o colpíto di freccia,
risalirà sul cocchio, tal possa in te infondere vuole,
che sterminare Achei potrai sin che giunga alle navi,
e il sol s’immerga, e scenda sul mondo la tènebra sacra».
Iri dai piedi veloci, via mosse, com’ebbe ciò detto.
Ed Ettore dal carro balzò, tutto chiuso nell’arme;
e, palleggiando le acute zagaglie, moveva pel campo,
tutti esortando alla pugna, la zuffa crudele eccitando.
Quelli si volsero allora, e fecero fronte agli Achivi;
e, d’altro canto, gli Achivi piú salde serrar le falangi.
Agamennone avanza ancora, e uccide i figli di Antenore. Ma uno di questi lo ferisce al braccio, e Agamenonne deve ad un certo punto ritirarsi e tornare alle navi.

E s’appiccò la pugna, stette uomo contro uomo; ed irruppe
primo Agamènnone: ch’egli voleva esser primo alla lotta.
Ditemi adesso. Muse che avete dimora in Olimpo,
chi mosse primo contro l’Atríde signore di genti,
vuoi dei Troiani, vuoi dei celebri loro alleati.
Ifidamante, figlio d’Antènore, fu, grande e forte,
ch’era cresciuto in Tracia feconda, nutrice di greggi.
Sotto il suo tetto cresciuto l’avea, ch’era piccolo tanto,
l’avo materno, Cissa, figliuolo di Tèano bella;
e poi ch’ebbe raggiunta la gloria degli anni fiorenti,
qui lo trattenne ancora, gli diede in isposa la figlia.
Ma come ebbe sposato, udí ch’eran giunti gli Achivi;
e il talamo lasciò, parti via con dodici navi
che lo seguíano. Lasciò poi le rapide navi a Percòte,
ed ei pedone giunse sottesse le mura di Troia.
Ed or moveva contro l’Atríde Agamènnone; e quando
erano già vicini, movendosi l’un contro l’altro,
sbagliò l’Atríde il colpo, da un lato sviandosi l’asta.
Ifidamante il colpo vibrò sotto il cintolo, al basso
della corazza, e insiste sul colpo col braccio gagliardo:
né traversò la cintura smagliante, ché pria su l’argento
indietro si piegò, come fosse di piombo, la punta.
E l’afferrò, la tirò di forza Agamènnone prode;
e sovra lui piombando, che parve un leone, di mano
glie la strappò; poi, sul collo vibrando la spada, l’uccise.
Cosí quei cadde, giacque supino in un sonno di bronzo,
per la sua patria pugnando, lontan dalla fida sua sposa,
ond’ei gioia non ebbe, poiché n’ebbe offerti gran doni:
prima ne die’ cento buoi, poi mille promise di dare
pecore insieme e buoi, che avea senza numero ai paschi.
Dunque, la vita, qui gli tolse Agamènnone Atríde,
e l’armi belle sue fra le turbe portò degli Achivi.
Ecco, e lo scorse Coóne, preclaro fra gli uomini tutti,
ch’era fratello maggiore d’Antènore; e doglia crudele
scese a velargli lo sguardo, vedendo il fratello caduto.
Non visto, con la lancia si fe’ d’Agamènnone a fianco,
e a mezzo gli colpí, sotto il gómito, il braccio; e fuor fuori
passò dall’altra parte la punta dell’asta lucente.
L’Atríde, re di genti, fu allora da un brivido invaso.
Però, neppur cosí desiste’ dalla zuffa: la lancia
strinse, indurita al soffio dei venti, e balzò su Coóne.
Traeva questi, a un pie’ ghermito, il germano fratello
Ifidamante; e tutti chiamava, gridando, i piú prodi;
ma mentre lo traea fra le turbe, di sotto allo scudo
umbilicato, lo colse l’Atríde con l’asta, e l’uccise.
E fattosi su lui, la testa gli svelse, sul corpo
d’Ifidamante. Cosí d’Antenore i figli, per mano
cadder del figlio d’Atrèo, discesero ai regni d’Averno.
E ad aggirarsi poi seguitò fra le turbe guerriere,
lancia vibrando e spada, scagliando immani macigni,
sinché dalla ferita sgorgava ancor tepido il sangue.
Ma quando poi stagnò la piaga, né il sangue piú corse,
spasimi acuti allora pervasero il cuore all’Atríde.
Come una donna, quando s’approssima il parto, trafigge
l’aguzzo atroce dardo cui vibran le Ilizie dogliose,
d’Era le figlie, ch’anno retaggio di fieri travagli:
fiere cosí dell’Atride pervasero il cuore le doglie.
Balzò sovresso il cocchio, e diede comando all’auriga
che lo portasse verso le navi: ché troppo era affranto.
E ai Dànai quindi vòlto, levava acutissimo grido:
«Amici, che gli Argivi reggete e guidate alla pugna,
or proteggete voi le navi che solcano il mare,
dalla funesta battaglia, perché non concesse il Croníde
che io da mane a sera potessi pugnar coi Troiani».
Cosí disse. Sferzò l’auriga i chiomati cavalli
verso le còncave navi; né furono quelli ritrosi;
ma, cospargendo il petto di spuma, le gambe di polve,
dalla battaglia lungi recarono il sire doglioso.
Ettore vede che Agamennone si ritira, ed eccita i Troiani alla lotta. Ulisse e Diomede resistono al contrattacco troiano, e battendosi valorosamente riportano lo scontro in parità.

E come Ettore vide l’Atríde ritrarsi in disparte,
si volse, alta levando la voce, ai Troiani ed ai Lici:
«Troiani, Lici, e voi valenti a pugnar corpo a corpo
Dàrdani, uomini siate, pensate a combatter da prodi.
L’uomo piú prode di tutti via fugge; e gran gloria consente
Giove Croníde a me: su via, dunque, spingete i cavalli
contro i gagliardi Dànai: ché vanto ben grande ne avrete».
Con tali detti eccitò la furia d’ognuno e la forza.
E come un cacciatore, talor su cignale selvaggio
o su leone aizza i cani dai candidi denti,
cosí contro gli Achei spingea gli animosi Troiani
Ettore figlio di Priamo, che Marte omicida sembrava.
Ed egli stesso, gesta pensando mirabili, irruppe
nella battaglia fra i primi, che parve furente procella,
quando sconvolge, piombando dall’ètere, il livido mare.
E qui, dunque, chi primo, chi ultimo tolse di vita
Ettore figlio di Priamo, cui Giove concesse la gloria?
Asèo prima d’ogni altro, poi caddero Opíte e Autonòo,
e Dòlope, di Cliti figliuolo, ed Ofeltio e Agelao,
ed Oro, ed Ipponòo bramoso di pugne, ed Esimno.
Furono questi i duci dei Dànai che uccise; e una turba
poi, come quando Zefiro spazza le nubi cui Noto
candido accumulò, con l’urto di fiera procella,
e gonfio l’alto flutto si rotola, e sopra la schiuma
si sparge, per la furia, che qua, che là fischia, del vento.
D’Ettore sotto i colpi, cosí cadean fitte le teste.
E qui sterminio grande sarebbe seguito, qui mali
irreparabili, e ai legni sarebber fuggiti gli Achivi,
se non volgeva Ulisse cosí la parola al Tidíde:
«O Dïomede, che avviene? Scordati ci siam del valore?
Vien qui, piàntati a me vicino, o mio caro! Se mai
Ettore prender dovesse le navi, che scorno sarebbe!».
E Dïomede gagliardo rispose con queste parole:
«Ebbene, io sosterò, farò resistenza; ma poco
vantaggio aver potremo: ché Giove che i nugoli aduna
non vuol che nostro sia, bensí dei Troiani, il vantaggio».
Disse, e dal carro stese giú a terra riverso Timbrèo,
ché lo colpí con la lancia sottessa la mamma sinistra;
e Ulisse il suo scudiere divino, Molíone, trafisse.
Messili fuor dalla pugna, cosí li lasciarono. Ed essi,
piombando fra le turbe, mettevano tutti a tumulto,
come due fieri cinghiali se investono un branco di cani.
Così tornati indietro, struggeano i Troiani; e gli Achivi
fiato prendeano, che innanzi fuggivano ad Ettore divo.
Due guerrieri insigni qui presero poscia col carro,
i due figli del re di Pèrcote, Mèrope. L’arti
di profezia costui ben sapeva; né i figli voleva
che all’omicida guerra movessero; e furono sordi
quelli: ché loro le Parche sospinser di livida morte.
Il vibratore insigne di lancia figliuol di Tidèo,
l’alma e la vita ad essi rapi, depredò l’armi belle.
E Ippòdamo e Iperòco uccise il figliuol di Laerte.
Qui la battaglia alla pari fra loro tendeva il Croníde,
che contemplava dall’Ida: colpíano, cadeano colpiti.
E con la lancia il Tidíde colpiva nell’anca Agastròfo,
figliuolo di Peone. Non ebbe a sé presso i cavalli,
l’eroe, si che fuggire potesse; e qui perse la vita,
ché li reggea lo scudiere lontani dal campo; ed a piedi
ei tra le prime file moveva, sinché cadde spento.
Diomede attacca Ettore, ma non gli fa nulla. Viene però ferito da Paride, che gli lancia una freccia sul piede.

Ma con l’acuto sguardo li vide, e balzò sopra loro
Ettore; e dietro a lui movean dei Troiani le schiere.
Lo vide, e abbrividi Dïomede campione di guerra,
e tali detti a Ulisse che gli era vicino rivolse:
«Ettore sopra noi rovina, quel fiero malanno:
saldi, su via, restiamo, teniamogli fronte a pie’ fermo».
Disse: e la lancia vibrò, scagliò, che gittava lunga ombra.
Né vano il colpo fu: lo colpí dove pose la mira,
al capo, in cima all’elmo; ma il bronzo respinto dal bronzo
fu, né raggiunse il bel volto, ché lungi lo tenne l’elmetto
con la visiera e i tre ciuffi, che Febo donato gli aveva.
Ettore presto lontano balzò, si mischiò con le turbe;
e stie’ sopra il ginocchio piombato, poggiato alla terra
con la man salda; e notte profonda gli còrse sugli occhi.
Ma poi, mentre il Tidíde correa dietro il volo dell’asta,
oltre le prime schiere, dov’erasi a terra confitta,
Ettore trasse il respiro di nuovo, e, balzato sul carro,
lo spinse fra le turbe, schivando la livida Parca.
Ma sopra lui, con l’asta balzò Dïomede, e gli disse:
«Anche una volta, o cane, tu schivi la morte! Il malanno
presso ti fu; ma di nuovo t’ha Febo salvato, a cui certo
preci tu levi, quando ti lanci fra il rombo dell’armi.
Pure, ti finirò, se cogliere ancóra ti posso,
se, per ventura, alcuno dei Numi vorrà favorirmi!
Per ora, piomberò sugli altri, in chiunque m’imbatta».
Disse; e spogliò dell’armi l’insigne figliuol di Peóne.
Ma d’Elena, la bella dal fulgido crine, lo sposo,
tese contro il Tidíde pastore di popoli, l’arco,
stando al riparo d’una colonna, sovressa la tomba
d’Ilo, di Dàrdano figlio, vetusto signore di genti.
Stava sfilando quegli dal petto d’Agàstrofo prode
la scintillante corazza, lo scudo dal braccio, e la salda
celata; ed ecco, tese i bracci Alessandro dall’arco,
e lo colpí, ché il dardo non vano gli usci dalle mani,
nel destro piede, al tarso. Fuor fuori passando la punta,
a terra si ficcò. Levando alto riso di gioia,
fuor dall’agguato quegli proruppe, e, vantandosi, disse:
«Colpito sei, ché vana la freccia non fu: giú nel ventre
preso cosí t’avessi, t’avessi levata la vita!
Tratto un respiro avrebber tra i loro malanni i Troiani,
che te paventan, come le capre belanti, un leone».
E a lui, senza sgomento, rispose cosí Dïomede:
«Arciere, uomo da nulla, che bello d’un arco ti fai,
bel vagheggino, se tu ti provassi con me faccia a faccia,
non ti darebbero aiuto né l’arco né i molti tuoi dardi.
Tanto, perché tu m’hai scalfito nel tarso, ti vanti?
lo me ne curo come se un bimbo colpíto m’avesse,
senza criterio, o una donna: ché vana è la freccia d’un uomo
fiacco ed imbelle. Ben altro, per poco che imbrocchi, il mio dardo
m’esce di mano; e chi colpí, leva presto di vita,
la donna sua si deve graffiare, nel lutto, le guance,
orfani i figli; ed esso, col sangue arrossando la terra,
imputridisce; e gli vanno piú corvi che femmine, attorno».
Diomede si ritira; Ulisse rimane a combattere da solo. Soco lo ferisce, ma Ulisse lo uccide; i Troiani si lanciano su di lui, ma Arrivano Menelao e Aiace a soccorrerlo

Cosí diceva. E Ulisse, venutogli presso, dinanzi
gli stette; e dietro a lui sedendo, la freccia il Tidíde
dal piede estrasse. Corse le carni uno spasimo orrendo.
Ond’ei balzò sul cocchio, rivolse comando all’auriga
che lo recasse verso le navi: ché troppo era affranto.
E restò solo Ulisse, maestro di lancia, né presso
piú degli Achivi alcuno: fuggiti eran tutti sgomenti.
E questo allora disse, crucciato, al magnanimo cuore:
«Povero me, che farò? Gran malanno sarà, se sgomento
fuggo dinanzi alla turba; ma peggio sarà, se qui solo
mi coglieranno, or che in fuga sbandò gli altri Dànai Giove.
Ma perché mai cosí va l’animo mio dubitando?
Bene lo so, che i vili si soglion sottrarre alla guerra;
ma chi nelle battaglia vuole esser tra i primi, conviene
che resti saldo, o ch’egli colpisca, o rimanga colpito».
Mentre volgeva cosí, nella mente e nel cuore i pensieri,
ecco, piombar le schiere su lui dei gagliardi Troiani,
e in mezzo a lor lo chiusero; e chiusero il loro malanno.
Come allorquando e cani s’avventano e giovani in fiore
contro un cinghiale; e quello dal fitto del bosco prorompe,
tra le mandibole curve le candide zanne arrotando:
impeto intorno gli fanno, si leva stridore di denti,
ma, per tremendo che sia, lo aspettano alcuni a pie’ fermo:
similemente i Troiani premevano Ulisse divino.
Ed egli, prima uccise Dïòpite immune da menda,
ché lo ferí, su la spalla scagliandogli l’asta affilata:
súbito dopo, Toóne con Ènnomo tolse di vita,
e poi Chersidamante, dal carro balzandolo a terra:
che gli ferí l’ombelico, di sotto allo scudo, con l’asta,
e quegli a terra cadde, ghermí con la mano la polve.
Qui lo lasciò; poi ferí con l’asta il figliuolo d’Ippàso,
Càropo, ch’era fratello carnale del nobile Soco.
E Soco, ai Numi pari, accorse per farne vendetta,
e, a lui fattosi presso, cosí la parola gli volse:
«Ulisse, eroe che mai non ti sazi di frodi e d’imprese,
vanto oggi avrai che uccisi tu avrai due figliuoli d’Ippàso,
due tali prodi tolti di vita e spogliati dell’armi,
oppur, dalla mia lancia trafitto, soccomber dovrai».
Poi ch’ebbe detto cosí, lo colpí nello scudo rotondo.
Attraversò lo scudo gagliardo la solida lancia,
si conficcò nell’usbergo fulgente di vario lavoro.
e tutto un brano via della pelle gli svelse dal fianco;
ma non permise Atena che a fondo, nei visceri entrasse.
E ben lo intese Ulisse, che il colpo non era mortale,
e si ritrasse, e a Soco cosí la parola rivolse:
«Misero te, ché adesso ti coglie l’estrema rovina!
Tu dal pugnar coi Troiani m’hai fatto desistere, è vero;
ma qui ti dico io, la Morte e la livida Parca
oggi ti stanno sopra; ché spento da me, tu darai,
a me la gloria, ad Ade che negri ha i corsieri, lo spirto”.
Cosí diceva; e l’altro si volse, si diede alla fuga.
E sul fuggiasco, Ulisse scagliò, contro il dorso, la lancia,
e lo colpi fra le spalle, fuor fuori passandogli il petto.
Piombò rombando, e Ulisse levò, nel trionfo, la voce:
«Soco, figliuolo d’Ippàso, guerrier che domavi cavalli,
presto la morte, che tu non valesti a schivare, t’aggiunse.
Misero, e né tuo padre potrà, né la nobile madre
chiuderti gli occhi! Rapaci verranno a scavarteli i corvi,
a te d’intorno stretti col battito fitto dell’ali.
A me nobile tomba daranno, s’io muoio, gli Atridi».
Detto cosi, la lancia che Soco gli aveva scagliata,
fuori dal fianco strappò, dallo scudo rotondo; ed il sangue
spicciò, com’ei l’estrasse, gli vennero meno le forze.
Videro appena, i Troiani magnanimi, il sangue d’Ulisse,
e tutti, a schiera a schiera, gridando gli furono sopra.
Ed ei si trasse indietro, chiamando a grandi urli i compagni.
Tre volte egli gridò, per quanta n’avea nella gola,
tre volte il grido udi Menelao, prediletto di Marte:
presso ad Aiace si fece, gli volse cosí la parola:
«O Telamònio Aiace, divino pastore di genti,
un grido è giunto a me d’Ulisse dal cuore tenace:
temo che solo ei sia, che l’abbiano Spinto i Troiani
lungi dai nostri, nell’aspra battaglia, e lo incalzino tutti.
Dunque, su via, fra le turbe moviamo, ché questo è pel meglio:
temo che solo cosí non debba venir sopraffatto,
benché sia prode: e grande pei Dànai sarebbe il cordoglio».
Disse, e balzò: con lui mosse anche quel divo guerriero.
E Ulisse caro ai Numi trovarono, e intorno i Troiani,
che l’incalzavano, come rossastri sciacalli sui monti
sopra cornigero cervo ferito, che un uomo col dardo
dell’arco suo trafisse; ma quello coi piedi veloci
fuggì, finché gli resse, pur tepido, il sangue, e il ginocchio;
ma quando poi la forza del rapido dardo lo prostra,
in mezzo ai monti, strazio ne fanno i rapaci sciacalli,
entro un’ombrosa selva; poi mandano i Numi un leone
predone; e gli sciacalli s’involano, e quei lo divora.
Cosí d’intorno a Ulisse guerriero dall’animo scaltro
molti e valenti Troiani facevano ressa; e l’eroe
lungi tenea, vibrando la lancia, il suo giorno fatale.
E presso venne Aiace, che simile a torre uno scudo
reggeva, e quivi stette. Fuggirono tutti i Troiani,
chi qua chi là. Menelao pel braccio l’eroe dalla turba
trasse, finché lo scudiere condusse vicini i cavalli;
e sui Troiani Aiace piombando, uccideva Doríclo,
ch’era di Priamo figlio bastardo, e feríva Pandòco,
e poi Lisandro, e poi Piràso feríva e Pilarte.
Aiace uccide molti Troiani. Paride ferisce Macaone, il medico degli Achei, che viene subito soccorso e con Nestore torna alle navi.

Come talora un fiume rigonfio precipita al piano,
che liquefatte nevi trascina dai monti, e dal cielo
sempre l’ingrossa la pioggia, molte aride querce rapina,
e molti pini, e melma rovescia in gran copia nel mare:
imperversando cosí, nel piano il bellissimo Aiace
fanti struggeva e cavalli. Né Ettore n’ebbe sentore,
poi che nel manco lato del campo egli allor combatteva,
presso le rive del fiume Scamandro, ove allora piú fitte
spente cadevan le genti, sorgeva perpetuo grido
d’intorno a Idomenèo gagliardo ed a Nèstore grande.
Ettore s’azzuffava con essi, e compieva prodigi
con la sua lancia, col carro, struggea dei garzoni le schiere.
Pur, non avrebbero il campo ceduto gli Achei valorosi,
se d’Elena, la bella dal fulgido crine, lo sposo,
fuor non ponea Macaóne, di genti pastor, dalla zuffa,
ché lo colpí con un dardo trisulco su l’omero destro.
Troppo temevan per lui gli Achivi gagliardi guerrieri,
ch’ei non cadesse spento, nel vario cimento di guerra.
E tosto Idomenèo parlò, disse a Nèstore divo:
«Nèstore, figlio di Nèleo, gran vanto di tutti gli Achivi,
sali, su via, sul tuo carro, con te salga pur Macaóne,
e, piú veloce che puoi, dirigi i cavalli a le navi:
ché vale quanto molti da solo un medico esperto,
che dardi estrae, che piaghe lenisce coi farmachi succhi».
Disse cosí; né ritroso fu Nèstore, il sire gerenio:
súbito sopra il cocchio sali, presso a lui Macaóne
venne, d’Asclepio figlio, del medico immune da menda:
vibrò sopra i cavalli la sferza; e volarono quelli
verso le concavi navi: ché grata era ad essi la via.
Aiace combatte da solo con i Troiani, ma rischia di essere sopraffatto

Ma Cebrióne intanto, che ad Ettore stava vicino,
visti a scompiglio i Troiani, gli volse cosí la parola:
“Ettore, entrambi noi fra i Dànai stiam qui combattendo,
del campo al lato estremo, fra l’orrido suon della zuffa;
ma van sossopra gli altri Troiani, cavalli e guerrieri,
ché li sconvolge Aiace, figliuol di Telàmone: bene
lo riconosco al grande palvese ch’egli ha su le spalle.
Presto, cavalli e carri spingiamo anche noi, dove fieri
piú, cavalieri e fanti s’accozzano in fiera battaglia,
gli uni facendo strage degli altri, né il grido mai cessa».
Detto cosí, vibrò sui cavalli dal lucido crine
la sibilante sferza. I colpi sentirono quelli,
ed il veloce carro framezzo ai Troiani e agli Achivi
trassero, calpestando cadaveri e cocchi; e di sangue
era macchiato l’asse di sotto, e del carro le sponde:
ché dei cavalli dall’unghia volavano spruzzi, e dai cerchi
delle volanti ruote. Correva ei, d’irromper bramoso
sopra le turbe, dentro, cacciarsi e spezzarle; e scompiglio
tristo gittò fra i Dànai, ché posa alla lancia non dava.
Ei percorreva dunque le schiere degli altri guerrieri,
l’asta vibrando, la lancia, scagliando immani macigni:
però del Telamonio, d’Aiace, schivava l’incontro:
ché s’adirava Giove quando egli affrontava un piú forte.
E Giove suscitò sgomento nel cuore d’Aiace.
Stie’ sbigottito, gittò su le spalle lo scudo di cuoio,
e si ritrasse, girando lo sguardo: pareva una fiera,
passo alternando a passo, pian piano, volgendosi indietro.
Come leone fulvo, lontan da la stalla dei bovi
scaccian sovente a furia le genti dei campi ed i cani,
né gli permetton che faccia bottino del grosso dei bovi,
svegli restando tutta la notte; e bramoso di carne
quello si slancia; ma nulla consegue, ché fitte zagaglie
contro gli vengon lanciate da mani gagliarde, e fastelli
di legna ardenti, ch’egli, per quanto feroce, paventa:
poi si ritira, all’alba, lontano, e tristezza lo invade:
tristo del pari, Aiace piegava lontan dai Troiani,
contro sua voglia, ché molto temea per le navi d’Acaia.
Come talvolta un ciuco testardo, nei pressi d’un campo,
ruba la mano ai ragazzi: per quanto gli rompan bastoni
sopra la schiena, v’entra, distrugge la mèsse profonda:
giú coi bastoni, i ragazzi gli dánno, ma poca è la forza,
e via, quando è già sazio di cibo, lo traggono a stento:
cosí sopra il possente figliuol di Telàmone, Aiace,
in gran folla i Troiani rompeano coi loro alleati,
in mezzo al grande scudo vibrando le acute zagaglie.
E Aiace, ora la mente volgeva alla furia di guerra,
e si voltava, di nuovo frenava le schiere incalzanti
degl’inimici; poi si dava di nuovo alla fuga,
e tutti quanti lungi tenea dalle rapide navi,
e fra i Troiani e gli Achivi piantato, pugnava da solo.
E le zagaglie vibrate dal pugno d’audaci guerrieri,
queste, lanciate a gran volo, restavan confitte allo scudo,
e quelle a mezzo, prima di giunger le bianche sue membra,
cadeano a terra, invano bramose di suggere sangue.
Dunque, mentre era cosí vessato dai colpi frequenti,
Eurípilo lo vide, d’Evèmone il fulgido figlio,
e stette presso a lui, vibrò contro Apíone, figlio
di Faüsía, pastore di genti, la fulgida lancia
sotto il diaframma, nel fegato; e meno gli venner le gambe.
Eurípilo su lui balzò, ché predargli voleva
l’armi di dosso; ma come lo vide il divino Alessandro,
ch’egli predava l’armi d’Apísone, súbito l’arco
contro lui tese, e un dardo gl’infisse nel femore destro.
La canna si spezzò, gran doglia pervase la coscia:
ei fra le schiere indietro si trasse, schivando la morte,
e ai Dànai si volse, levando un altissimo grido:
«Amici, che gli Argivi reggete e guidate alla pugna,
state, volgete la fronte, tenete lontano da Aiace
il dí fatale: ché sopraffatto è dai colpí, né credo
che dalla guerra atroce scampare potrà: su’, correte,
state d’intorno al grande figliuol di Telàmone, Aiace!».
Eurípilo feríto diceva cosi. Presso lui
chini, poggiati al petto gli scudi, protese le lancie,
stettero alcuni; e Aiace fra lor si ritrasse; e ristette
appena fu tra i suoi, si volse di nuovo ai nemici.
Achille vede Nestore che porta un ferito sul carro, e manda Patroclo ad informarsi

Simili a fuoco che avvampi, lottavano questi guerrieri;
e le cavalle Nelèe recavano Nèstore lungi
dalla battaglia, e seco Macàone, pastore di genti.
Ecco, e di loro Achille veloce divino s’accorse,
che se ne stava presso la poppa del grande naviglio,
a contemplar la guerra penosa, la fuga dogliosa.
E súbito chiamò con un grido, da presso alla nave,
Pàtroclo, il fido suo. Quegli udí dalla tenda, ed accorse:
Marte pareva; e questa l’origine fu del suo danno.
Prese a parlare primo il prode figliuol di Menezio:
«Perché mi chiami, Achille? Che cosa t’occorre ch’io faccia?”.
E Achille pie’ veloce rispose con queste parole:
«O di Menezio figlio divino, a me tanto diletto,
or si, che ai miei ginocchi dovranno cadere gli Achivi,
e scongiurarmi: ché piú resister non possono ai danni!
Pàtroclo caro, va’, tu, dunque, ed a Nèstore chiedi
l’uomo chi sia ch’ei ferito conduce lontan dalla pugna.
Di dietro , in tutto in tutto somiglia al figliuolo d’Asclepio,
a Macaóne: in viso vederlo però non potei,
tanto veloci innanzi mi sono passati i cavalli».
Cosí diceva Achille; né sordo fu Pàtroclo ai detti,
e mosse a casa, lungo le tende e le navi d’Acaia.
Patroclo vede che il ferito è Macaone; poi Nestore gli riferisce che gli Achei rischiano di essere sconfitti, e sarebbe già di sollievo se almeno lui, Patroclo, potesse venire a combattere facendosi passare per Achille, in modo da spaventare i Troiani
Or, poi che del Nelide raggiunsero quelli la tenda,
scesero giú dal carro sovressa la terra feconda.
Eurimedonte scudiere disciolse dal carro i cavalli
del vecchio sire; e quelli, lunghessa la spiaggia del mare,
stando alla brezza, il sudore dei manti asciugavano. Entrati
sotto la tenda, gli eroi sederono sopra gli scanni,
e un beveraggio la donna dai riccioli belli, Ecamède
per essi preparò. D’Arsinoe figlia era quella:
l’ebbe da Tènedo, quando la prese il Pelíde, il vegliardo:
la diêro a lui gli Achei, perché tutti vinceva di senno.
Questa dinanzi a loro la tavola prima depose,
ben levigata, bella, coi piedi di bronzo, e un canestro
sopra, di bronzo; e in questo, cipolle, che aiutano a bere,
e chiaro miele, e, accanto, farina di sacro frumento,
ed una coppa che aveva portata da casa il vegliardo,
tutta di borchie d’oro cospersa, bellissima; e aveva
quattro anse; e due colombe beccavano intorno a ciascuna,
d’oro, da entrambi i lati: di sotto era un doppio sostegno.
Altri, quando era colma, l’avrebbe pur mossa a fatica:
Nèstore, senza fatica l’alzava, benché fosse vecchio.
Il beveraggio in quella compose la donna divina:
vino di Pramno v’infuse, con una grattugia di rame
cacio grattò di capra, cosperse di bianca farina;
e poi che il beveraggio fu pronto, lo porse agli eroi.
E quando ebbero quelli sedata la sete e l’arsura,
scambiando uno con l’altro parole, pigliavan conforto.
Ed ecco, sulla soglia stie’ Pàtroclo, e un Nume pareva.
Come lo vide il vecchio, balzò su dal lucido trono.
e lo condusse per mano, invito gli fe’ che sedesse.
Ma rifiutò l’invito di Nèstore, Pàtroclo, e disse:
«Tempo non ho di sedere, non posso ubbidirti, o vegliardo,
stirpe di Giove: ho troppo rispetto e timore d’Achille,
che m’inviò per vedere chi fosse quest’uomo ferito.
Ed è, lo veggo bene da me, Macaóne sovrano.
Ora, di nuovo andrò, per recare il messaggio ad Achille:
tu sai com’è tremendo quell’uomo, o divino vegliardo:
fa’ presto ad incolparti, se pure sei scevro di colpa».
Nèstore a lui cosí, cavaliere gerenio, rispose:
«E come, dunque, Achille ha tanta pietà degli Achivi,
di chi cadde prostrato dai colpí? Neppure un’idea
egli ha, di quanto lutto funesta l’esercito: ch’ora
giacciono sopra le navi, colpiti, trafitti, i piú forti.
Giace colpito il prò’ Dïomede, figliuol di Tidèo,
giaccion feríti, Ulisse, maestro di lancia, e l’Atríde:
ferito nella coscia da un dardo, anche Euripilo giace;
ed ho condotto or ora quest’altro lontan dalla zuffa,
ché un dardo lo colpí, lanciato dall’arco. Ed Achille,
prode com’è, non si cura dei Dànai, pietà non ne sente.
Aspetta forse l’ora che sopra la spiaggia, i navigli
ardano in onta agli Argivi, distrutti dal fuoco nemico,
e noi, l’un dopo l’altro, cadiamo trafitti? Ché intatta
la forza mia non è, come un giorno, nell’agili membra.
Deh!, se giovane io fossi, se intatta in me fosse la forza,
come nei di che surse contesa con quelli d’Elèa
per una preda di buoi, quando uccisi Itimóne gagliardo,
figliuolo d’Iperòco, che in Elide aveva soggiorno!
lo gli rapivo una mandra, d’ammenda; corse egli a difesa,
e li fra i primi cadde, colpíto dal mio giavellotto.
e giú piombò: sgomenta fuggí via la gente dei campi.
E raccogliemmo allora dai campi ricchissima preda:
di buoi cinquanta armenti, cinquanta mandre di porci,
con altrettante greggi di pecore e branchi di capre,
e poi, centocinquanta giumente di fulvido pelo,
tutte da razza, e molte avevano sotto i puledri.
E tutta questa preda spingemmo entro Pilo Nelèa,
giunti di notte alla rocca. Fu lieto nel cuore Nelèo,
ch’io, cosí giovine, avessi tal sorte trovata alla guerra;
poi, giunta l’alba, gli araldi chiamâr con le voci squillanti
quanti a riscatto aveano diritto dall’Èlide sacra.
Tutti a raccolta, dunque, venuti, i signori dei Pili,
facean le parti. E a molti dovevan compenso gli Epèi:
ché in Pilo noi che i danni patimmo, ben pochi eravamo:
ch’era negli anni avanti qui giunta a disfarci, la forza
d’Ercole; e tutti aveva distrutti quanti eran piú forti.
Dodici figli eravamo del puro guerriero Nelèo:
ero di questi io solo rimasto; e gli altri undici spenti.
Imbaldanziti per questo, gli Epèi loricati di bronzo,
con tenebrose trame, noi sempre coprivan d’ingiurie.
Dunque, un armento prese di bovi, ed un branco di capre,
trecento capi il vecchio trascelse coi loro pastori;
ché a lui gli Elèi divini dovevano grande compenso.
Dovean quattro cavalli da corsa, coi carri venuti
quivi alle gare: correr dovean per un tripode; e invece,
per sé li prese Augèa, signor delle genti d’Elèa,
e tristo rimandò dei perduti corsieri l’auriga.
Memore allora il vecchio di tanti soprusi, gran parte
prese per sé della preda, divise fra il popolo il resto:
tutta la comparti, ché privo nessun rimanesse.
Tutta la preda cosí dividemmo; e d’intorno alla rocca
celebravamo agli Dei sacrifizi; ma dopo tre giorni
giunsero tutti gli Elèi, gran masse di fanti e corsieri,
con furia grande; e insieme veniano i Molíoni con essi,
ch’eran tuttora fanciulli, tuttor della guerra inèsperti.
V’è la città di Triessa, che sorge su ripido colle,
lungi, sovresso l’Alfeo, di Pilo sabbiosa ai confini.
Mosser su questa, a campo, per brama d’averla distrutta.
Ma quando tutto il piano fu invaso, correndo, di notte,
Atena giunse a noi d’Olimpo, e ci disse d’armarci,
e radunò la gente di Pilo, che punto svogliata
non era, anzi era piena d’ardore guerresco. E Nelèo
a me non consenti che m’armassi, e i cavalli m’ascose:
ch’io, disse, ancora esperto non ero dell’arte di guerra.
Eppure, andar distinto potei fra la gente a cavallo,
anche cosí pedone: ché Atena guidava la zuffa.
C’è un fiume, il Minïèo, che l’acque precipita in mare
presso ad Arene; e quivi l’aurora divina attendemmo
coi cavalieri Pili: giungevano i fanti man mano.
Di qui, senza piú indugio, poiché cinti fummo dell’armi,
verso il meriggio, d’Alfèo giungemmo alla sacra corrente.
Qui, sacrifici offerti a Giove, il piú forte dei Numi,
e un toro al Dio che scuote la terra, ed un toro all’Alfèo,
ed alla Diva ch’à glauche le ciglia, un’intatta giovenca,
prendemmo il cibo, via nel campo, disposti per file;
e ci mettemmo, chiuso ciascuno nell’armi, a giacere
presso del fiume ai rivi. Frattanto, i magnanimi Epèi
stavano intorno alla rocca, bramosi d’averla distrutta,
quand’ecco, apparve ad essi un grande apparecchio di guerra:
ché quando il sole, tutto fulgente, movea su la terra.
preci ad Atena e a Giove levando, appiccammo la zuffa.
E appena cominciò la lotta fra Pili ed Epèi,
io primo uccisi un uomo, Mulío vibratore di lancia,
ed i corsieri gli tolsi dal solido zoccolo. Egli era
sposo d’Agàmeda bionda, la figlia maggiore d’Augèa,
che tanti farmachi quanti ne nutre la terra, sapeva.
Io lo colpii mentr’egli movea, con la lancia di bronzo.
Giú nella polvere cadde; ed io mi lanciai sul suo carro,
e fra le prime file proruppi. E fuggiron gli Epèi,
chi qua, chi là, quand’ebbero visto cadere un guerriero
dei cavalieri guida, che primo era ognor nelle zuffe.
Io sopra lor mi lanciai, che sembravo una negra procella,
e ben cinquanta carri predai: due guerrieri prostrati
da me, presso ogni carro, la polvere morser coi denti.
E d’Attoríone i figli, spenti anche, i Molíoni avrei,
se non li avesse allora salvati Posídone, il Nume,
che dalla zuffa lungi li trasse, nascosti di nebbia.
E qui Giove gran vanto concesse alle genti di Pilo:
ché tanto l’incalzammo traverso la vasta pianura,
d’uomini strage facendo, facendo bottino dell’armi,
sinché sovra Buprasio ferace di biade, e d’Olène
verso la rupe, i cavalli spingemmo, ove il colle d’Alisio
prende il suo nome: di qui distolse l’esercito Atena.
L’ultimo qui lasciai nemico trafitto; e gli Achei
via da Buprasio a Pilo guidarono i ratti corsieri,
gl’inni fra i Numi a Giove, fra gli uomini a Nèstore alzando.
Tal fui, se pure io fui, tra gli uomini. Invece il Pelíde
dal suo valore trae vantaggio solo esso. Ma credo
che assai pianger dovrà, quando vegga le schiere distrutte.
O caro, almeno a te, Menezio pur questo diceva,
quel giorno che da Ftia ti mandava a seguire l’Atríde,
e Ulisse divo, ed io, ch’entrambi eravamo presenti,
udimmo tutti, dentro la casa, com’egli ti disse.
Giunti alla casa, al lieto soggiorno eravam di Pelèo.
ché facevamo accolta di genti in Acaia ferace.
In questa casa, dunque, Menezio trovammo, l’eroe,
e te: vicino Achille pur t’era: ché il vecchio Pelèo
entro il recinto ardea della corte, al figliuolo di Crono
cosce di pingui giovenchi. Un’aurea coppa stringendo,
nitido vino spargeva sovresse le vittime ardenti:
presso al giovenco, voi badavate alla carne. Ed in quella
noi giungemmo al vestibolo. Achille, sorpreso, ci scorse,
per man ci prese, invito ci fece a sedere; e dinanzi
cibi ospitali ci pose, che sogliono agli uomini offrirsi.
E poi che fummo sazi di cibi e bevande, a parlare
io cominciai per primo, invito vi feci a seguirci.
Pieni di voglia entrambi voi foste: vi fecero i padri
mòniti molti: il vecchio Pelèo fe’ ricordo ad Achille
d’essere primo sempre, d’emergere sempre sugli altri;
e te, d’Àttore il figlio, Menezio, in tal guisa esortava:
«Per la sua stirpe Achille ti supera certo, o figliuolo:
maggiore sei tu d’anni, ma molto ei ti vince di forza.
Ma ben potrai tu dargli consigli ed acconce parole:
potrai guidarlo, ed egli dovrà, pel suo bene, seguirti».
Cosí diceva il vecchio; ma tu l’hai scordato. Ora, almeno,
cosí parla ad Achille guerriero, se mai voglia udirti:
chi sa, che tu, parlando, se un Nume t’assista, non possa
farlo convinto. Assai d’un amico può far la parola.
Ché s’egli pensa qualche divino responso schivare,
ch’abbia svelato a lui la madre da parte di Giove,
almeno mandi te, con te dei Mirmídoni venga
anche la gente, se possa brillare agli Achei qualche luce;
e l’armi anche a te dia, ché in guerra tu possa indossarle,
se, te credendo lui, si tengano lungi i Troiani
dalla battaglia, e gli Achei respiro da tanto travaglio
abbiano: basta un momento, per dare sollievo ai guerrieri;
e voi freschi, potrete respinger gli stanchi nemici,
sol con le grida, ad Ilio, lontan dalle navi e le tende».
Cosí diceva; e il cuore commosse di Pàtroclo in seno;
e verso Achille mosse, correndo lunghesse le navi.
Patroclo incontra Euripilo ferito e lo aiuta
Ma quando presso ai legni d’Ulisse progenie dei Numi
Pàtroclo giunse, ov’era la piazza, e tenevan giustizia
gli Achivi, e s’erano anche costrutti gli altari dei Numi,
quivi di contro a lui, feríto, anche Eurípilo giunse:
ferito era alla coscia, di freccia, d’Evèmone il figlio,
e zoppicando veniva dal campo. Scorreva il sudore
dal capo, dalle spalle, dagli omeri; e livido il sangue
dalla dogliosa ferita scorrea; ma la mente era salda.
Come lo vide, pietà n’ebbe il prode figliuol di Menezio,
e queste alate a lui parole, gemendo, rivolse:
«Deh, sciagurati noi, dei Dànai prenci e signori!
Dunque cosí dovevate, lontan dagli amici e la patria,
sfamare in Troia i cani veloci col candido grasso?
Ma questo dimmi, o stirpe di Superi, Eurípilo prode,
se ancor gli Achei potranno resistere ad Ettore immane,
o se dalle sue braccia saranno domati e distrutti».
E a lui questo il ferito figliuolo d’Evèmone disse:
“Pàtroclo, stirpe divina, piú scampo non c’è per gli Achivi,
ma sulle navi negre piegare dovranno sconfitti,
però che, quanti eroi piú saldi alla pugna eran prima,
giacciono tutti sopra le navi, colpiti o trafitti
sotto le mura di Troia; e cresce la furia nemica
sempre. Ora in salvo tu mi reca alla nave, dall’anca
toglimi il dardo, sopra, per tergere il livido sangue,
tepida l’acqua versa, cospargivi farmachi blandi,
miracolosi, che a te, raccontano, Achille insegnava,
ed egli da Chirone, dal giusto Centauro, li apprese.
Ché i due di mediche arti esperti fra noi, Macaóne
giace trafitto da un colpo, per quanto io mi so, nella tenda,
ed ha bisogno anch’egli d’un medico esperto; e nel campo
è Podalirio, e l’urto sostien degli ardenti Troiani».
E di Menezio il prode figliuolo cosí gli rispose:
«Come andran dunque le cose? Eurípilo eroe, che faremo?
Andrò, riferirò le parole ad Achille guerriero,
che a me Nèstore disse gerenio, difesa d’Acaia;
ma non mi sento, intanto, lasciarti cosí travagliato».
Disse; e alla tenda sua lo guidò, sostenendolo ai fianchi;
e lo scudiere il letto di pelli bovine gli stese.
Fattolo stendere qui, con la spada gli estrasse la freccia,
dalla feríta, acuta, dogliosa; e con l’acqua tepente
deterse il negro sangue, vi sparse un’amara radice,
che triturò con le mani, che il duolo placava, che fine
pose allo strazio; e il sangue cessò, la feríta fu chiusa.
Continua la battaglia e i Troiani avanzano verso il fossato posto a riparo delle navi achee (il fossato non durerà, perché Apollo e Poseidone lo distruggeranno, dopo che la guerra sarà finita). Polidamante consiglia ad Ettore di passarlo non con i carri, ma a piedi.
Cosí Pàtroclo, il prode figliuol di Menezio, curava
dentro le tende il ferito Euripílo. E Argivi e Troiani,
gli uni confusi con gli altri, pugnavano. E fato non era
che resistesse piú a lungo dei Dànai la fossa ed il muro
alto sovr’essa. A schermo dei legni l’avevano alzato,
ed una fossa intorno scavata, che fosse riparo
dell’opulente prede, dei rapidi legni; ma ostie
poi non offersero ai Numi: levato fu contro il volere
degl’immortali Celesti; né in piedi restò lungo tempo.
Sinché durò lo sdegno d’Achille, e fu Ettore vivo,
in piedi anche l’eccelsa muraglia restò degli Achivi;
ma quando spenti furon quanti eran piú prodi Troiani,
e degli Argivi, questi caduti, superstiti quelli,
e saccheggiata, dopo dieci anni, di Priamo la rocca,
e sopra i legni tornati gli Argivi alla patria diletta,
pensarono anche al modo d’abbattere il muro, due Numi,
Posídone ed Apollo, guidando la furia dei fiumi,
quanti dai monti d’Ida ne scorrono giú verso il mare,
e Reso, ed Eptapòro, e Rodio, e Carèso e Graníco,
ed Èsepo, divina fluente, e Scamandro e Simèta,
dov’eran tanti scudi di cuoio ed elmetti crestati
piombati al suolo, e insieme le stirpi d’eroi seminumi.
Febo le foci di tutti distolse, e sul muro le spinse
per nove giorni; e Giove continua pioggia versava,
perché piú presto il muro sommerso restasse nell’onde.
E il Dio stesso che scuote la terra, stringendo il tridente,
l’acque guidava; e i sostegni del muro, i macigni ed i tronchi
che avean posti a fatica gli Achivi, disperse nell’onde,
ed una piana fece lunghesso il veloce Ellesponto,
e, giú scomparso il muro, di nuovo celò con la sabbia
la vasta spiaggia, e i fiumi rivolse, a tornare nei letti
loro, dov’essi prima volgevano limpide l’acque.
Questo dovevano fare Posídone e Apolline un giorno.
Ma come un fuoco, allora, la zuffa e le grida guerresche
ardeano intorno al muro: rombavan le travi percosse
sopra le torri; e gli Achei, dalla sferza di Giove domati,
presso le concave navi restavano chiusi e addensati,
ch’Ettore troppo temevan, l’artefice fiero di fuga.
Ed ei, come già prima, pugnava, e sembrava procella.
E come quando in mezzo fra i cani e fra gli uomini in caccia,
fiero della sua forza, s’aggira un cinghiale o un leone,
e quelli l’uno all’altro si stringono, a foggia di torre,
fronte gli fanno, e contro gli lancian, con mano gagliarda
fitte saette: alla fiera non trema il magnanimo cuore,
non si sgomenta, e la sua prodezza l’adduce alla morte:
spesso si volge e tenta l’assalto alle file nemiche;
dove si volge, la schiera degli uomini cede: del pari
Ettore in mezzo alle turbe moveva, eccitava i compagni
a traversar la fossa. Ma i suoi pie’ veloci cavalli,
far non ardivano il salto; ma fermi, con alti nitriti,
stavano all’orlo estremo: ché troppo l’amplissima fossa
li sgomentava: ché facil non era varcarla d’un balzo,
né traversarla; ché tutto d’intorno, da un lato e dall’altro,
sorgevano scoscese le ripe, e munite di pali
aguzzi: ivi confitti li avevano i figli d’Acaia,
spessi ed immani, perché respingesser le genti nemiche.
Qui mal poteva un cavallo, traendo il volubile carro,
oltre balzare: tentarlo potevano solo i pedoni.
Polidamante prode, cosí disse ad Ettore allora:
“Ettore, e tutti voi che guidate Troiani e alleati,
stoltezza è che i cavalli si spingan traverso la fossa,
è malagevole troppo, varcarla; e vi sono confitti
aguzzi pali, e intorno v’eressero un muro gli Achivi.
Possibile non è discendere al fondo, e coi carri
pugnare: in quella stretta, saremmo di certo distrutti.
Se il danno lor disegna, se addotti li vuole a sterminio
Giove che tuona dall’alto, se vuol favorire i Troiani,
io certo bramerei che súbito questo avvenisse,
che, senza gloria, lungi morissero d’Argo gli Achivi;
ma se volgesser la fronte, se ardesse di nuovo la pugna,
e dalle navi respinti noi fossimo giú nella fossa,
neppure uno di noi, se gli Achei c’inseguissero in fuga,
tornar potrebbe indietro, per dar la notizia ai Troiani.
Ma su, come io consiglio, cosí tutti quanti facciamo:
tengan fermi gli aurighi sull’orlo del fosso i cavalli;
e noi tutti, ben chiusi nell’armi, moviamo pedoni,
Ettore tutti seguiamo, serrati in falange; e gli Achivi
non reggeranno, se il laccio di morte già stretto è per essi.
Tale di Polidamante fu il mònito; e ad Ettore piacque.
Ettore ascolta il consiglio di non attraversare con i carri, e forma cinque gruppi che attraversano a piedi il fossato. Solo Asio tenta di attraversare con il carro. Gli Achei si difendono strenuamente; Polipete e Leonte fanno strage di Troiani

Súbito giú dal carro balzò, tutto chiuso nell’armi;
né piú gli altri Troiani rimaser sui carri addensati,
ma giú saltaron tutti, com’ebber veduto il divino
Ettore; ed affidò ciascuno i cavalli a l’auriga,
ché li tenessero in fila, disposti su l’orlo del fosso;
e, separati, poi, da sé disponendosi a schiere,
formaron cinque gruppi, seguendo ciascuno il suo duce.
Questi or, con Ettore, e Polidamante, guerrier senza macchia,
ivano, i piú valorosi, i piú numerosi e bramosi
di far breccia nel muro, pugnar presso i concavi legni;
e li seguiva terzo Cebrione: ché a guardia dei carri
Ettore aveva un altro lasciato, di lui men valente.
Paride l’altro gruppo guidava, e Agenore e Alcàto;
Eleno il terzo, e seco Dëífobo, simile ai Numi,
figli di Priamo entrambi. Con loro Asio andava, l’eroe
Asio, d’Irtaco figlio, che avevano addotto i cavalli
grandi, di crine ardente, dai rivi del fiume Sellento.
Quelli del quarto gruppo seguivano il prode figliuolo
d’Anchise, Enea: due figli d’Antènore andavano seco,
Archiloco, Acamante, ben pratici d’ogni battaglia.
E Sarpedonte infine, guidava gl’insigni alleati,
che seco Asteropèo fortissimo e Glauco prese,
ché questi erano a lui sembrati fra tutti i piú prodi,
dopo di sé: ch’ei, pure fra tutti i piú prodi, era insigne.
Ora, poi che gli scudi di cuoio appressar gli uni agli altri,
mossero contro i Dànai, furenti, e pensaron che quelli
non reggerebbero, e in fuga cadrebber sui neri navigli.
Qui tutti quanti i Troiani, coi celebri loro alleati,
s’attennero al consiglio di Polidamante. Solo Asio,
d’Irtaco figlio, re di genti, lasciare non volle
sovra la sponda, all’auriga, che qui li reggesse, i cavalli,
ma, sovra il carro, contro si spinse alle rapide navi.
Stolto! Ché non doveva sfuggire alle Parche maligne,
né dalle navi, pompa facendo del carro e i cavalli,
tornare ancóra ad Ilio battuta dai venti: ché prima
sopra gli fu, lo avvolse la Parca dall’orrido nome,
d’Idomenèo con la lancia, del figlio di Déucali prode.
A manca ei s’era spinto dei legni, laddove gli Achivi
con i cavalli ed i carri tornare solevan dal campo.
Asio qui, dunque, aveva sospinti i cavalli ed il carro;
né della porta serrate le imposte trovò, né la sbarra:
v’erano genti, a tenerle dischiuse, se qualche compagno,
dalla battaglia fuggiasco, salvassero presso le navi.
Quivi i cavalli sospinse, furenti; e con alto clamore
dietro gli furono i suoi: credevan che reggere all’urto
piú non potrebbero, e in fuga cadrebber gli Achei su le navi.
Stolti! Ché sopra le porte trovaron due prodi campioni,
figli superbi dei Lapíti maestri di lancia:
l’uno, Polípete, prode guerrier, di Pirítoo figlio,
l’altro Leonte, a Marte, sterminio degli uomini, uguale.
Or bene, questi due, dinanzi all’altissima porta,
stavano, come sui monti due querce dal capo sublime,
che giorno e notte all’urto resiston dei venti e le piogge,
abbarbicate al suolo con grosse radici profonde.
Cosí quei due, fidando nel saldo vigor delle braccia,
il grande Asio attendevano qui; né l’invase sgomento.
E quelli, contro il muro saldissimo, l’aride pelli
levando alte sui capi, movevan con grande frastuono,
dintorno ad Asio re, dintorno a Iamèno, ad Oreste,
ad Adamante, d’Asio figliuolo, a Toòne, a Enomào.
A lungo i due, restando pur dentro, eccitavan gli Achei,
che dalle navi tenessero lunge i nemici; ma quando
videro poi ché i Troiani piombavano già sopra il muro,
e i Dànai, alte levando le grida, fuggíano sgomenti,
fuori balzati entrambi, pugnarono innanzi alle porte,
simili a due cinghiali selvaggi, che attendon fra i monti
la furia ed il frastuono che avanza di cani e di genti,
quindi si lanciano obliqui, d’intorno spezzando la selva,
dalle radici sbarbando le piante; e stridore di denti
suona, sinché con un colpo qualcuno di vita li privi.
Similemente, il bronzo fulgente squillava, percosso
sopra i lor petti: due fieri pugnavano, in sé confidando,
e nei compagni loro, che stavano in alto sul muro.
Giú dalle solide torri scagliavano quelli macigni,
ché difendevan sé stessi, le tende e le rapide navi;
e a terra i sassi giú piombavano, come la neve
quando gagliardo vento, squassando le nuvole ombrose,
fitta la spande giú, sovressa la terra feconda:
fitti cosí dalle man’ degli Achei, dalle man’ dei Troiani,
massi volavano; e secco rimbombo mandavano gli elmi,
gli umbilicati scudi, percossi dai grandi macigni.
E un lagno allora alzò, le man’ si batté su le cosce
Asio, d’Ìrtaco figlio, proruppe in parole di sdegno:
«O Giove padre, dunque, tu pure sei vago d’inganni,
solo d’inganni? Io non mai credevo che i prodi d’Acaia
regger potrebbero al nostro furore, all’indòmito braccio;
ed ecco, or, come vespe dall’agil corsale, come api
ch’abbian costrutto il nido sovressa una strada rocciosa,
non abbandonano mai la concava casa, ma ferme
lottano, contro chi vuole predarle, a difesa dei figli:
cosĭ, benché due soli, non lasciano quelli le porte,
se pria strage di noi non facciano, o cadano spenti».
Cosí disse; né Giove mutò, pei suoi detti, la mente,
però ch’esso voleva concedere ad Ettore gloria.
E intorno all’altre porte venivano a zuffa altre genti;
ma non posso io, che un Nume non sono, narrare di tutti:
ché d’ogni parte, al muro d’intorno, dei sassi l’incendio
cresceva ardente; e a forza, per quanto avviliti, gli Argivi
pugnavano a difesa dei legni; ed afflitti i Celesti
erano, quanti erano usi proteggere i Dànai in guerra:
ed appiccata i Lapíti aveano la guerra e la pugna.
Qui Polipète, gagliardo figliuol di Pirítoo, l’asta
contro Damàso vibrò, lo colpí nella bronzea celata:
né resistette l’elmo di bronzo; e fuor fuori passando,
l’osso spezzò la punta di bronzo, e di dentro il cervello
si sfracellò: l’abbatte’, mentr’ei si lanciava all’assalto.
Quindi, Pilone tolse di vita, quindi Òrmeno; e il germe
d’Are, Leonte, trasse di vita d’Antímaco il figlio,
Ippòmaco, d’un colpo che a mezzo la cintola il còlse.
Dalla guaina poi tratta fuori l’aguzza sua spada,
primo Antifàte, su lui piombando fra mezzo la turba,
colpí da presso; e quello piombava sul suolo rovescio.
E dopo loro, Oreste, poi Mènone e Iàmeno, tutti,
l’uno sull’altro abbatte’, sovressa la terra feconda.
I Troiani vedono un prodigio in cielo: un’aquila che regge tra gli artigli un serpente ancora vivo; il serpente la morde, e l’aquila lo lascia cadere. Polidamante lo ritiene un segno sfavorevole e consiglia ad Ettore di non continuare ad attaccare gli Achei. Ma Ettore non lo ascolta perché confida nel favore di Giove.
Mentre spogliavano essi dell’armi lucenti i caduti,
i giovani che mossi con Ettore e Polidamante
s’erano, ed erano i piú numerosi, i piú forti e bramosi
di far breccia nel muro, di mettere a fuoco le navi,
su l’orlo della fossa rimasero tutti perplessi:
ché, mentre eran lí lí per varcarla, un prodigio era apparso:
un’aquila alta in cielo, tagliando l’esercito a manca,
che fra gli artigli un immane recava dragone cruento,
vivo, guizzante ancóra, né ancor della pugna oblioso:
ché, ritorcendosi indietro, nel petto ferí, presso il collo,
la ghermitrice; e quella, crucciata di spasimo, a terra
lunge da sé lo spinse. Piombò quello in mezzo alle schiere:
essa, mandando uno strido, volò via coi soffi del vento.
Abbrividirono, quando giacere nel campo i Troiani
videro l’agile serpe, prodigio del figlio di Crono;
e allor Polidamante, cosí disse ad Ettore ardito:
«Ettore, tu nei consigli di solito sempre m’investi,
anche se bene io parlo; perché non conviene, tu dici,
che contro te, nei consigli, si levi a parlare un gregario,
né fra le zuffe; ma è bene che ognor la tua forza prevalga.
Or tuttavia ti dirò tutto quello ch’io credo pel meglio:
sui Dànai non si muova, né intorno alle navi si pugni:
perché questo avverrà, credo io, se pur giunse ai Troiani
simile augurio, mentr’essi tentavan varcare la fossa.
L’aquila, ch’alta nel cielo, tagliava l’esercito a manca,
e negli artigli immani stringeva un dragone cruento
vivo tuttora, via lo gittò pria che al nido tornasse,
né lì potè recarlo, per darlo ai suoi figli in pastura:
e cosí noi, se pure potremo espugnare le porte
a viva forza, e il muro dei Dànai, e respingerli vinti,
non torneremo in pace, dai legni sul nostro cammino,
ché lasceremo molti dei nostri, che avranno col ferro
uccisi ivi gli Achei, pugnando a difender le navi.
Rispondere cosí dovrebbe un profeta, se chiara
scienza d’auspici avesse, se fede gli avesser le genti».
Ettore lo guardò biecamente, e cosí gli rispose:
«Polidamante, queste non sono parole d’amico:
certo, pensare sapresti parole migliori di queste;
ma se davvero questo che dici, lo dici per zelo,
allora sí, che i Numi t’avranno sconvolto il giudizio,
quando consigli che noi trascuriamo i decreti di Giove
sire del tuono, che a me pur diede promessa ed assenso,
e invece tu consigli che ascolto si porga al veloce
volo d’augelli! Io no, di lor non mi curo, né bado
se vanno a destra, verso l’aurora ed i raggi del sole,
se vanno a manca, verso la densa caligine ombrosa.
Obbedienti noi saremo al decreto di Giove,
che sui mortali tutti, che regna su tutti i Celesti:
ottimo auspicio è solo combattere in pro’ della patria.
E tu, che cosa dunque paventi di guerre e di zuffe?
Anche se tutti noi cadessimo, quanti qui siamo,
presso alle navi argive, paura non c’è che tu muoia,
ché il cuore tuo non è coraggioso, non è bellicoso.
Però, se dalla pugna t’astieni, se con la lusinga
delle tue ciance, qualche altro distoglier tu vuoi dalla pugna.
súbito dalla mia lancia percosso, dovrai qui morire».
Giove favorisce i Troiani scatenando una tempesta contro gli Achei; i Troiani assaltano le mura difensive, ma comunque gli Achei continuano a difendersi strenuamente.

E, cosí detto, mosse per primo; e seguirono tutti,
con infinito clamore. E Giove, dei folgori sire,
una procella di venti scagliò dalle vette de l’Ida,
che verso i legni recava la polvere, e torpide rese
le menti achee, concesse ad Ettore gloria e ai Troiani.
Nei suoi prodigi dunque fidando, e nel proprio valore,
nel muro degli Achei tentarono aprire una breccia.
Strappavan le bertesche, crollare facevano i merli,
scalzavano coi pali dal suolo i pilastri sporgenti
che primi avean gli Achivi piantati a sorregger le torri.
Questi smovevano indietro, sperando che avrebbero infranto
il muro degli Achei. Né i Dànai cedevano ancora;
bensí, facendo siepe coi scudi di pelle sui merli,
di qui colpivan quanti nemici giacessero sotto.
E sulle torri entrambi gli Aiaci, partendo comandi,
correvano qua e là, gli Achivi eccitando a prodezza,
questo con detti soavi, quell’altro con dura rampogna,
se mai vedeano alcuno che in tutto la lotta obliasse:
«O cari, o degli Argivi chi ottimo sia, chi mediocre,
e chi da meno — perché di certo non son tutti uguali
gli uomini in guerra — adesso c’è proprio da fare per tutti!
Ben lo potete vedere da voi! Piú nessuno si volga
verso le navi, adesso che avete udito il comando:
anzi, spingetevi innanzi, spronatevi l’uno con l’altro,
se pure Giove Olimpio vi dia, che, respinto l’assalto,
sino alla loro città possiate incalzare i nemici!».
Cosí, dinanzi agli altri gridando, eccitava gli Achei.
E come allor, che i fiocchi di neve, in un giorno d’inverno
cadono fitti, quando comincia il saggissimo Giove
a nevicare, se vuole mostrare i suoi strali alle genti,
che fa sopire i venti, e nevica senza mai tregua,
sin che nasconde i fastigi dei monti, e le vette dei colli,
e del trifoglio i piani fiorenti, e degli uomini i campi;
poi sovra i golfi e le coste del mar che biancheggia s’effonde:
quindi la scaccia il flutto che giunge; ma tutta ravvolta
ogni altra cosa resta, se cade la neve di Giove:
cosí d’ambe le parti volavano fitti i macigni,
ché ne scagliavano d’ambe le parti, gli Achèi sui Troiani,
questi su quelli; e sul muro tutto era un immenso frastuono.
Sarpedone incita Glauco a farsi onore combattendo. Assaltano insieme la torre di Menesteo, ma in sua difesa arrivano Aiace Telamonio e Teucro.

Né allora Ettore avrebbe fulgente, né seco i Troiani,
frante dell’alto muro le porte e la solida sbarra,
se Giove non lanciava Sarpèdone, il proprio figliuolo,
contro gli Achivi; e parve leone su lucidi bovi.
Súbito a sé dinanzi lo scudo librato egli pose,
bello, di bronzo, foggiato coi màllei. Battuto l’avéva
un fabbro: entro cucite v’avea fitte pelli di bovi;
e verghe d’oro, all’orlo correvano via torno torno:
fattosi schermo di questo, due lance vibrando, si mosse,
come leone cresciuto fra i monti, digiuno di carne
già da gran tempo: lo spinge l’intrepido cuore a far preda
di greggi, anche se deve balzare in un saldo recinto:
ché, pur, se, giunto qui, trovasse sul luogo i pastori
che con le lance stanno, coi cani, a far guardia alle greggi,
lungi però, se prima non tenta, non va dall’ovile,
ma con un balzo dentro si lancia e fa preda; o ferito
cade alla prima egli stesso, colpito da mani veloci.
Cosí l’animo fiero spronò quel divino campione,
che sovra il muro balzasse, che i merli frangesse; e all’istante
queste parole a Glauco, d’Ippòloco al figlio, rivolse:
«Glauco, perché nella Licia noi due piú d’ogni altro onorati
siamo, che i posti eletti abbiam nei banchetti, e le carni,
colme le coppe, e tutti ci onorano al pari dei Numi,
e gran poderi abbiamo lunghesse le rive del Xanto,
dove frutteti, dove son campi di grano fecondi?
Ora convien che primi, in mezzo alle schiere dei Lici,
stiamo, a pie’ fermo affrontiamo, dov’essa piú arde, la zuffa,
perché dica qualcuno dei Lici dal solido usbergo:
— No, senza gloria i re non sono, che in Licia l’impero
stendono sopra noi, che mangian le floride greggi,
bevono il vino eletto di miele: ché pure è ben grande
la loro forza, quando combatton fra i primi dei Lici. —
E poi, diletto mio, se noi, qui sfuggiti alla morte,
viver potessimo eterni, immuni da morte e vecchiezza,
non mi vedresti allora lanciarmi fra i primi alla pugna,
né te sospingerei nella pugna che onora le genti;
ma perché, invece, sopra ci stanno la Parche di morte
innumerevoli, e l’uomo schivarle non può, né fuggire,
avanti! E alcuno a noi dia gloria, o da noi la riceva!».
Disse cosí; né sordo fu Glauco, né indietro si trasse.
Mossero entrambi, dei Lici guidando le fitte caterve.
E Menestèo Petíde li scòrse, ed un gelo lo colse,
ché verso la sua torre moveano, recando il malanno;
e per la torre guardò, se alcuno dei duci vedesse
che dai compagni suoi potesse schermir la sciagura.
Ed ecco, entrambi vide gli Aiaci, mai sazi di guerra,
saldi sui piedi, e Teucro che usciva lí lí dalla tenda.
Erano presso; ma invano gridava: nessuno l’udiva,
si grande era il frastuono, fra urli che andavano al cielo,
rombe di scudi e d’elmi criniti percossi e di porte;
ch’erano tutte quante serrate le porte, e dinanzi
stava il nemico, e tentava di frangerle a forza, e d’entrare.
E súbito ad Aiace mandò messaggero Toòte:
«Muoviti, corri, Toòte divino, ed Aiace qui chiama,
oppure, tutti e due: ché questo sarebbe pel meglio:
ché qui sovrasterà ben presto l’estrema rovina:
tanto c’incalzano i capi dei Lici, che pur nel passato
impetuosi tanto lanciavansi ai fieri cimenti.
Ché poi, se pure lí la zuffa infierisce e il travaglio,
almeno il prode Aiace figliuol di Telàmone venga,
e Teucro insieme venga con lui, gran maestro dell’arco».
Disse cosí; né fu ritroso al comando l’araldo:
correndo, s’avviò degli Achei lungo il muro; e ristette
poi che fu giunto presso gli Aiaci, e di súbito disse:
«Aiaci, o degli Achei loricati di bronzo signori,
il figlio di Petèo nutrito da Giove, vi prega
che andiate li, per porre riparo, sia pure di poco,
al loro affanno: entrambi sarebbe di certo pel meglio:
ché li sovrasterà ben presto l’estrema rovina:
tanto c’incalzano i capi dei Lici, che pur nel passato
impetuosi tanto lanciavansi ai fieri cimenti.
Ché poi, se pure li la zuffa infierisce e il travaglio,
almeno il prode Aiace figliuol di Telàmone venga.
E Teucro insieme venga con lui, gran maestro dell’arco».
Disse cosí; né sordo fu il gran Telamonio, ma queste
parole alate volse di súbito al figlio d’Ilèo:
«Aiace, qui voi due, te dico, ed il prò’ Dïomede,
restate, ed eccitate gli Achivi a combatter da prodi;
ed io frattanto andrò laggiú, farò fronte alla guerra,
e poi qui tornerò, quando a quelli avrò dato soccorso».
E, cosí detto, Aiace figliuol di Telàmone, mosse,
e Teucro, a lui fratello, ché nacquero entrambi d’un padre,
seco moveva, e Pandíone, che l’arco di Teucro reggeva.
E quando nell’interno movendo, fûr giunti alla torre
di Menestèo, trovarono in dura distretta i compagni:
ché i prenci valorosi che in guerra guidavano i Lici,
simili a negra procella piombavano contro gli spalti.
Ruppero a lotta gli uni sugli altri; e surse alto il frastuono.
II Telamonio Aiace qui primo die’ morte ad un prode,
all’animoso Epiclèo, di Sarpèdone sire compagno,
ché lo colpí con un sasso tutto aspro, che presso agli spalti
giacea, dentro dal muro, sul sommo; né retto l’avrebbe
un uomo, anche fiorente, di quelli che vivono adesso,
pure con ambe le mani. Lo levò, lo scagliò dall’alto,
e gli schiacciò le quattro difese dell’elmo, ed insieme
l’ossa del cranio gl’infranse; ed egli piombò giú, che parve
un palombaro, dall’alto del muro; e senz’anima giacque.
Teucro ferisce Glauco, che si ritira. Sarpedone combatte con foga e rompe uno spalto del muro. Aiace e Teucro si fiondano su di lui, ma GIove non permette che suo figlio sia ucciso. Sarpedone chiama i Lici ad aiutarlo a sfondare il muro

E Teucro colpí Glauco, d’Ippòloco il figlio gagliardo,
che si lanciava all’assalto del muro: ove il braccio scoperto
vide, quivi colpí, desister lo fe’ dalla pugna.
Lungi dal muro balzò, si nascose, perché degli Achivi
niuno vederlo potesse ferito, e menarne alto vanto.
Ma molto si crucciò Sarpèdone, ch’egli partisse,
súbito ch’ei se n’avvide; né pure lasciò la battaglia,
anzi, Alcmeóne abbatte’ con la lancia, di Tèstore il figlio,
poi trasse l’asta a sé: seguendo il piagato la lancia,
cadde bocconi; e su lui rombarono l’armi di bronzo.
E poscia, ecco, afferrò con le mani gagliarde uno spalto,
e a sé lo trasse; e quello cedette per quanto era lungo;
e il muro fu scoperto di sopra, e schiuse ampia una via;
e Aiace, e Teucro insieme, piombaron su lui. Con un dardo
questi il colpí sul petto, sovressa la lucida cinghia
del grande scudo — Giove però, da suo figlio lontane
tenne le Parche, sicché non cadesse vicino alle navi — ;
e Aiace anche balzò, lo colpí su lo scudo: la punta
non penetrò fuor fuori, ma pure, a respingerlo valse
mentre moveva all’assalto. Indietro d’un poco si trasse;
ma non cede’ del tutto; ché il cuore sperava alta gloria;
e lanciò un grido, indietro rivoltosi, ai Lici divini:
«Lici, perchè cosí la nera prodezza obliate?
Difficile è per me, per quanto possa essere prode.
franger da solo il muro, aprire un passaggio alle navi!
Dunque, venite con me: ché in molti, piú agevole è l’opra».
Cosí diceva; e quelli, pel grido del loro signore
impauriti, ressa facevano intorno a quel savio.
E, d’altro lato, dentro dal muro, serravan gli Argivi
piú saldamente le schiere. Ben ardua l’opera allora
agli uni e agli altri apparve: poiché non potevano i Lici
frangere il muro dei Dànai, aprirvi il passaggio alle navi;
né i Dànai, maestri di lancia, poterono lungi
tener dai muri i Lici, poiché giunti v’eran dappresso.
Ma come pei confini baruffano due contadini,
entro un promiscuo campo, che stringon le pertiche in pugno,
e sovra un tratto breve contendono uguali le parti:
cosí gli uni dagli altri tenevan divisi gli spaldi;
e su gli spaldi, l’uno colpiva sul petto dell’altro
i saldi cuoi, gli scudi rotondi, e le targhe villose.
Gli Achei si difendono strenuamente, finché non arriva Ettore, che con un grosso macigno riesce a rompere le porte del muro difensivo. I Troiani avanzano, gli Achei fuggono verso le navi

Molti trafitti avevan le membra dal bronzo crudele,
sia che scoperto alcuno lasciasse, volgendosi, il dorso,
mentre pugnavano; ed altri, puranche traverso gli scudi.
E d’ogni parte, le torri, gli spaldi, macchiati di sangue
erano d’ambe le parti, di sangue troiano ed achivo:
però modo non c’era che andassero in fuga gli Achivi.
Come una donna proba, che vive filando, sospende,
ponendo il peso qui, la lana costi, le bilance,
che siano giuste, e ai figli non scemi la scarsa mercede:
cosí si pareggiavan fra loro la zuffa e la pugna,
prima che Giove gloria piú fulgida ad Ettore desse
figlio di Priamo, che primo sul muro balzò degli Achivi,
«Su, di cavalli maestri, di Troia guerrier, degli Argivi
frangete il muro, il fuoco fiammante avventate sui legni!».
Cosí disse; e i guerrieri porgevano pronto l’orecchio,
e sovra il muro tutti piombarono a schiera, e stringendo
l’acuminate lancie, salian sugli spalti. E un gran sasso
Ettore allora ghermí, che stava dinanzi alla porta,
lo sollevò: grosso era di sotto, ed aguzzo di sopra,
tal che neppure in due di quelli che vivono adesso,
neppure i due più forti, potrebbero alzarlo dal suolo
sul carro; e senza stento, di Príamo il figlio, da solo
lo palleggiava: Giove leggero per lui lo rendeva.
Come un pastore suole recare con sola una mano
la pelle d’un montone, ché il peso ben poco lo aggrava:
Ettore al pari di quello recava l’immane macigno,
contro le imposte, che alte, che doppie, sbarravano il varco
solidamente connesse: correvan di dentro due sbarre,
l’una di contro all’altra: confitto era in ambe un sol perno.
Si fece sotto a quelle, ben salde le gambe allargando,
ché non fallisse il colpo, le còlse nel mezzo. Spezzati
furono i cardini entrambi, con tutto il suo peso il macigno
dentro piombò, mandò la porta alto mugghio, e le sbarre
non resisterono, a pezzi, qua e là, sotto l’urto del masso,
volarono le imposte. Ed Ettore fulgido, dentro
balzò, che parve notte che piombi; e fulgeva, nel bronzo
ch’esso alle membra cingeva, terribile; e due giavellotti
stringeva in pugno: niuno l’avrebbe potuto frenare,
tranne un Celeste, quand’egli la porta varcò. Pari a fuoco
ardea negli occhi; e, vòlto, gridava alle turbe troiane
che valicassero il muro; né tarde eran quelle al comando.
Súbito alcuni il muro saltarono, irruppero gli altri,
pel vano della porta; e i Dànai fuggiron sgomenti,
verso le concave navi, suonando frastuono perenne.
Poseidone, approfittando di un attimo di distrazione di Giove, scende ad aiutare gli Achei, prendendo le sembianze di Calcante. Infonde forza agli Aiaci, e spinge gli Achei a continuare a difendere le loro navi dall’attacco dei Troiani
Spinti i Troiani cosí con Ettore, sopra le navi,
Giove qui li lasciò, fra pianti e continuo travaglio;
ed egli altrove gli occhi fulgenti rivolse, a guardare
lungi, la terra dei Traci che allevan corsieri, dei Misi
prodi a combatter da presso, dei belli Ippomòlgi, che latte
cibano equino, degli Abî, fra gli uomini tutti i piú giusti;
né verso Troia piú volgeva il suo fulgido sguardo,
perché nessuno, certo, pensava, dei Numi d’Olimpo,
osato avrebbe dare soccorso ai Troiani e agli Argivi.
Però, cieco il Signore che scuote la terra, non era:
stava a vedetta, mirava stupito lo scontro di guerra,
alto, sovressa la cima piú alta di Samo di Tracia
fitta di selve; e di qui distinta vedea tutta l’Ida,
vedeva la città di Priamo, ed i legni d’Acaia.
Quivi era accorso, balzando dal mare; e pietà degli Achivi
sentia, cosí fiaccati, ardea contro Giove di sdegno.
Giú, senza indugio, balzò dai dirupi del monte, volgendo
rapidi i passi: i monti tremavano eccelsi e le selve
sotto i piedi immortali del Nume che scuote la terra.
Tre volte il passo spinse, col quarto raggiunse la mèta,
Ege, dov’è per lui costrutta, nel fondo dei gorghi,
l’inclita casa d’oro, che folgora tutta, immortale.
Quivi al carro aggiogò due cavalli dal piede di bronzo,
rapidi al corso, che d’oro avevan le chiome: egli stesso
d’oro le membra tutte recinse, in man prese una sferza
bene costrutta, d’oro, salí sopra il cocchio, e i corsieri
spinse sui flutti. I mostri del mare balzâr d’ogni parte,
come apparí, dagli abissi, conobbero il loro Signore:
e per la gioia il mare si schiuse: con rapida furia
quelli volavano; e l’asse di bronzo neppur fu bagnato.
Una spelonca larga, del mare nei bàratri fondi,
s’apre, fra Tènedo ed Imbro tutta irta di rocce. I cavalli
fermò quivi il Signore che scuote la terra, dal carro
li sciolse, e innanzi ad essi, perché si cibassero, pose
l’ambrosia biada, ai piedi li strinse con auree pastoie
che non si frangono o spezzano, acciò che il ritorno del Nume
quivi attendessero; ed egli si volse all’esercito achèo.
Stretti i Troiani, intanto, che fuoco parevan, procella,
con implacata furia seguiano di Priamo il figlio,
con grida alte e frastuono: speravan le navi d’Acaia
prendere, e, presso quelle, dar morte a quanti eran piú prodi.
Ma il Dio che scuote e stringe la terra, Posídone sire,
fuori balzò dagli abissi del mare, e fe’ cuore agli Achivi.
Ei di Calcante assunse l’aspetto e la voce possente;
e pria disse agli Aiaci, che eran da sé tutta furia:
«Voi due potete, Aiaci, salvare gli Achivi, se il cuore
non alla fuga orrenda, bensí volgerete all’offesa.
Nell’altre parti no, dei Troiani le mani gagliarde
io non pavento, che a frotte passarono sopra il gran muro:
ch’ivi frenarli sapranno gli Achei dalle belle gambiere;
ma qui, pavento assai che ci debba toccare un malanno,
dove s’avanza questo furente, che pare una fiamma,
Ettore, che si vanta figliuolo di Giove possente.
Cosí voi due potesse convincere alcuno dei Numi
a far fronte voi stessi da prodi, a incitar l’altra gente!
Spingerlo allor potreste lontan dalle rapide navi,
per quanto infurî, pure se Giove egli stesso lo incita».
E, cosí detto, il Nume che cinge, che scuote la terra,
col suo bastone entrambi percosse, e di furia gagliarda
li empie’, leggeri i piedi ne rese, le mani, le membra.
Ed egli a volo surse, che sembrò sparviere veloce
che da un’altissima rupe scoscesa libratosi a volo,
giú, per cacciare un altro pennuto, si lancia nel piano.
Tal si spiccò da loro il Nume che scuote la terra.
E primo Aiace, figlio veloce d’Ilèo, lo conobbe,
e volse al Telamonio cosí la veloce parola:
«Aiace, uno dei Numi d’Olimpo, l’aspetto del vate
assunse, e ci ordinò di combattere presso le navi.
Non è costui Calcante, l’interprete saggio d’auspíci:
le mosse ho conosciute bene io delle gambe e dei piedi,
quando è da noi partito: ch’è facil conoscere i Numi.
E vedi, ora, anche a me, nel fondo del petto, il mio cuore
s’agita piú di prima, per muovere a guerra ed a zuffa,
fremere i piedi sotto mi sento, e le valide mani».
Il Telamonio Aiace rispose con queste parole:
«Ed anche a me cosí, le mani che stringon la lancia
fremono, e l’ira mia si desta, ed entrambi i miei piedi
sento balzarmi sotto, m’invade desío d’affrontare
Ettore, ch’or senza tregua c’investe; e sia pure da solo».
Queste parole cosí scambiarono l’uno con l’altro,
lieti per quell’ardore pugnace, ispirato dal Nume.
E dietro ad essi, il Nume che scuote la terra, eccitava
gli Achei, che stavan presso le navi, a riprendere fiato.
Eran le membra loro fiaccate da orrenda stanchezza,
e li rodeva un cruccio nel cuore, vedendo i Troiani
ch’eran passati a frotte di là dalla grande muraglia:
lagrime ad essi dai cigli sgorgavano; e piú del malanno
non aspettavano scampo; ma il Nume che scuote la terra,
agevolmente eccitò, movendo fra lor, le falangi.
A Teucro prima il Nume rivolse ed a Lèito il comando,
a Penelèo l’eroe, e a Dípiro insieme, a Toante,
a Meríone, ad Antiloco, esperti nel grido di guerra;
e queste, ad eccitarli, rivolse parole veloci:
«Vergogna, Achei, novellini, ragazzi! Se voi combatteste,
le nostre navi, certo ne sono, salvare potreste;
ma se pensate invece la guerra schivare, e i suoi lutti,
ora è spuntato il dí che i Troiani vi debban fiaccare.
Ahi!, che prodigio strano questo è, ch’ora io debbo vedere
con questi occhi, che mai creduto possibile avrei,
che sulle nostre navi sarebbero giunti i Troiani,
simili un tempo a cerve fugaci, che preda nel bosco
divengon di pantere, di lupi e sciacalli, ché a caso
vanno fuggendo, ché imbelli sono esse, né sanno la zuffa.
Cosí prima i Troiani resister, sia pure un istante,
dei guerrïeri achèi non potevano ai colpi e alla furia;
ed or presso le navi combatton, lontano da Troia,
perché dappoco è il duce, perché la sua gente è infingarda
che seco lui contrasta, né vuole pugnare a difesa
delle veloci navi, ma cade su queste trafitta.
Ebbene, anche se proprio la colpa di tutti i malanni
sopra Agamènnone cade, sul figlio possente d’Atrèo,
perché fece al veloce di Pèleo figlio un oltraggio,
non è concesso a noi per ciò trascurare la guerra.
Su’, procuriamo un rimedio! Sanabile è il cuore dei prodi.
Bello non è che voi trascuriate la fiera battaglia,
quando i piú forti siete del campo. Non io con un uomo
m’adirerei, che la pugna schivasse, se fosse un vigliacco;
ma pieno è contro voi davvero di sdegno il mio cuore.
O gente frolla, certo farete maggiore il malanno
con l’indolenza vostra! Su’ presto, pudore e vergogna
riscuota ognuno in cuore: ché fiera è la zuffa impegnata:
Ettore presso le navi combatte, guerriero gagliardo,
prode nell’urlo di guerra, spezzata ha la porta e la sbarra».
Con tali ordini, dunque, Posìdone scosse gli Achivi.
Gli Achei si stringono a falange e resistono all’assalto di Ettore, ma lui non si dà per vinto e ritorna all’attacco, perché confida nel favore di Giove.

E si disposero in due falangi vicine ad Aiace,
salde, che, neppur Marte, né Atena che i popoli scuote,
se fosser giunti, opporre potevano biasimo; e l’urto
d’Ettore e dei Troiani, qui scelti attendeano i piú forti,
l’asta assiepando all’asta, lo scudo allo scudo proteso,
sicché scudo era a scudo puntello, elmo a elmo, uomo ad uomo;
e si toccavan degli elmi criniti le lucide creste,
ad ogni mossa: tanto fitti erano, l’uno su l’altro,
squassate eran le lance sporgenti dai pugni gagliardi,
e d’avanzare brama li ardea, d’appiccare la pugna.
E contro loro i Troiani cozzarono; ed Ettore primo
correa, simile a masso che rotola giú da una rupe,
cui dalla somma vetta, con impeto d’acque infinito,
spinse un torrente, e i sostegni scalzò dell’immane macigno:
vola a gran balzi in alto, rimbombano sotto le selve,
e innanzi corre, e intoppo non trova, sinché giunge al piano,
e qui, per quanto grande sia pur la sua furia, s’arresta.
Ettore, similemente, sin qui, fatto aveva minaccia
che giunto al mare, ai legni, sarebbe, e alle navi d’Acaia,
strage menando; ma poi che urtò nelle strette falangi,
stette, serrato ad esse di contro. E di contro, gli Achivi,
lui con le spade colpendo, col duplice taglio dell’asta,
lungi lo spinsero; ed egli dove’, pur fremendo, ritrarsi.
E a sé chiamò, levando altissimo grido, i Troiani:
«Troiani, Lici, e voi, valenti a pugnare dappresso,
Dàrdani, state saldi: piú a lungo gli Achei non potranno
reggere all’urto mio, per quanto si stringano a torre:
sotto la lancia mia dovranno piegar, se alla zuffa
me sospingeva d’Era lo sposo, che il primo è dei Numi».
Questo dicendo, eccitò la furia, il valore d’ognuno.
Deífobo, figliuolo di Priamo, con piglio superbo
movea tra i primi, e innanzi reggeva librato lo scudo,
lieve sui pie’, che i passi movea dello scudo al riparo.
Lui Merióne tolse di mira con l’asta lucente,
e lo colpi nello scudo librato, di pelle di toro;
né lo fallí; ma neppure pote’ traversarlo: la punta
della zagaglia lunga si ruppe assai prima. E lontano
dal corpo suo lo scudo Deífobo tenne, temendo
di Merióne guerriero la lancia; e lontano l’eroe
si ritirò, fra le schiere dei suoi: ché gran cruccio lo ardeva
della vittoria perduta, dell’asta che franta gli s’era;
ed alle tende e alle navi d’Acaia si volse, per tôrre
una sua lunga lancia, che avea nella tenda lasciata.
E combattevano gli altri, né mai tregua aveva il frastuono.
E Teucro Telamonio per primo ivi uccise un campione,
Imbrio, di Mentore figlio, signore di molti cavalli.
Pria che giungessero i figli d’Acaia, abitava il Pedèo,
ed una figlia spuria di Priamo, Medesicasta
era sua moglie; e quando poi giunser dei Danai le navi,
tornò di nuovo ad Ilio, distinto fra tutti i Troiani,
ed abitava con Priamo, che caro lo avea come un figlio.
Lui con la lunga lancia colpi Teucro sotto l’orecchio,
poi trasse il ferro; e quello, giù cadde che un frassino parve,
che sulla vetta d’un monte, visibile a tutti da lungi,
reclina al suol, recise dal bronzo, le tenere frondi:
cosí piombò, su lui rimbombarono l’armi di bronzo.
E Teucro si lanciò, che l’armi bramava predargli:
Ettore contro, mentre movea, gli vibrò la sua lancia;
egli però, che vide, la punta di bronzo, per poco
giunse a schivare; e trafisse la cuspide Anfínomo, figlio
d’Attorïóne Cteàto, che a pugna moveva, nel seno:
cadde con un rimbombo, su lui rintronarono l’armi.
Ettore súbito allora si lanciò, per trarre l’elmetto
bene adattato alle tempie, dal capo ad Anfínomo prode;
ma mentre ei si lanciava, su lui l’asta lucida Aiace
vibrò; ma non raggiunse le carni; ché tutte nascoste
erano d’orrido bronzo: l’umbone colpí dello scudo,
l’urtò con la sua furia gagliarda; e da entrambi i caduti
Ettore indietro cede’, li trassero lungi gli Achivi.
Stichïo, dunque, e il divino Menèsteo, principi entrambi,
d’Atenïesi, portarono Anfímaco in mezzo agli Achivi.
Imbrio portato fu dagli Aiaci bramosi di pugne.
Simili a due leoni, che quando han rapito una capra
ai denti aspri dei cani, la portano via fra le macchie,
tra le mascelle stretta la tengon, sospesa dal suolo:
sospeso alto cosí tenendolo entrambi gli Aiaci,
l’armi predavano; e il capo spiccato dal tenero collo,
il figlio d’Oïlèo, d’Anfímaco a far le vendette,
lo roteò, lo scagliò fra le turbe, che parve una palla.
D’Ettore innanzi ai pie’ ruzzolò nella polvere. E allora,
tutto di fiero sdegno s’empie’ di Posídone il cuore,
pel suo nipote, ch’era caduto nell’orrida mischia;
e i passi volse verso le tende e le navi d’Acaia,
cuore facendo ai Dànai, nel lutto spingendo i Troiani.
Poseidone incita Idomeneo, che con il suo scudiero Merione va a lottare.

Idomenèo s’imbatte’ per primo nel Nume. Lasciato
da poco aveva un suo compagno, che giunto ferito
gli era da un colpo di punta nel pòplite, or or dalla zuffa.
L’avean gli amici addotto, l’aveva affidato l’eroe
ai medici: ora, verso la tenda moveva, ché brama
lo ardeva ancor di pugne. E il Nume che scuote la terra,
gli disse, e avea la voce del figlio d’Andrèmo, Toante,
l’eroe che nell’eccelsa Calídone, e in tutta Pleurona
sugli Ètoli regnava, godeva d’onori divini:
«Idomenèo, che i Cretesi consigli, ove son le minacce
che contro Troia, un tempo, lanciavano i figli d’Acaia?»
Idomenèo, dei Cretesi signore, cosí gli rispose:
«Sopra nessuno, adesso, Toante, ricade la colpa,
per quanto io so: ché bene sappiamo combattere tutti,
né alcuno è da codardo timore frenato, né lungi
sta per pigrizia dalla funesta battaglia; ma questo
deve piacere certo che avvenga al possente Croníde,
che senza gloria, lungi soccombano d’Argo gli Achivi.
Ma via, giacché, Toante, tu ognor con intrepida fronte
bene eccitare sai, se svogliati li vedi, anche gli altri,
non ti stancare adesso, ma scuoti uno ad uno i compagni».
E a lui cosí rispose il Nume che scuote la terra:
«Idomenèo, non possa tornare di Troia alla patria,
ma qui possa restare, ludibrio dei cani, quell’uomo
che voglia in questo giorno, ritroso mostrarsi alla zuffa.
Su, dunque, impugna l’armi, vien qui, ché vogliamo all’assalto
muovere insieme, se rechi vantaggio questo essere in due:
vale la forza unita di gente, sia pure dappoco;
e noi, pure coi forti sappiamo affrontare la zuffa».
Disse; e di nuovo il Dio si avviò fra il travaglio di morte.
E Idomenèo, poiché fu giunto alla solida tenda,
cinse alle membra l’armi sue belle, impugnò due zagaglie,
e mosse, che pareva la folgore, quando il Croníde,
strettala in pugno, la squassa dai picchi fulgenti d’Olimpo,
segno del Nume ai mortali: ben lunge ne brillano i raggi.
Cosí fulgeva il bronzo sul petto all’eroe che correva.
E Merióne incontro gli giunse, il suo prode scudiero,
presso alla tenda ancora: veniva a cercare la lancia.
Idomenèo gagliardo, cosí la parola gli volse:
«O Merïone, figlio veloce di Mòlo, diletto
fra tutti, a che qui vieni, lasciando la guerra e la zuffa?
Ferito sei tu forse, ti ambascia la punta d’un dardo,
oppur qualche messaggio sei giunto a recarmi? Ma io
restar qui nella tenda non voglio, anzi correre a lotta».
E a lui queste parole Meríone saggio rivolse.
«Idomenèo, dei Cretesi dall’arme di bronzo signore,
vengo, se mai nella tenda ti fosse rimasta una lancia:
io prender la vorrei: ché quella che or ora impugnavo,
quando lo scudo colpii del superbo Deífobo, ruppi».
Idomenèo, dei Cretesi signore, cosí gli rispose:
«Lancie, se tu ne vuoi, non una ne trovi, ma venti,
dentro la tenda mia, poggiate ai lucenti sostegni:
lancie troiane sono, predate agli uccisi: ché io
non soglio no, mi pare, combatter lontano ai nemici:
lancie però qui sono, qui scudi coperti di borchie,
elmi e corazze sono che spandono vivo fulgore».
E a lui queste parole rispose Merióne saggio:
«Ho molte spoglie anch’io di Teucri, vicino alla nave,
dentro la tenda mia; ma troppo mi sono lontane:
ché neppure io, ti dico, dimentico son del valore,
ma nella zuffa, dove si provano gli uomini, saldo
io sto fra i primi, quando si leva la furia di guerra.
Potrò sfuggire, quando combatto, a qualcun degli Achivi;
ma tu con gli occhi tuoi, mi credo, hai dovuto vedermi».
E Idomenèo, dei Cretesi signore, cosí gli rispose:
«Il tuo valore, qual sia, lo so bene: perché lo rammenti?
Se ci adunassimo, quanti piú prodi siam qui, presso i legni,
in un agguato, dove piú brilla il valor della gente —
ché qui si scorge bene qual uomo sia prode, qual vile,
ch’or d’un colore, or d’un altro il viso del vile si tinge,
né in seno il cuor gli regge cosí ch’egli fermo rimanga,
ma si rannicchia, ed ora su l’uno dei piedi si poggia,
ora sull’altro, e il cuore gli batte nel seno a gran colpi,
ché si figura già la morte, e gli stridono i denti;
ma non si muta il colore del prode, né troppo ei si turba,
poi che il suo posto occupò nell’agguato dei forti, ed augurio
fa di mischiarsi prima che sia nella lotta funesta — :
neppure qui potrebbe veruno la forza e il coraggio
tuo biasimare: ché pure se fossi trafitto o colpito,
non sulla nuca il colpo cadrebbe, non già su la schiena,
anzi sul petto tuo dovrebbe incontrarti, nel ventre.
mentre ti scagli dove s’accostano primi i più forti.
Ma non restiamo, come se fossimo sciocchi, a far ciance,
ché contro noi non arda taluno di sdegno superbo:
entra, su via, nella tenda, e scegli una lancia ben salda ».
Si disse. E pari a Marte feroce, balzò Merióne
entro la tenda, e prese un’asta di bronzo, e su l’orme
d’Idomenèo si mise: ché molto anelava alla pugna.
Come si lancia Marte, che gli uomini stermina, a zuffa,
e lui segue Terrore, l’intrepido e forte suo figlio,
che nei guerrieri infonde, per quanto sian prodi, sgomento:
muovono a campo entrambi da Tracia, a pugnar tra gli Efíri
oppure in mezzo ai Flegi magnanimi: ascolto ad entrambi
dare non sanno; e a questi concedono o a quelli la gloria:
tali Merióne ed Idomenèo, condottieri di genti,
tutti recinti di bronzo fulgente, movevano a lotta.
E Merióne, primo così favellava al compagno:
« Da qual parte ti vuoi, Deucalíde, cacciar ne la zuffa?
Forse alla destra di tutto l’esercito, oppure nel mezzo,
o non piuttosto a manca? ché qui, più che altrove, mi credo,
sopra i chiomati Achei svantaggiosa s’aggrava la guerra».
Idomenèo, signore di Creta, cosí gli rispose:
« Altri guerrieri prodi difendon le navi nel mezzo:
gli Aiaci prodi, e Teucro, che supera tutti gli Achivi
nel saettare, ed è pure valente a pugnar fronte a fronte.
Per quanto Ettore sia gagliardo fra tutti, per quanto
impetuoso, il figlio di Priamo, sapranno frenarlo:
arduo per lui sarà, per quanto assetato di zuffe,
vincer la loro furia guerriera e le indomite mani,
e dar fuoco alle navi. A men che il Croníde egli stesso
gittar sopra le navi non voglia una fiaccola accesa;
ma di Telamone il figlio, da niuno degli uomini, vinto
esser potrà, che sia mortale, che cibi frumento,
ch’essere franto possa dal bronzo o da immani macigni.
Lottando a corpo a corpo, neppur cederebbe ad Achille
sterminatore di genti: non c’è chi nel cozzo l’uguagli.
Dunque, a sinistra noi due restiamo: ben presto vedremo
se trionfare qualcuno faremo, o se avremo trionfo».
Detto cosi, Merióne, che Marte feroce sembrava,
mosse, finché pervenne nel punto del campo ch’ei disse.
Veduto Idomenèo, che pareva una furia di fiamma,
e lo scudiere seco, nell’armi lucenti, i nemici,
l’uno eccitando l’altro, su lui s’avventarono tutti;
e da per tutto la pugna s’accese d’intorno alle navi.
Come allorché sotto vènti fischianti si scaglian procelle,
nei dí che son le vie coperte di polvere fitta,
e quelli alzan gran nebbia di polvere, insieme spirando:
surse cosí confusa la zuffa degli uomini; e brama
avean di sterminare l’un l’altro, col bronzo affilato;
e per le lunghe lancie protese a ferire, la pugna
sterminatrice appariva tutta irta; e abbagliava gli sguardi
lo scintillare del bronzo dagli alti cimieri fulgenti,
dalle corazze di fresco brunite, dai lucidi scudi
che s’avanzavano a masse: chi avesse gioito a tal vista,
chi non si fosse turbato, intrepido stato sarebbe.
Ma con opposto disegno, di Crono i due figli possenti
ivano intanto apprestando corrucci ed ambasce agli eroi.
D’Ettore e dei Troiani volea la vittoria il Cronide,
per dar gloria ad Achille dai piedi veloci: né spenti
tutti però volea sotto i muri di Troia gli Achivi:
Teti onorare soltanto voleva, e l’intrepido figlio:
Posidone eccitava gli Achei, ché fra lor s’era spinto,
nascostamente emerso dal mare spumoso: gran cruccio
gli era, vederli fiaccati cosí dai Troiani, grande ira
l’ardeva contro Giove. Entrambi d’ un sangue e d’ un padre
eran; ma prima Giove nato era, e sapeva più cose;
per questo, a viso aperto non dava soccorso agli Achivi;
ma, forma d’uomo assunta, di furto eccitava le schiere.
Della feroce contesa, cosi, della guerra implacata
l’attorta fune tesa tenevan sugli uni e sugli altri,
che non si frange né scioglie, che a tanti fiaccò le ginocchia.
Idomeneo tenta di corrompere Otrione e uccide Asio. Antiloco uccide l’auriga di Asio. Deifobo colpisce Ipsenore e se ne vanta. Antiloco protegge il corpo, e Idomeneo replica uccidendo Alcato e vantandosi; e sfida poi Deifobo.

Quivi, sebbene già mezzo canuto, eccitando gli Achivi,
Idomenèo, sui Troiani piombando, li volse alla fuga:
ch’egli Otrïóne uccise, venuto da Càbeso ad Ilio:
venuto era, all’annunzio di guerra, da poco; e chiedeva
la più bella fra tutte le figlie di Priamo, Cassandra;
né prometteva doni, ma compiere grande una gesta:
scacciare a forza lungi da Troia i figliuoli d’Acaia.
Il vecchio Priamo diede consenso, e promise la figlia;
ed ei, nella promessa fidente del re, combatteva.
Idomenèo lo tolse di mira con l’asta fulgente,
e lo colpi, che avanzava superbo. L’usbergo di rame
non gli bastò, ch’ei portava: lo colse nel mezzo del ventre:
piombò, diede un rimbombo. Vantandosi, l’altro proruppe:
« Otrionèo, fra quanti son gli uomini tutti io ti esalto,
se veramente tutte saprai mantener le promesse
che a Priamo re facesti, quand’ei ti promise la figlia.
Farti potremmo anche noi, mantenere anche noi la promessa
di dare a te la figlia più bella del figlio d’Atrèo,
dartela sposa, qui condurtela d’Argo, se d’Ilio
la popolosa città coi Dànai espugnare vorrai.
Vieni con me, ché sopra le navi facciamo l’intesa
per queste nozze: noi non siam paraninfi da poco!».
Detto cosi, per un piede lo trasse traverso alla pugna
Idomenèo. Su lui giunse Asio a vendetta: pedone
dinanzi ai suoi cavalli sbuffanti, che dietro reggeva
sempre l’auriga scudiero. Nel cuore agognava colpire
Idomenèo; ma questi prevenne il suo colpo, e la strozza
gli perforò sotto il mento, passando fuor fuori la punta.
E cadde, come cade un pioppo, una quercia, o un eccelso
pino, che i legnaioli recidono in vetta d’ un monte
con le affilate scuri, per farne legname da navi:
cosi giacque disteso dinanzi ai cavalli ed al carro,
cadde, rugliando cosi, brancicando la polvere e il sangue.
E si turbò la mente, che prima avea chiara, all’auriga,
né gli bastò l’ardire di volgere indietro i cavalli,
per isfuggire ai nemici. Antiloco vago di zuffe
a mezzo lo colpi con la lancia: l’ usbergo di rame
non gli bastò, ch’ei portava: lo colse nel mezzo del ventre;
ed ei dal carro bello piombò con un rantolo al suolo;
e Antiloco, figliuolo di Nèstore, intrepido cuore,
condusse fra i guerrieri d’Acaia i cavalli di Troia.
E per la morte d’Asio crucciato Deifobo allora,
si fece presso ad Idomenèo, lo colpi con la lancia.
Quegli schivò, ché vibrare la vide, la lancia di bronzo,
e si nascose dietro Io scudo rotondo librato,
ch’egli portava, di pelle di bovi e di lucido bronzo,
girato al tornio, e dentro fermato con doppio bracciale:
tutto si rannicchiò dietro a questo; e la lancia di bronzo
volò, sfiorò lo scudo, che die’ secco strepito all’urto.
Ma non invano l’asta parti dalla mano possente:
ché Ipsènore, pastore di genti, figliuolo d’ Ippàso,
colpí sotto il diaframma, nel fegato, e a terra lo stese.
E ne menò, con grande urlo, Deifobo vanto feroce:
«Vedi, che privo d’onore non va neppure Asio: io vi dico
che, pur se scende all’Ade, custode implacato alle porte,
ei va con lieto cuore, ché tale un compagno gli diedi».
Cosí disse; e quel vanto rempieva di cruccio gli Argivi.
E fu, su tutti gli altri, sdegnato d’Antiloco il cuore.
Pure, benché turbato, non pose il compagno in oblio;
ma gli girava attorno, tendeva lo scudo a schermirlo.
E due cari compagni si fecero presso al caduto:
Mecísto, figlio d’Ècio, Alàstore stirpe di Numi;
e lo recâr, che profondo gemeva, alle rapide navi.
Né punto Idomenèo placava la furia; e irrompeva
sempre, bramoso d’avvolger di tènebre alcun dei Troiani,
o di cadere egli stesso, schermendo agli Achei la rovina.
Àlcato innanzi gli venne, diletto figliuol d’Esuèto
eroe, stirpe di Numi. D’Anchise era genero: sposa
egli Ippodàmia aveva, la figlia maggiore. Fra tutte,
sinch’ella visse in casa, diletta era al padre e alla madre,
ché tutte quante aveva compagne d’età, superava
per senno, per bellezza, destrezza nell’opere; e sposa
l’ebbe, per questo, l’uomo che primo fra tutti era in Ilio.
D’Idomenèo l’abbatté Posídone allor sotto l’asta,
che gl’irretí le membra, di fàscino gli occhi gli avvolse,
sí, che né volgersi a fuga potea, né schermirsi dai colpi;
bensí, come colonna, come albero ch’alto frondeggia,
fermo egli stava. E a mezzo del petto gl’immerse la lancia
Idomenèo guerriero, la bronzea tunica franse
che sopra il seno a lui, dinanzi, schermiva la morte.
Strepito secco allor diede, squarciata dintorno alla punta,
diede cadendo un rimbombo. La lancia era infitta nel cuore,
guizzar facevi il cuore coi palpiti il calcio dell’asta:
qui Marte crudo, infine, lasciò che vanisse la furia.
E Idomenèo levò, con grande urlo, un vanto feroce:
«Dëífobo, dobbiamo pensar che sia giusto compenso
uccider tre per uno? ché questo era pure il tuo vanto.
Vieni dinanzi a me fronte a fronte, anche tu, sciagurato,
si che tu sappia quale sono io, che di Giove discendo,
che prima generò Minosse a regnare su Creta:
questi ebbe un figlio scevro di biasimo, Deucalïone,
Deucalïone me generò, che regnassi sul fitto
popol di Creta. E qui m’addusser le rapide navi
per la sciagura tua, di tuo padre, di tutti i Troiani».
Deifobo decide di chiamare Enea che lo aiuti ad affrontare Idomeneo; a loro sostegno dell’uno e dell’altro arrivano i compagni. Deifobo sbaglia e al posto di Idomeneo colpisce Ascalafo, figlio di Marte. Deifobo, ferito ad un braccio, si ritira.

Cosí disse. E fra due rimase Dëífobo incerto:
o s’ei, trattosi indietro, cercasse qualcun dei Troiani
per suo compagno, oppure tentasse la prova da solo.
Questo, pensando, il meglio gli parve: cercare d’Enea.
Ed ecco, lo trovò che stava fra l’ ultime schiere:
ch’ei sempre contro Priamo divino era pieno di cruccio,
ché lo stimava poco, sebbene era prode fra i prodi.
Presso gli stette, e queste veloci parole gli disse:
«Enea, tu che i Troiani conosci, ora si, che vendetta
del tuo cognato devi tu fare, se pure n’hai lutto!
Seguimi, d’Àlcato, su, facciamo vendetta, se pure
nella tua casa ei t’ha nutrito, quando eri ancor tanto.
Idomenèo, valente maestro di lancia, or l’ha spento».
Disse; e con queste parole furore gl’infuse nel seno.
E verso Idomenèo s’avventò, desïoso di pugna.
E Idomenèo non già sgomentò, come fosse un dappoco:
anzi, restò come fiero gagliardo cinghiale sui monti,
quando una turba aspetta che avanza con alto frastuono,
in solitario luogo: si vede tutta irta la schiena,
tutti di fuoco gli occhi lampeggiano, e arròta le zanne,
ché da sé lungi agogna respingere gli uomini e i cani.
Idomenèo, maestro di lancia, cosí stava saldo,
ed attendeva l’assalto d’ Enea, che accorreva a riscossa.
Ma die’ voce ai compagni, Dëípiro, Ascàlafo e Afàre,
E Merióne ed Antíloco, entrambi maestri di guerra.
Li vide, e li eccitò con queste veloci parole:
« Correte, amici, a me recate soccorsoI Son solo,
e assai pavento Enea, che avanza con passo veloce,
che su me piomba, ed è maestro ad uccidere in guerra,
e il fior di giovinezza ha inoltre, la massima forza:
poiché, se avessi gli anni ch’egli ha, per aggiunta al mio cuore,
avremmo od egli od io ben presto la grande vittoria ».
Cosí diceva. E a lui, con un animo solo, i compagni
corsero tutti vicini, poggiati a le spalle gli scudi.
Dall’altra parte, Enea die’ pure una voce ai compagni,
ch’egli Dëífobo scorse, con Paride e Agènore divo
ch’erano duci, al pari di lui, dei Troiani; e a lor dietro
tutte le genti, come, seguendo il montone, le greggi
vanno al pascolo a bere: s’allegra il pastore a vederle.
Similemente il cuore nel seno d’Enea s’allegrava,
quando a sé dietro vide la turba cosí delle genti.
E a corpo a corpo quelli pugnavano ad Àlcato attorno
con le lor lunghe lancie: rombava terribile il bronzo
sovra i lor petti, mentre cosí si colpivan l’un l’altro.
Due guerrieri che prodi fra i prodi quivi erano. Enea
e Idomenèo di Creta, entrambi in valor pari a Marte,
l’ uno dell’altro nel seno bramavano immergere il bronzo.
Enea contro il nemico per primo lanciò la zagaglia;
ma quei chinò, ché innanzi spingeva lo sguardo, il suo colpo;
ed oscillando, la terra percosse la lancia d’ Enea,
ché vano il colpo usci, lanciato dal pugno gagliardo.
E Idomenèo colpi nel mezzo del ventre Enomào:
franse l’usbergo nel cavo, s’immerse nei visceri il ferro.
Quegli piombò, brancicò, nella polvere, il suol con le palme.
Idomenèo la lunga sua lancia strappò dal caduto,
ma non potè’, però, spogliarlo dell’armi sue belle,
dagli omeri rapirle, perché lo incalzavano i dardi,
né agili più avea le giunture dei piedi, a lanciarsi
dietro la sua zagaglia, né a schermo dei colpi nemici:
a corpo a corpo, bene sapeva schivare la morte;
ma se fuggire dovesse, non più gli bastavano i piedi.
Ora, mentre ei passo passo cedeva, Dëífobo l’asta
lucida contro lui scagliò: ché avea l’odio nel cuore;
ma lo sbagliò, colpi con la lancia d’Euríalo il figlio,
Ascàlafo; la lancia s’infisse nell’omero saldo:
egli piombò, brancicò, nella polvere, il suol con le palme.
E non sapeva Marte dall’urlo terribile, ancora,
ch’era caduto il caro figliuolo nell’aspro cimento;
ma sulla vetta somma d’Olimpo, fra nuvole d’oro,
sedea, qui dal volere di Giove costretto, ove anch’essi
erano gli altri Numi, costretti lontan dalla guerra.
A corpo a corpo, intanto, quei prodi, ad Ascàlafo intorno
lottavano. Ghermí Dëífobo l’elmo al caduto;
ma Merióne, pari nell’ ímpeto a Marte, balzando,
al braccio lo colpí con la lancia. Piombò dalla mano
l’alta celata a terra, mandando un rimbombo; e di nuovo
die’ Merióne un balzo, che parve rapace sparviere,
e gli strappò dal sommo del braccio la lancia massiccia,
e fra la turba, di nuovo, tornò dei compagni. E Polìte
trasse il fratello suo Deìfobo fuor dalla zuffa,
sotto la vita un braccio passandogli, sin che fu giunto
ai pronti suoi cavalli, che lungi dal cozzo di guerra
stavano con l’auriga, col carro dai varî colori.
Questi lo addussero afflitto, che cupo gemeva, alla rocca;
e giù sgorgava il sangue dal braccio ferito di fresco.
Continuano le zuffe tra i due gruppi di Troiani e Achei

E combattevano gli altri, né mai tregua avevano gli urli.
Enea sopra Afarèo balzò, di Calètore figlio,
che vide contro sé, nella gola gl’immerse la lancia:
dall’una parte cadde reclina la testa, e lo scudo
cadde, con l’elmo; e la morte s’effuse, e la vita gli strusse.
Antìloco spiò Toòne, mentr’ei si volgeva,
e si lanciò, lo ferì, tutta quanta recise la vena
che per la schiena in alto, via via, corre sino alla nuca.
Ei tutta la recise. Piombò ne la polvere quello,
cadde supino, entrambe le mani tendendo ai compagni.
E Antìloco balzò, per tòrgli dagli omeri l’armi,
guardando tutto in giro: ché standogli attorno i Troiani,
chi qua, chi là, lo scudo fulgente colpìano; ma sotto
non riuscivan del bronzo le tenere membra a ferire;
però che il Dio che scuote la terra, di Nèstore al figlio
stava dappresso, e i colpi schermiva, sebbene eran fitti.
Pur, dai nemici franco non era egli, no: s’aggirava
fra loro; e la sua lancia non stava ozïosa: vibrava
sempre, rotava; ed egli volgea nella mente i suoi piani,
chi saettasse da lungi, con chi s’azzuffasse da presso.
Ma non sfuggì, mentre egli tirava cosí tra la folla,
d’Asio al figliuolo. Adamante: ché presso a lui fattosi, a mezzo
lo scudo gli colpí. Ma vana la cuspide rese,
gl’invidiò quella vita Posídone azzurro nel crine:
mezza confitta restò nel palvese d’Antíloco l’asta,
come un palo mezzo arso: al suolo piombò l’altra mezza.
Ed egli ripiegò fra i compagni, a schivare la morte.
Ma dietro lui Merióne movendo, mentr’egli cedeva,
tra l’umbilico ed il pube gl’immerse la lancia, ove Marte
piú dolorose rende le piaghe ai dogliosi mortali.
Quivi la punta gl’immerse: guizzava seguendo la lancia,
quello; e pareva un bue che, su per i monti, i bifolchi
contro sua voglia, a forza trascinano, avvinto di funi.
Si contorceva Adamante, colpito cosí; ma per poco:
sinché, fatto a lui presso, l’eroe Merióne, la lancia
fuor dalle carni gli trasse: gli corse allor buio sugli occhi.
Ed Èleno da presso colpí sulla tempia Dipíro,
con una spada grande di Troia, e l’elmetto gli franse.
Cadde, sbalzato a terra, l’elmetto; e fra i piedi agli Achivi
che combattevano, corse rotondo; e qualcun lo raccolse;
e sopra gli occhi a quello profonda si stese una notte.
Menelao uccide Pisandro

E Menelao, l’Atríde guerriero, fu preso dal cruccio,
e minaccioso mosse contro Èleno, il principe eroe,
squassando l’asta acuta: tese Èleno il braccio dell’arco;
ed ambi a un punto stesso, si fecero innanzi a colpire,
l’uno con l’asta, l’altro dal nervo scagliando una freccia.
Il Priamide colpí Menelao con la freccia nel petto,
nel cavo dell’usbergo; ma indietro balzò la saetta.
Come in un’aia larga, dal piatto del gran ventilabro,
le negre fave e i ceci lontano rimbalzano, spinti
dalla fischiante brezza, dal colpo del ventilatore:
cosí dalla corazza del prode guerrier Menelao
volò, con gran rimbalzo, lontana l’amara saetta.
Ed egli, il prode figlio d’Atrèo, Menelao battagliero,
colpì la man che l’arco lucente stringeva; e nell’arco
si conficcò, trafiggendo la mano, la punta di bronzo.
L’altro, a schivar la morte, tra i suoi si fuggì, penzoloni
la man tenendo; e l’asta traea nella mano confitta.
E dalla mano, l’asta di frassino Agenore svèlta,
con una striscia di lana ritorta fasciò la ferita,
con una fionda che a lui soleva recar lo scudiero.
E contro Menelao glorioso si fece Pisandro;
ma lo guidava la Parca maligna alla soglia di morte,
ché nella pugna fosse fiaccato da te, Menelao.
Quando, l’uno su l’altro scagliandosi, furono presso,
sbagliò l’Atríde il colpo, ché l’asta si torse da un lato.
Pisandro, su lo scudo colpì Menelao glorïoso;
ma non potè fuor fuori passare la lancia; e battendo
sopra l’ampio palvese, si franse il puntale dell’asta.
Pure, quei s’allegrò, sperando di già la vittoria;
ma, fuor tratta la spada trapunta d’argento, l’Atríde
balzò sopra Pisandro. Pisandro, di sotto lo scudo
strinse una scure bella, di rame, in un manico infitta
lungo, di liscio ulivo: l’un l’altro colpirono a un tempo.
Questi colpì la cresta dell’elmo crinito, su alto,
proprio sotto il cimiero: l’Atríde, sul viso il nemico
alla radice del naso colpì: scricchiolarono l’ossa,
gli occhi dinanzi ai piedi gli caddero al suol sanguinando,
e giù piombò reclino. Calcandogli un piede sul petto,
l’armi l’Atride gli tolse, parlò con parole di vanto:
«Lasciar dovrete almeno le navi dei Dànai, Troiani
oltracotanti, che mai satolli non siete di guerre,
né d’altre colpe immuni pur siete, né d’altre vergogne:
quelle con cui m’avete macchiato, tristissimi cani,
senza temere l’ira tremenda di Giove ospitale,
che un dì la vostra eccelsa città deve abbattere certo:
voi che la sposa mia legittima, e tanti miei beni,
empî, poi ch’ella bene v’accolse, m’avete rapiti;
ed ora, sopra i legni veloci, volete per giunta
gittare il fuoco infesto, per fare sterminio d’Achivi!
Pur, vi dovrete un giorno, per quanto rissosi, frenare.
Dicono, o Giove padre, che tu tutti gli uomini e i Numi
vinci di senno; eppure, da te tutto questo proviene:
di quanta grazia ancora sei prodigo a questi Troiani
oltracotanti, pieni mai sempre di voglie malvage,
che sazi mai non sono di stragi, di guerre crudeli.
Sazie le genti potrai d’ogni cosa veder: dell’amore,
del sonno, delle dolci canzoni, del ballo elegante,
cose che pili della guerra si bramano, a farcene sazi;
ma sazi mai non sono di guerre, i Troiani superbi».
E, cosí detto, l’armi strappò dalle membra cruente,
ed ai compagni le die’ Menelao senza macchia: egli stesso
quindi alla pugna tornò, fra i suoi, nelle file primiere.
Contro qui gli balzò del sire Pilèmeno il figlio,
Arpalïóne, che il padre seguí per combattere ad Ilio,
né più fece alla patria ritorno. Costui da vicino
con la sua lancia, a mezzo lo scudo colpí dell’Atríde;
ma non potè fuor fuori la punta di bronzo passarlo;
ond’ei si ritirò fra i compagni, a schivare la morte,
guardando tutti in giro, ché alcun non l’avesse a ferire.
Ma in quella gli scagliò Meríone una lancia di bronzo,
e nella clune destra lo colse: passò la saetta
fuor fuori, sotto l’osso del pube, forò la vescica.
A terra qui piombò, tra le mani dei cari compagni,
fuori spirando l’alma; e a terra giaceva disteso
come un lombrico; e il sangue scorreva, bagnava la terra.
Presero allora i prodi guerrieri Paflàgoni il corpo,
lo posero sul carro, lo addussero, pieni di doglia,
ad Ilio sacra: il padre moveva con loro e piangeva,
ma prezzo alcun non v’era da rendergli il morto figliuolo.
E per la morte sua, grande ira arse a Paride il cuore,
ch’egli era ospite suo fra la gente paflàgona. E pieno
per lui di cruccio, un dardo scagliò dalla punta di bronzo.
Era nel campo un certo Euchènore, figlio del vate
Pòlide: ricco egli era, valente, e abitava in Corinto.
Era venuto ad Ilio sapendo il suo fato funesto,
ché glie l’aveva spesso predetto il valente suo padre:
o per doglioso morbo soccombere sotto il suo tetto,
o presso ai legni Achèi, per man dei Troiani fiaccato:
egli l’amaro spregio insieme evitò degli Achivi,
e l’odïoso morbo, ché i crucci non volle patirne.
Alla mascella, sotto l’orecchio fu còlto; e lo spirto
presto volò dalle membra, lo avvolse la tènebra orrenda.
Ettore, che combatte nella zona centrale, non sa che i suoi compagni a sinistra sono in difficoltà

Cosí pugnavan questi, sembravano fuoco che avvampi;
ma nulla Ettore, a Giove diletto, sapeva, ma nulla
udito avea, che a manca del campo, cosí sterminati
erano i suoi, che presto poteano soccombere vinti,
tanto l’Iddio che cinge la terra, che scuote la terra
spingea gli Argivi, e a loro soccorso pugnava egli stesso;
ma stando, ove dapprima varcato ebbe il muro e la porta,
frangea le fitte schiere dei Dànai, la siepe di scudi.
dov’eran, tratte in secco, lunghesse le spume del mare,
presso le navi d’Aiace, le navi di Protesilào;
e il muro sopra, qui più basso che altrove; e la mischia
più furïosa qui avvampava di fanti e cavalli.
Quivi i Beoti, quivi gli Ionî dai càmici lunghi,
i Locri, quei di Ftia, gli Epèi fulgidissimi; e a stento
Ettore lungi tenevan dai legni; e tentavano invano
da sé scacciarne l’urto: parea quel divino una fiamma.
C’erano Atenïesi, quanti eran migliori: lor duce
era Menestio, figlio di Pètio: l’avevan seguito
Fida, con Stichio, ed il prode Biante. Guidavan gli Epèi
Dracio, Anfióne, Megéte, Filide. Alle genti di Ftia
erano duci Podarce, maestro di guerra, e Medone.
Era Medone figlio bastardo al divino Oilèo,
era fratello d’Aiace: lontan dalla terra materna
egli abitava in Filàce: ché ucciso Eriòpide aveva,
ch’era fratello della consorte d’Oilèo, sua matrigna.
Or questi, armato in guerra, guidando i magnanimi Ftii,
a schermo delle navi, pugnavano insiem coi Beoti.
E Aiace, il pie’ veloce figliuolo d’Oilèo, d’un sol passo
non si staccava più dal figliuol di Telàmone invitto;
ma, come nella dura maggese due fulvidi bovi
traggono il solido aratro, concordi nell’animo; e ad essi
sgorga, d’intorno al ceppo dei corni, in gran copia il sudore:
l’uno dall’altro il giogo lucente soltanto divide,
mentre pel solco vanno, via via, sino al fine del campo:
così stavan piantati quei due, l’uno a fianco dell’altro.
Qui di Telàmone il figlio seguivano molti compagni,
molti e valenti, che a lui reggevano il grande palvese,
quando sudore e stanchezza fiaccavano a lui le ginocchia;
ma non seguivano i Locri il prode figliuol d’Oilèo,
ché non reggeva ad essi il cuore a pugnare dappresso,
ché non avevano elmi di bronzo chiomati di crini,
neppure aveano lancie di frassino o scudi rotondi,
bensì con archi soli, con frombole attorte di lana,
eran venuti a Troia: da lungi pugnavano; e spesso
coi loro tiri fitti rompevan le schiere troiane.
Polidamante consiglia ad Ettore di fare una riunione. Ettore acconsente, ma prima va ad aiutare i suoi compagni in difficoltà. Qui incontra il fratello Paride, che lo aiuta. Aiace lo sfida, e un’aquila appare in cielo come buon auspicio agli Achei. Inizia un nuovo scontro.
Cosí dunque gli Aiaci, coperti dell’armi lucenti,
lottavan coi Troiani, con Ettore armato di bronzo;
quelli, nascosti dietro, lanciavano frecce; e i Troiani,
messi a scompiglio dai dardi, poneano il valore in oblio.
E con gran lutto qui, lontan dalle navi e le tende
già già fuggiano ad Ilio battuta dal vento i Troiani,
quando Polidamante si fe’ presso ad Ettore, e disse:
«Ettore, a te non riesce seguire i consigli degli altri.
Perché ti diede un Nume che in guerra su tutti emergessi,
perciò, pur nei consigli sapere ne vuoi più degli altri.
Eppur, tutte le doti pigliare per te non potrai:
ad altri diede il Nume che in guerra su tutti emergesse,
a un altro il ballo diede, la cétera a un altro ed il canto:
il buon consiglio Giove depose ad un altro nel seno,
e gran vantaggio da lui ritraggono gli uomini tutti;
ché n’han salvezza molti, ché primo egli stesso ne gode.
Ora io ti dico questo, che a me sembra adesso pel meglio:
poiché di là dal muro son giunti gli arditi Troiani,
stanno in disparte alcuni, nell’armi, e combattono gli altri,
pochi di fronte a molti, dispersi vicino alle navi.
Or tu recedi un po’, qui chiama a raccolta i più prodi:
bene d’ognuno allora potremo ascoltar le proposte,
se sulle navi fitte di banchi si debba piombare,
se pure un Dio ci voglia conceder vittoria, o se illusi
lungi si debba oramai receder dai legni: ch’io temo
che non ci saldin gli Achei del debito ieri contratto:
ché presso ai legni ancora c’è l’uomo mai sazio di guerra,
che non potrà più a lungo tenersi, dico io, dalla pugna».
Polidamante cosí parlava, né ad Ettore spiacque.
Balzò súbito a terra, armato com’era, dal carro,
e a lui rivolto, queste veloci parole gli disse:
«Polidamante, tu trattieni qui tutti i più prodi;
ed io vado laggiù, dove arde la zuffa, e di nuovo
farò ritorno qui, come abbia impartiti i comandi».
Mosse, ciò detto; e parve montagna coperta di neve,
alto gridando; e volò fra Troiani e alleati. E veloci
tutti correvano quelli, com’ebbero udita la voce
d’ Ettore, a Polidamante, di Panto al magnanimo figlio.
E nelle prime file movea quegli intanto, e cercava
se mai trovar potesse Deífobo, ed Èleno sire,
Asio, d’Irtaco figlio, e d’Asio il figliuolo Adamante.
Ma niuno d’essi immune trovò da travaglio o da morte:
presso l’ ultime navi d’Acaia giacevano questi,
che avean perduta, sotto le man degli Argivi, la vita,
ed altri erano dentro le mura, colpiti o trafitti.
Ma súbito, a mancina del campo cruento, Alessandro,
d’Elena chioma bella lo sposo divino, rinvenne,
mentre eccitava i compagni, con detti animosi, alla zuffa.
Presso gli stette, e queste gli disse parole d’oltraggio:
«Paride tristo, bello soltanto a veder, donnaiolo,
seduttore, ove sono Dëífobo ed Èleno sire,
Asio, d’ Irtaco figlio, e d’Asio il figliuolo, Adamante?
Otrïonèo, dov’è? Davvero, ch’or Troia superba
crollò da cima a fondo: sicura è per te la rovina».
Ed Alessandro, l’uguale dei Numi, cosí gli rispose:
«Ettore, proprio tu, vuoi dar colpa a chi scevro è da colpa?
Schivato forse avrò la guerra altre volte, non questa;
perché del tutto imbelle non m’ha generato mia madre.
Ora che presso le navi tu a guerra eccitasti i compagni,
noi da quel punto qui coi Dànai ci stiamo azzuffando
senza mai tregua. Sono caduti i compagni che dici:
due solamente d’essi, Dëífobo, ed Èleno sire,
andati sono lungi dal campo, trafitti di lancia
ad una mano entrambi, né spenti li volle il Cronide.
Ora, comanda come ti dettano l’animo e il cuore,
ché noi volonterosi verremo con te; né l’ardore
ci mancherà, credo io, per quanto ci bastan le forze:
ch’oltre le forze, nessuno, per quanto lo voglia, combatte ».
L’alma piegò del fratello, cosí favellando, l’eroe.
E mossero, ove più ferveva la pugna, d’intorno
a Cebrïóne, all’ immune da biasimo Polidamante,
a Polifète, l’uguale dei Superi, a Falce, ad Ortèo,
a Palmi, Ascanio e Mori, che, d’Ippotióne figliuoli,
erano dall’Ascania ferace a dar pèrmuta giunti,
giusto il dí prima. E Giove, qui allora li spinse alla zuffa.
Ivano questi; e procella parevan di rabidi venti
che muove, sotto i tuoni del figlio di Giove, nel piano,
e con orrendo frastuono si mescola al mare; e nel mare
che rumoreggia sempre, ribollono innumeri flutti,
curvi, con creste di schiuma, premendosi gli uni sugli altri.
Cosi, gli uni addensati sugli altri e sugli altri, i Troiani,
tutti di bronzo fulgenti, seguivano i loro signori.
Ettore innanzi ad essi moveva, di Priamo il figlio,
simile a Marte omicida. Reggeva a sé innanzi lo scudo,
denso di pelli tutto, coperto di bronzo battuto:
tutto lucente l’elmo crollava d’intorno alle tempie;
e d’ogni parte, sotto lo scudo avanzando, tentava
se mai sotto l’assalto cedesser le schiere nemiche.
Ma non poteva perciò turbar degli Achivi il coraggio.
E primo, a lunghi passi, Aiace si mosse a sfidarlo:
«O sciagurato, fatti vicino: ché fai vana prova
di sbigottir gli Argivi? Non siamo inesperti di guerra!
Furono sol dalla sferza di Giove fiaccati gli Achivi.
Nutrí speranza in cuore di mettere a sacco le navi?
Ma pronte alla difesa abbiamo le mani anche noi.
Vedrai che molto prima la vostra città popolosa
dovrà per nostra mano cader saccheggiata e distrutta;
e per te stesso, credo sia presso l’istante che a Giove
volger dovrai, fuggendo, preghiera, ed agli altri Celesti,
che sian piú di sparvieri veloci i criniti cavalli
che t’addurranno ad Ilio, coprendo di polvere il piano».
Volò, mentre diceva cosí, dalla destra un uccello,
alta un’aquila a volo. Levarono un grido gli Achivi,
ché l’incorò l’auspicio. Rispose di Priamo il figlio:
«Millantatore Aiace, che dici, bifolco? Oh! se figlio
fossi io cosí, davvero, di Giove che l’ègida scuote
eternamente, ed Era m’avesse pur dato alla luce,
e onori avessi quanti ne godono Atena ed Apollo,
come ora questo giorno vedrà degli Argivi il malanno,
di tutti; ed anche tu cadrai morto, se il cuore ti basta
che la mia lunga lancia tu attenda! La candida pelle
ti squarcerà: farai sazi gli uccelli ed i cani di Troia,
col grasso tuo, con l’ossa, vicino alle navi d’Acaia».
Mosse, cosí dicendo, per primo: seguirono i duci,
con alte grida, urlando seguíano le genti. E gli Achivi
grida levarono anch’essi, ché oblio del valor non li còlse,
fermi attendendo i campioni di Troia. Ed il grido pervenne
d’ambe le parti all’ètra, di Giove alle sèdi raggianti.
Nestore sente le urla degli Achei ed esce dalla tenda; gli vengono incontro Agamennone, Ulisse e Diomede. Agamennone pensa sia meglio fuggire sulle navi, ma Ulisse si oppone. Diomede allora propone di andare a incitare gli Achei alla lotta.
Nèstore allora udí, sebben fosse a bévere intento,
e volse queste alate parole al figliuolo d’Asclepio:
«O Macaone, pensa quale esito avran questi eventi
presso le navi: più alto dei floridi giovani l’urlo
si leva. Or tu qui resta, tracanna il purpureo vino,
sin che t’appresti il caldo lavacro la bella Ecamède,
e dalla tua ferita i grumi sanguigni deterga;
ed io frattanto andrò senza indugio, vedrò ciò che avviene».
Disse. Ed il grande prese bellissimo scudo del figlio
suo Trasimède: stava, mandando riflessi dal bronzo,
dentro la tenda: quello del padre reggea Trasimède:
l’asta impugnò, che aveva la punta di bronzo, e ristette
fuor della tenda; e un turpe spettacolo vide: gli Achivi
rivolti a fuga, e dietro, cacciandoli a furia, i Troiani
oltracotanti; ed era crollata la grande muraglia.
Come l’immenso mare si oscura con torpidi flutti,
giunger vedendo i passi rapaci di striduli venti,
e sta, senza né qui né lì rotolare l’ondata,
sinché giù non discenda dal cielo uno spiro deciso:
cosí tra due sospeso, col cuore trafitto di doglia,
stette il buon vecchio: o se andare dei Dànai in mezzo alle schiere,
oppur verso Agamènnone Atríde, signore di genti.
Questo, poi ch’ebbe pensato, gli parve il partito migliore:
d’andar verso l’Atríde. Frattanto, reciproca strage
era d’Achivi e Troiani, squillando l’indòmito bronzo
sui petti, al duro cozzo di spade, di lancie affilate.
Ed ecco, a lui di contro, venendo dai loro navigli,
giunsero i tre signori colpiti dal bronzo nemico:
il figlio di Tidèo, Ulisse, e Agamènnone Atríde.
Ché dalla zuffa lungi, vicino alle spume del mare,
eran le navi loro: ché queste per prime nel lido
furono tratte; ma il muro costrutto vicino all’estreme:
ché non poteva tutte le navi capire la spiaggia,
per ampia ch’ella fosse; ma v’eran stipate le genti:
le aveano dunque a scala disposte, e rempievan la gola
tutta del lido, quanta era compresa fra i due promontòri.
Ivano dunque i tre duci, di pari, poggiati alle lancie,
volti gli sguardi alla mischia guerresca; e s’empieva di cruccio
nel petto ad essi il cuore. Cosí l’incontrava il vegliardo
Nèstore; e fece il cuore nel seno agli Achei sbigottire.
E a lui tali parole rivolse Agamènnone prode:
«Nèstore, figlio di Nèleo, gran vanto di tutti gli Atrídi,
perché ti volgi qui, perché lasci la guerra omicida?
Temo che Ettore fiero non debba tener la promessa
che minacciosa ci fece, rivolto alle turbe troiane,
ch’ei non sarebbe ad Ilio tornato dai legni d’Acaia,
se non li avesse prima bruciati, ed uccisi i guerrieri:
cosí quegli promise: cosí tutto adesso si compie.
Oh sciagurato me, che l’animo han gonfio di bile
altri ancor degli Achei contro me, come Achille Pelide,
né piú vogliono a schermo dell’ ultime navi pugnare!».
Nèstore a lui cosí, cavaliere gerenio, rispose:
«Questi, purtroppo, omai, son fatti seguíti, e disfarli
neppur Giove potrebbe Croníde, che tuona dal cielo.
Crollato è infatti il muro, del quale pur fede avevamo
che baluardo mai franto sarebbe alle navi e ai guerrieri,
e senza posa i Troiani combattono presso le navi,
senza pietà: né vedere potresti, per quanto cercassi,
da quale parte a fuga son volti gli Achei: con tal mischio
cadono sotto i colpi, salendone al cielo le grida.
Ora, pensiamo come potranno finir questi eventi,
se mai ne giovi il senno: tornare noi stessi alla zuffa,
non ne darei consiglio: ché male combatte un ferito».
E a lui cosí rispose l’Atríde, signore di genti:
«Nèstore, poi che ai legni vicino ora infuria la zuffa,
né punto valse il muro ch’ergemmo, né punto la fossa,
per cui tante fatiche durarono i Dànai, sperando
che baluardo saldo sarebbe alle navi e ai guerrieri,
certo il volere questo deve esser di Giove possente,
che senza gloria, d’Argo lontano, periscan gli Achivi.
Ben lo vedevo, quando volgevasi ai Dànai benigno,
e vedo ora che esalta, che assimila a Numi i Troiani,
ed irretisce a noi fra ceppi le mani e il coraggio.
Ora, su via, tutti adesso facciamo cosí come io dico:
le navi tratte in secco piú presso alla spiaggia del mare,
tutte si spingano giú nel mare divino, lontano,
dove profonda è l’acqua, si tengan sull’àncore fisse,
sinché giunga la notte, se pongano allora i Troiani
fine alla zuffa. Nel mare spingiamo allor tutte le navi:
che non è scorno sfuggire, sia pure di notte, al malanno».
Ma bieco lo guardò, Ulisse, cosí gli rispose:
«Quale parola, Atríde, t’uscí dalla chiostra dei denti?
Oh sciagurato, ad altri guerrieri, dovresti, a codardi
essere duce, a noi non già, destinati da Giove
sin da fanciulli, a penare nel duro travaglio di guerra,
sino a vecchiaia, sinché ciascuno di noi cada spento.
Dunque, tu vuoi lasciare la bella città dei Troiani,
per cui tanta fatica, per cui tanto pianto si volse?
Taci; ché nessun altro dei Dànai questa parola
oda, che mai non dovrebbe uscir dalla bocca d’un uomo
che discernesse bene fra sé ciò che dire è opportuno,
che fosse re di scettro, a cui tanta gente obbedisse
quanta è quella a cui tu comandi, signor degli Argivi.
Solo di biasimo degno mi par ciò che pensi e che dici,
che ci consigli, mentre piú arde la zuffa di guerra,
trarre le navi nel mare, perché dei Troiani la brama
anche più piena riesca, sebbene prevale già tanto,
o sopra noi s’abbatta l’estrema rovina: ché quando
veggano tratte in mare le navi, combatter gli Achivi
piú non vorranno, e a guardare, di pugne oblïosi, staranno,
e il tuo consiglio li avrà perduti, o signore di genti».
E a lui cosí l’Atríde, signore di popoli, disse:
«Ulisse, in fondo al cuore mi giungi con l’aspra rampogna;
ma io non ho già detto che contro lor voglia gli Achivi
debbano spingere in mare le navi coperte di banchi.
Ora si faccia avanti chi offra un consiglio migliore,
sia pur giovine o vecchio: ché io volentieri l’ udrei».
E allor disse cosí Diomede, possente guerriero:
«È qui vicino l’uomo, né a lungo dovrete cercarlo,
se pure dargli ascolto vorrete, né sdegno né cruccio
colga ciascuno di voi, perché sono il più giovin di tutti.
Ché di buon padre, almeno, figliuolo sono io, di Tidèo,
che in Tebe adesso giace sepolto, e la terra lo cuopre.
Ebbe Portèo tre figli, che furono scevri di mende,
ch’ebbero in Pleuróna le case, e in Calídone eccelsa,
Agrio e Melate: Enèo terzo era, signor di cavalli,
padre del padre mio, che gli altri in valore vinceva.
Questi rimase qui: mio padre lasciò la sua patria,
e prese stanza in Argo: lo vollero Giove ed i Numi.
Quivi sposò la figlia d’Adrasto, e una casa opulenta
ebbe di beni, e gran copia di campi feraci di biade,
e assai filari attorno correvano d’alberi; e aveva
greggi in gran numero, e tutti vinceva gli Achei con la lancia:
è questo il vero: udito narrare l’avrete di certo.
Non un imbelle, dunque, né figlio di gente dappoco
credere voi mi dovete, né quello ch’ io dico spregiare.
Sebben feriti, a zuffa moviamo, ché muovere è forza.
E quando lí saremo, restiamo lontan dalla mischia,
lunge dai tiri, perché non s’aggiunga ferita a ferita,
ed esortiamo gli altri, spingiamoli a pugna, che, ligi
a passïone, stanno lontani, né scendono al campo».
Poseidone infonde nuova forza agli Achei, ed Era ne è felice. Poi la dea medita di ingannare Giove; si fa dare da Afrodite l’Amore e le sue lusinghe, per sedurlo; e poi chiama il Sonno, per addormentarlo subito dopo.

Cosí diceva. E quelli l’udiron, gli diedero ascolto:
mossero; e primo andava, signore di genti, l’Atríde.
Né cieco era il signore che cinge, che scuote la terra:
vegliava: e venne, assunta parvenza di vecchio, fra loro,
e per la destra l’Atríde, signore di popoli, prese,
e, a lui parlando, queste gli volse veloci parole:
« Atríde, adesso il cuore feroce d’Achille, di certo
esulterà, dei Dànai vedendo la fuga e la strage:
ché cuore egli non ha nel petto, neppure un pochino:
possa di mala morte morire, ed un Nume lo acciechi!
Non t’hanno ancora in odio del tutto, i Signori d’Olimpo,
anzi, dovranno i duci, dovranno i signor’ dei Troiani
empiere il vasto piano di polvere; e tu li vedrai
fuggire alla città, lontan dalle tende e le navi».
Detto cosí, si lanciò sul piano, levando un grande urlo.
Quanto gridar novemila potrebbero, o vuoi diecimila
guerrieri, quando l’urto comincia, la zuffa di Marte:
simile grido il Nume possente che scuote la terra,
dal seno emise; e infuse nel cuore a ciascun degli Achei
fiera guerresca brama, fervore incessante di zuffe.
Era guardava intanto, la Diva dall’aureo trono,
che dell’Olimpo stava sovressa una vetta. E conobbe
il Nume, ch’era a lei fratello e cognato, che andava
correndo, in gran faccenda, pel campo; e fu lieto il suo cuore.
Ma Giove scòrse poi, seduto sul vertice estremo
dell’Ida irriguo d’acque sorgive; e le parve odioso.
E volse allora in mente, la Diva dagli occhi fulgenti,
come in inganno trarre potesse l’egioco Giove.
Questo, poi ch’ebbe pensato, le parve il partito migliore:
bene abbigliarsi tutta, poi farglisi accanto su l’Ida,
se Io cogliesse forse desio di giacere in amore
fra le sue braccia, ed ella soave sapore oblioso
potesse a lui sul ciglio versar, su lo scaltro pensiero.
Mosse al suo talamo allora, che aveva per lei costruito
suo figlio Efèsto, l’uscio su stipiti saldi adattando,
con una chiave segreta: niun altro dei Numi l’apriva.
Entrata qui, la Diva richiuse la porta lucente.
E con ambrosia linfa da prima le amabili membra
tutte purificò, le asperse di limpido unguento
divino, ch’ella aveva, piacevole, tutto fragrante:
con l’agitarlo solo, dal bronzeo palagio di Giove
se n’effondeva l’olezzo pel cielo e per tutta la terra.
Tutte con questo la Dea cosparse le belle sue membra,
si pettinò la chioma, le fulgide trecce compose,
lucide, belle, tutte fragranti, sul capo immortale.
Ed una veste poi magnifica cinse, che Atena
tessuta avea per lei, lavorata, adornata di molti
ricami: la fermò sul seno con fibule d’oro,
cinse alla vita una zona ornata di pendule frange;
poi gli orecchini infilò nei lobi forati, a tre gemme,
riscintillanti: attorno spandeasi fulgore di grazia.
Poi con un velo copri, la Dea fra le Dee, la sua fronte,
bello, tessuto di fresco, che al pari d’un sole fulgeva.
Infine, strinse ai piedi suoi nitidi i sandali belli.
E poi ch’ebbe cosí tutte adorne le vaghe sue membra,
dalla sua stanza usci, chiamò la divina Afrodite,
e le parlò, dagli altri Celesti lontano, in disparte:
«Vuoi tu, figliuola mia, concedermi quello ch’io chiedo,
oppur darmi vorrai rifiuto, sdegnata nel cuore
perché sono io dei Danai sollecita, e tu dei Troiani?
E a lei cosí rispose la figlia di Giove Afrodite:
«Era, Dea veneranda, figliuola di Crono possente,
di’ ciò che brami, parla: ché l’animo a compierlo ho pronto,
se pur farlo me dato, se cosa è che compiersi possa».
Ed Era a lei rispose, che frodi volgeva nel cuore:
«Dammi or l’Amore, dammi la Brama onde tu gl’immortali
dòmini tutti, e tutte le stirpi di genti mortali:
ché io vo’ della terra ferace ai confini recarmi,
ed all’Ocèano, padre dei Numi, ed a Tètide madre,
che nelle case loro m’han bimba cresciuta, educata,
che m’ebbero da Gea nei giorni che Giove tonante
scoscese Crono sotto la terra ed il mare infecondo.
Da loro andrò, ché voglio comporre un antico dissidio
che li separa: ché ornai d’amore e di letto divisi
sono da lungo tempo, ché avvampano d’ira nel seno.
Se con le mie parole potessi convincerli entrambi,
e nel giaciglio indurli che insieme s’unisser d’amore,
certo che sempre cara per essi, e diletta sarei».
E a lei cosí rispose l’amica del gaudio Afrodite:
«Né voglio io, né sarebbe possibile opporti rifiuto,
ché fra le braccia tu dormi di Giove, signore di tutti».
Cosí disse. E dal seno disciolse una fascia trapunta,
versicolore, ove tutte raccolte le illècebre aveva.
Era l’Amore quivi, la cupida Brama, il Colloquio
lusingatore, che toglie di senno fin anche i piú saggi.
Questa alla Diva porse, le volse cosí la parola:
«Su’, Diva, prendi, adesso, e avvolgi al tuo sen questa fascia
versicolore, ove tutte s’accolgon le illècebre; e certo
non tornerai, che tutta compiuta non sia la tua brama».
Cosí parlava. Ed Era dagli occhi lucenti sorrise;
e quando ebbe sorriso, sul seno si pose la fascia.
Mosse alla reggia allora di Giove sua figlia Afrodite.
Ed Era con un balzo parti dalle vette d’Olimpo.
Su la Pïeria passò, su l’amabile Emàtia, dei Traci
usi a domar cavalli sui monti nevosi: volava
sopra l’estreme vette, né i piedi sfioravan la terra.
E giú piombò, dai picchi dell’Ato, sul mare ondeggiante.
giunse pel mare a Lemno, città del divino Toante.
A Lemno s’imbattè nel Sonno, fratel della morte,
e porse a lui la mano, cosí la parola gli volse:
«Sonno, di tutti i Numi signore, e degli uomini tutti,
come altre volte ascolto mi desti di ciò ch’io ti chiesi,
ascolto anche ora dammi: da me ne avrai grazia perenne.
Sotto le ciglia a Giove sopisci le fulgide luci,
súbito, appena seco giaciuta in amore io mi sia;
e un trono avrai scolpito nell’oro, bellissimo, eterno.
Per te lo foggerà Efèsto, il mio figlio ambidestro,
con sottile arte; e sotto porrà lo sgabello, su cui
potrai poggiare, quando banchetti, i tuoi nitidi piedi
E il Sonno blando, a lei rispose con queste parole:
«Era, Dea veneranda, figliuola di Crono possente,
altri, chiunque fosse, dei Numi che vivono eterni,
agevolmente sopire potrei, se pur tu mi dicessi
l’acque d’Ocèano, del fiume ch’è origine a tutte le cose.
Ma farmi presso a Giove, di Crono al figliuolo, e sopirlo,
non oserei, se pure comando da lui non ne avessi.
Un altro tuo comando già scaltro m’ha reso, altra volta,
il di che quel figliuolo di Giove dal cuore superbo
si mise in mar, poi ch’ebbe distrutta la rocca di Troia.
Allora io ben sopii la mente all egioco Giove,
ché sopra lui soave m’effusi; e tramasti malanni
tu contro il figlio suo, suscitandogli sopra, nel mare,
orrida furia di venti, gittandolo a Coo popolosa,
lungi da tutti gli amici. Ma desto, il figliuolo di Crono,
infurïò, maltrattò tutti i Numi qua e là per la reggia;
e specialmente me cercava; e scagliato m’avrebbe
dall’ètra in mar, distrutto, se me non salvava la Notte,
che doma uomini e Numi. A lei rifuggii, Giove stette,
benché adirato: temé far cosa non grata alla Notte.
Ed ora, vuoi ch’io compia quest’altro impossibile inganno?».
Ed Era a lui rispose, la Diva dagli occhi lucenti:
«Sonno, perché la tua mente rièvoca questi pensieri?
Credi che voglia Giove proteggere tanto i Troiani,
quanto egli si crucciò per Ercole, ch’era suo figlio?
Su, vieni, ed una a te darò delle floride Grazie,
che tu compagna l’abbia, che debba chiamarsi tua sposa:
Pasitea, per cui notte e giorno tu ardi di brama».
Cosí parlava. E Sonno fu lieto, e cosí le rispose:
«Orsú, giurami adesso per l’acqua di Stige funesta,
con una man toccando la Terra feconda, con l’altra
lo scintillante Mare, perché testimoni a noi due
siano gli Dei che sotterra dimorano, a Crono d’intorno,
che sposa una darai a me delle floride Grazie
Pasitea, per cui notte e giorno mi struggo di brama».
Cosí diceva. Ed Era, la Dea dalle candide braccia,
fece com’egli disse, giurò, tutti i Numi invocando
ch’anno dimora nel Tartaro fondo, e son detti Titani.
E poi ch’ebbe cosí giurato, compiuto il suo giuro,
mossero entrambi, d’Imbro lasciata la rocca, e di Lemno,
d’aria coperti, a corsa veloce compiendo la via.
Giunsero all’Ida, irrigua di polle, nutrice di fiere,
a Lecto, Lov’essi prima lasciarono il mare, e per terra
mossero: sotto i lor piedi l’altissima selva ondeggiava.
Sonno sta nascosto tra un albero in forma di nibbio, mentre Era seduce Giove. Mentre lui dorme, Sonno va ad avvertire Poseidone che può rimanere a sostenere gli Achei ancora un po’ finché Giove non si sveglierà

Qui stette Sonno, prima che Giove lo avesse veduto.
Sopra un altissimo abete ascese, che allora nell’Ida
cresceva, grande grande, per l’aria levandosi al cielo,
e qui restò, fra i rami nascosto dell’albero; e forma
avea di quell’augello montano, di stridula voce,
cui càlcide i Celesti, cui gli uomini chiamano nibbio.
Era, alla punta invece del Gàrgaro contro si fece,
ch’era l’eccelsa dell’Ida. La vide il tonante Croníde;
e l’ebbe appena vista, che brama gli cinse la mente,
come la prima volta che insieme si fuser d’amore,
nel letto che li uní, di furto dai lor genitori.
Le stie’ dinanzi; e queste parole veloci le volse:
«Era, che cosa brami, che giunta sei qui dall’Olimpo?
Qui, né cavalli sono che ascender tu possa, né carri».
Ed Era, a lui cosí, ché ordiva l’inganno, rispose:
«Sono i cavalli a le falde dell’Ida ferace di linfe,
che me potranno addurre sui saldi terreni e sul mare.
Ora, per te venuta son qui dalle balze d’Olimpo,
perché tu poi con me non debba adirarti, se vado
senza a te dirlo, alla casa d’Ocèano dai gorghi profondi».
E il Nume a lei cosí, che i nuvoli aduna, rispose:
«Era, piú tardi andare colà dove dici potrai.
Ora si giaccia qui, la gioia d’amore si goda:
ché mai tale desire di donna mortale o di Dea
tanto d’intorno al mio cuore s’avvolse, e lo fece suo schiavo,
né allor che della sposa d’Issione amore mi vinse,
che Piritòo partorí, buon consiglio, l’uguale dei Numi,
né allor che preso fui da Dànae, la figlia d’Acrìso
dal pie’ leggiadro, madre di Pèrseo, fra gli uomini il primo,
né allor che amai la figlia del tanto famoso Fenice,
che generò da me Radamanto divino e Minosse,
né quando in Tebe amai Semèle ed Alcmèna: ed Alcmèna
a luce Ercole die’, figliuolo dall’anima invitta;
né quando amai Demètra, signora dai riccioli belli,
né quando amai l’insigne Latona, né quando te stessa,
come son pieno adesso d’amore e di brama soave».
Ed Era a lui rispose cosí, che tramava l’inganno:
«Impetuoso figlio di Crono, che cosa mai dici?
Dunque t’ha còlto brama di mescerti meco d’amore
qui, su la vetta d’Olimpo, ch’ esposta è di tutti agli sguardi?
Quale vergogna, se alcuno dei Numi che vivono eterni
qui ci vedesse, e tutto corresse a narrare ai Celesti!
Io piú non oserei, sorgendo da tale giaciglio,
tornare alla tua casa: ché troppa vergogna sarebbe!
Ma pur, se questo brami, se questo il tuo cuore vagheggia,
c’è la segreta stanza che Efesto, il tuo figlio diletto,
per te costrusse, e porte foggiò sugli stipiti salde:
andiamo ivi a giacere, se tu di giacere hai pur brama».
E a lei Giove rispose cosí, che le nuvole aduna:
«Era, temer non devi che alcuno dei Numi ci scorga,
né dei mortali alcuno: si densa una nuvola d’oro
io stenderò su noi, che neppure veder ci potrebbe
Èlio, il cui raggio, pure, piú acuto d’ogni occhio penètra».
Detto cosí, fra le braccia ghermí la sua sposa il Croníde;
e sotto ad essi fiorì la terra di tenere erbette,
di roridi trifogli, di crochi, di fitti giacinti
morbidi, ch’alti dal suolo sorgendo, sostennero i Numi.
Giacquero quivi; e sopra si stese una nuvola d’oro
bella, a coprirli; e giú ne cadevano lucide stille.
Cosí giaceva il padre, sui picchi del Gàrgaro, vinto
dal sonno e dall’amore, stringendosi in braccio la sposa.
E corse allora Sonno soave alle navi d’Acaia,
per dar l’annuncio al Nume che stringe, che scuote la terra.
E, stando a lui vicino, cosí la parola gli volse:
«Ora a tua posta agli Achèi, Posídone, reca soccorso,
e la vittoria ad essi concedi, e sia pure per poco,
sino a che Giove dorme: ché infusi letargo profondo
su lui, poi ch’Era l’ebbe sedotto in un laccio d’amore».
Poseidone suggerisce agli Achei di stringersi e ripararsi con gli scudi. Aiace colpisce Ettore con un macigno; i Troiani lo portano via dalla battaglia per farlo riprendere

E cosí detto, ei mosse degli uomini alle inclite stirpi,
e il Nume accese piú di prima a soccorrer gli Achivi.
Súbito egli balzò fra i primi, e die’ questi comandi:
«Argivi, ora vorremo permettere ch’Ettore vinca,
ch’arda le navi il figlio di Priamo, e riporti vittoria?
Egli cosí minaccia, si vanta cosí, perché lungi
sta su le navi Achille, che cova lo sdegno nel cuore.
Ma troppa brama avere di lui non dovrem, se noialtri
ci scaglieremo tutti, l’un l’altro esortandoci, a zuffa.
Orsú, via, tutti quanti facciamo cosí come dico:
gli scudi tutti quanti s’imbraccin piú grandi e piú saldi
che sian nel campo, i capi si copran con gli elmi lucenti,
si stringano nel pugno le lance piú lunghe, e si muova.
Io vostro duce sarò: vi dico che reggere all’urto
Ettore non potrà, per quanto furente guerriero:
Ed ogni prode ch’abbia su l’omero un piccolo scudo,
lo ceda a chi men vale, si copra d’un grande palvese».
Cosí diceva; e quelli l’udiron, gli diedero ascolto.
E i re stessi, Agamènnone Atríde, ed Ulisse, e il Tidíde,
benché fosser feriti, in ordine poser le schiere,
e, ad uno ad uno andando, faceano lo scambio dell’armi,
ed il valente indossava le buone, le fiacche il piú fiacco.
E poi ch’ebbero cinte le membra col lucido bronzo,
mossero; ed era guida Posídone ad essi, che in pugno
d’una terribil spada stringeva il lunghissimo taglio,
simile a un fulmine: a quella possibil non è farsi presso
nella battaglia tremenda: ché gli uomini orrore trattiene.
Ettore, poi, dal suo lato schierava i guerrieri di Troia.
E allor, la più tremenda guidaron tenzone di guerra,
il Dio dai crini azzurri Posìdone, ed Ettore illustre,
l’un dei Troiani, l’altro pugnando a favor degli Argivi.
Ed estuando, il mare batteva i navigli e le tende
d’Argo. E piombarono gli uni sugli altri, con grande frastuono.
Né tanto ulula il flutto del mare, battendo alle coste,
quando si leva dal ponto, pel soffio molesto di Bora,
grande non è così la romba d’un fuoco che arde
nelle convalli d’un monte, se avvampa a bruciare una selva,
né tanto grida il vento d’intorno all’altissime chiome
di querci, allor che più romoreggia con orrida furia,
quanta era allor la voce degli uomini d’Argo e di Troia,
quando con orride grida piombarono gli uni sugli altri.
Ettore primo l’asta vibrò contro Aiace, che vòlto
a lui s’era di fronte; né il colpo fallì, ma lo giunse
sul petto, ove i due bàltei distesi eran l’uno su l’altro,
l’un dello scudo, l’altro del brando dai chiovi d’argento.
Schermo alla tenera pelle gli furono quelli; ma cruccio
Ettore invase, ché vana dal pugno gli uscì la zagaglia,
e fra le schiere dei suoi si ritrasse, schivando la morte.
Ma di Telàmone il figlio, mentre egli cedeva, un macigno
tolse, di quelli, che sparsi, giacean delle navi a puntello,
dei combattenti al piede; lo alzò, lo vibrò, sopra, l’orlo
lo giunse dello scudo, nel petto, a la base del collo,
come un palèo lo scosse, lo fe’ barcollar d’ogni parte.
Come sottesso il colpo di Giove giù piomba una quercia
dalle radici, e da lei s’effonde un odore di zolfo
orrido; e a chi da presso lo vede, non regge il coraggio,
però che la saetta di Giove possente è tremenda:
cosi d’ Ettore cadde la forza di sùbito al suolo,
la lancia gli sfuggi, rovesci gli caddero sopra
l’elmo e lo scudo, su lui suonarono l’armi di bronzo.
E sopra lui con grandi urli piombarono i figli d’Acaia,
per trascinarlo via, lanciandogli fitte zagaglie.
Niuno, però, potè’ ferire il pastore di genti,
né saettarlo: ché prima gli furono attorno i più prodi,
Polidamanle, Enea, Agènore simile a un Nume,
Glauco di macchia immune, Sarpèdone sire dei Liei.
Né alcun vi fu che cura di lui non si desse; ma tutti
stesero gli ampi scudi rotondi, a schermirlo. E i compagni,
toltolo su le braccia, lo trasser lontan dalla pugna,
sin che fu giunto ai cavalli, che, lungi al tumulto di guerra
stavano con l’auriga, col cocchio dipinto, in attesa.
Ma quando poi fur giunti del fiume a la bella corrente,
del vorticoso Xanto, figliuolo di Giove immortale,
ivi dal carro lo posero giù, lo spruzzarono d’acqua.
Quivi recuperò lo spirito, in su volse gli occhi,
su le ginocchia si alzò, vomitò negro sangue; e di nuovo
poi s’abbatté su la terra, di nuovo sugli occhi gli corse
tènebra oscura: ché il colpo teneva ancor l’anima oppressa.
Gli Achei, ora che Ettore è lontano, prendono ancor più vigore

Ora, come Ettore lungi dal campo ebber visto gli Argivi,
con più furia impegnaron la zuffa, e piombar sui Troiani.
Quivi, primissimo Aiace, veloce figliuol d’Oilèo,
balzò dietro, e feri con la lancia il figliuolo d’Enòpo,
Satnio: lui generò, non tocca da menda, una Ninfa
a Enòpo, che le greggi guardava lunghesse le sponde
del Satnioènto. Aiace, di dietro gli giunse vicino,
e lo feri sul fianco. Quei cadde; e Troiani ed Achivi
d’intorno alla sua spoglia si strinsero in orrida zuffa.
Polidamante corse, maestro di lancia, a riscossa,
figlio di Panto, e colpi Protoènore all’omero destro,
figlio d’Ariloco; l’asta passò, parte a parte, la spalla:
ei tra la polvere cadde, stringendo col pugno la terra.
Ed un vanto orrido Polidamante levò, con grandi urli:
« Vana al ricambio, mi pare, del figlio animoso di Panto
dalla gagliarda mano balzata non è la saetta;
qualcuno degli Argivi l’accolse nel corpo; e su quella
potrà, credo, poggiato, discendere ai regni d’Avemo ».
Cosí diceva. E cruccio quel vanto destò negli Achivi;
e più d’ogni altro, Aiace figliuol di Telàmone, a sdegno
si mosse: ch’era a lui caduto da presso il ferito;
e gli lanciò, mentre egli cedeva, la lucida lancia.
Polidamante schivò, con un balzo di fianco, la Parca
negra; e colpito il figlio d’Antènore, Archèloco, giacque,
ché i Numi aveano a lui decretato il destino di morte.
Il colpo giunse dove s’innestano il capo ed il collo,
proprio nell’ultima vertebra; e i tendini entrambi recise,
si che la testa, la bocca, le nari toccarono il suolo
assai prima, quand’egli piombò, che gli stinchi e i ginocchi.
E Aiace, allora, a Polidamante levò questo grido:
«Pènsaci sopra, Polidamante, e poi parlami il vero:
non è giusto compenso, quest’uomo, a Protènore ucciso?
Non pare a me ch’ei sia dappoco, né figlio a dappoco:
fratello egli è di certo d’Antènore, oppure suo figlio,
ché a lui ben trasparia dal viso la stessa progenie».
Disse: ché ben sapeva chi fosse. E di cruccio i Troiani
furono pieni; e Acamante balzò del fratello a difesa,
e con la lancia colpi Promàco beota, che il corpo
traeva ai piedi. E un vanto levò, con grande urlo, Acamante:
« Millantatori Argivi, non mai di minacce satolli,
non tocca a noi soltanto la pena ed il pianto di guerra,
ma qualche volta anche voi dovete cadere trafitti.
Vedete come dorme, ché l’ha questa lancia atterrato,
Pròmaco vostro, perché non tardi la debita ammenda
al fratei mio: ché appunto per questo, desidera un uomo
che resti alcuno in casa: per far di sua morte vendetta».
Disse. E gli Argivi a quel vanto s’intesero tutti crucciati.
Ma più d’ogni altro s’intese Penèleo sconvolgere il cuore,
e si lanciò su Acamante. Né attese costui la sua furia.
Ilionèo fu invece colpito, figliuol di Forbante,
ricco di molte greggi. Ermète, su tutti i Troiani
l’amava; e più che a tutti gli avea conceduto ricchezze:
Ilionèo, la sposa gli diede, non altri figliuoli.
Penèleo lo feri sotto il ciglio, nel cavo dell’occhio,
e gli sgusciò la pupilla; e, l’occhio forando, la punta
passò fuor dalla nuca. Giù cadde seduto il ferito,
tendendo ambe le braccia. Penèleo trasse la spada,
un colpo gli vibrò nel mezzo del collo, e la testa
recise, via con l’elmo; nell’occhio, la solida lancia
era tuttora infissa. A mo’ d’ un papavero, il capo
ei sollevò, lo mostrò, con simile vanto, ai Troiani:
« Da parte mia. Troiani, al padre e alla madre del vago
Ilionèo, recate l’annuncio che piangano il figlio:
poi che neppure la sposa di Pròmaco, Alegenoride,
s’allegrerà dello sposo, che torni quel di che da Troia
ritorneranno sopra le navi i figliuoli d’Acaia! ».
Cosídiceva, e tutti da un tremito furono invasi;
e ognun cercava dove potesse fuggire la morte.
Ditemi adesso, o Muse che avete soggiorno in Olimpo,
chi primo fra gli Achèi guadagnò spoglie umane cruente,
poi che la ptugna il Nume che scuote la terra, rivolse.
Aiace primo fu Telamònio, che il figlio di Girtio
uccise, Irtio, signore dei Misi dal cuore gagliardo.
Archiloco, la vita poi tolse a Mèmero e a Falce;
poi Merióne uccise con Mónde Ippoti’one.
Teucro tolse di vita Protènore con Perifète.
Spense l’Atride il pastore di genti Iperènore: al fianco
ei lo percosse: il bronzo nei visceri entrò, ne fe’ strazio:
l’anima via dallo squarcio volò, dalla piaga, in gran furia,
e sulle ciglia a lui ristette la tènebra. E Aiace,
il figlio pie’ veloce d’ Oilèo, diede a molti la morte;
perché niun lo agguagliava nel corso a inseguire fuggiaschi,
quando gittasse Giove fra loro il terror della fuga.
Giove si sveglia e scopre che Era lo ha ingannato. Lei si difende dicendo che Poseidone ha guidato gli Achei di sua volontà. Giove le dice di mandargli Iride e Apollo. Iride dovrà dire a Poseidone di lasciare la battaglia, e Apollo dovrà infondere nuova forza ai Troiani.
Ora, poiché, fuggendo, di là dalla fossa e dai pali
furono giunti, e molti, per mano dei Dànai, spènti
presso i lor carri, infine, trattenner la fuga i Troiani,
pallidi pel timore, disfatti. — E sui picchi dell’Ida
Giove si ridestò, presso ad Era dall’aureo trono.
Surse, d’un balzo, il Nume; e vide i Troiani e gli Achivi,
quelli volgendosi a fuga, da tergo incalzandoli questi,
che seco avean compagno il Nume che scuote la terra.
E vide Ettore al piano giacente, e d’intorno i compagni.
Privo di sensi egli era, oppresso d’anèlito grave,
sangue vomiva: ché il colpo vibrato non fu da un imbelle.
Lo vide, e pietà n’ebbe degli uomini il padre e dei Numi,
e un bieco sguardo ad Era, terribile, volse, e le disse:
« Era, di frodi maestra, di certo il tuo perfido inganno
Ettore fuor dalla pugna gittò, mise in fuga le genti.
Ora, io non so se convenga che il frutto tu gusti per prima
della tua trama iniqua, se t’abbia a sferzare di colpi.
Non ti ricordi, quando pendesti dal cielo? Una incude
ti strinsi ad ogni piede, d’intorno alle mani t’avvinsi
una catena d’oro, che non si frangeva; e nell’ètra
tu rimanesti appesa fra i nembi. Fremevano i Numi,
ma non poterono a te farsi presso, né darti soccorso,
ché chi coglievo afferravo, scagliavo dai picchi d’Olimpo,
si che alla terra giungesse sfinito. Né ancora dal cuore
tutto m’ usci l’acerbo tormento per Ercole prode,
che tu, cuore maligno, tramando con Borea l’inganno,
convinte le procelle, lanciasti sul mare infecondo,
e lo spingesti quindi ai lieti soggiorni di Còo.
Io l’affrancai di qui, sebben dopo molti travagli,
salvo alla terra d’Argo che nutre i corsieri, l’addussi.
Ricordo io te ne fo, perché tu dall’inganno desista,
perché tu veda quanto ti giovino il letto e l’amore
che tu con me, d’Olimpo scendendo a frodarmi, godesti».
Disse. Ed un gelo invase la Diva dagli occhi fulgenti,
e a lui rispose, e queste veloci parole rivolse:
«Sappia la Terra, sappia la volta superna del Cielo,
sappia di Stige l’acqua che scorre sotterra — pei Numi
è questo il più solenne d’ogni altro e terribile giuro —,
sappia la sacra tua testa, e il letto di nozze, ch’entrambi
ci accoglie, e non potrei mentire, giurando il tuo nome —
che non per mio volere soccorre gli Achivi, e sconfigge
Ettore e i suoi Troiani, il Nume che scuote la terra;
ma la sua brama stessa lo spinge, e cosí gli comanda;
ch’ebbe pietà, vedendo fiaccati gli Achei presso i legni.
Io stessa, anzi, potrò consigliarlo che batta la via,
che tu, signor che addensi le nuvole negre, gli additi ».
Cosí diceva. E rise degli uomini il padre e dei Numi,
e, a lei parlando, queste veloci parole rivolse:
« Era, oh!, se tu davvero, signora dagli occhi lucenti,
concorde essere a me nel consesso dei Numi volessi!
Che allor, sebbene ha voglie diverse, Posidone, anch’esso
la mente volgerebbe secondo il mio cuore, il tuo cuore.
Ma or, se veritiera mi parli, e con cuore sincero,
alle tribù dei Numi va’ sùbito, e fa’ che a me presso
Iride venga, e Apollo signore dell’arco d’argento;
ch’ella si rechi alle schiere dei figli d’Acaia guerrieri,
e dica al Dio che stringe la terra, che scuote la terra,
che dalla pugna desista, che torni alla casa marina;
e Febo Apollo spinga di Priamo il figlio alla zuffa,
forza di nuovo gl’ispiri, gli faccia obliare le doglie
che gli tormentano adesso lo spirito, e in fuga gli Achivi
ponga di nuovo, ad essi spirando sgomento nel cuore,
si che, fuggendo, sopra le navi d’Achille Pelide
piombino. Quei manderà l’amico suo Pàtroclo al campo.
Ettore fulgido, lui, con un colpo di lancia, sotto Ilio
abbatterà, poi ch’egli molti altri dei giovani eroi
avrà spenti, e, fra questi, mio figlio, Sarpèdone prode.
Per la sua fine, in ira salito, il Pelide, la morte
ad Ettore darà. Da quindi, farò che i Troiani
sian dalle navi sempre respinti, sin quando gli Achei
prendan l’eccelsa Troia, mercé dei consigli d’Atena.
Ma io non deporrò lo sdegno, né alcuno dei Numi
consentirò che rechi soccorso agli Argivi, se prima
compiuta non avrò la promessa al figliuol di Pelèo,
che prima feci a lui, con un cenno del capo assentendo,
quel di che le ginocchia mi strinse, pregandomi, Teti,
che onore al figlio suo di rocche eversore, rendessi».
Disse. Né tarda fu la Dea dalle candide braccia,
e dalle vette mosse dell’ Ida, si volse all’Olimpo.
Come si lancia la mente d’un uomo che molte regioni
ha visitate, e via via vagheggia lo scaltro pensiero:
fossi costì, fossi lì: ché più d’ una brama lo punge;
rapida in simile guisa, volava la Diva anelante.
Era torna all’Olimpo. Marte vorrebbe vendicare la morte del figlio Ascalafo, ma viene bloccato da Atena.

Giunse all’eccelso Olimpo, trovò tutti i Numi raccolti
dentro la reggia di Giove. Balzarono tutti dai seggi,
come la videro, e a lei offriron le coppe. La Diva
agli altri non badò, da Tèmide, gota fiorente,
il calice gradì, che prima le giunse vicina,
e, a lei parlando, queste rivolse veloci parole:
«Era, dov’eri andata? Mi par che tu sii sbigottita.
Certo il tuo sposo, il figlio di Crono, t’avrà spaurita».
E a lei cosí rispose la Dea dalle candide braccia:
«Perché mi chiedi ciò, Dea Tèmide? Tu lo sai bene,
da te, l’animo suo, com’è prepotente e superbo.
Su via, tu nella casa dei Numi presiedi al banchetto,
ché poi, con tutti gli altri Celesti sapere potrai
che tristi eventi Giove disegna: vi dico che il cuore
non gioirà del pari di tutti i mortali e dei Numi,
se pure alcuno adesso partecipa lieto al banchetto».
Detto cosi, la Dea dalle candide braccia, sedette.
E si crucciaron gli Dei nella casa di Giove. Ella rise
pur con le labbra, ma sopra le brune sue ciglia, la fronte
non s’allegrava. E, irata con tutti, cosí prese a dire:
«Stolti che siamo, sciocchi, che a Giove facciamo contrasto!
Ancor vogliamo farlo desistere, andandogli contro
con le parole, o la forza. Ma egli, seduto in disparte,
cura di noi non si dà, perché, per potenza e per forza,
supera tutti quanti, dice egli, i Celesti d’Olimpo.
Perciò, tolleri il male ch’ei manda, ciascuno di voi.
Ed Are, credo già che labbia percosso sciagura,
ché morto è in guerra quegli che amava su tutti i mortali,
Ascàlafo, che d’Are, per quanto raccontano, è figlio».
Cosí diceva. Ed Are le palme batté delle mani
su le robuste cosce, levò fieri gemiti, e disse:
« Non v’adirate con me, delle case d’Olimpo signori,
se muovo, a far vendetta del figlio, alle navi d’Acaia,
se pure è mio destino, percosso dal folgor di Giove,
a terra, fra gli estinti giacer fra la polvere e il sangue ».
Disse. Ed al carro ordinò che fossero stretti i cavalli,
Fuga e Spavento; e nell’armi lucenti si chiuse egli stesso.
E qui, certo, più acerba la collera e l’ira di Giove,
più fiera contro gli altri Celesti avvampava, se Atena,
che per la sorte di tutti gli Olimpi temeva, dal trono
dove sedeva, non fosse balzata al vestibolo; e l’elmo
trasse di capo al Dio, da le spalle gli tolse lo scudo,
l’asta di bronzo dal pugno massiccio gli tolse, e la pose
alla parete; e investi con queste parole il furente:
«Pazzo, che senno non hai, ti vuoi rovinare? Tu invano
orecchie hai per udire, ché senno e prudenza non hai.
Non senti ciò che dice la Dea dalle candide braccia,
che giunse or or da parte di Giove signore d’Olimpo?
Davvero vuoi tu stesso, rempiuta la coppa dei mali,
tornar di nuovo a forza, sebbene crucciato, in Olimpo,
e il seme, anche per gli altri Celesti, piantar d’un gran danno?
Ché presto ei lascerà gli Achivi e i superbi Troiani,
e tornerà fra noi, ponendo a soqquadro l’Olimpo,
e ghermirà via via colpevoli e immuni da colpe.
L’ira pel figlio morto, pertanto deponi, ti dico:
ché tanti altri, migliori di lui per prodezza e per forza.
o sono morti, o ancora morranno. Difficile cosa
è la progenie saldare degli uomini tutti, e le schiatte».
E, cosí detto, il Nume furente sul trono rimise.
Era convoca Iride e Apollo e li invia a Giove. Iride va da Poseidone e gli dice di smettere di aiutare gli Achei; lui inizialmente protesta, ma poi si sottomette al volere di Giove. Apollo va ad aiutare Ettore e infondergli forza.

Ed Era, poi chiamò Apolline fuor dalla reggia,
con Iri, che i messaggi recava dei Numi immortali,
e, favellando, ad essi con queste parole si volse:
«Vi vuole entrambi Giove, che all’Ida corriate al più presto;
e, poi che giunti siate, venuti al cospetto del Nume,
le sue parole, i suoi comandi ponete ad effetto».
E, cosí detto, di nuovo la Dea dalle candide braccia,
s’allontanò, sedé sul suo trono. Partirono quelli,
giunsero all’Ida irrigua di fonti, nutrice di fiere:
Giove trovarono qui, su la vetta del Gàrgaro estrema,
seduto; e a lui dattorno di nuvole un serto fragrante.
Giunti dinanzi a Giove che i nuvoli negri raduna,
stettero i due; né l’ira pervase la mente del Nume,
poi che ubbiditi vide cosí della sposa i comandi.
E prima ad Iri queste veloci parole rivolse:
«Iride, muòviti, corri veloce, e a Posidone sire
reca questi ordini miei, né sii messaggera fallace:
digli che ornai desista da pugne e da zuffe, e che torni
alla tribù dei Numi, di nuovo, ed al mare divino;
ché poi, se i detti miei non vuole ascoltare, e li spregia,
rifletta bene a questo, consideri bene: non osi
starmi di fronte, per quanto sia forte, se io lo assalisco,
perché molto di forze, ti dico, lo supero; e nato
sono prima di lui, per quanto il suo cuore non tremi
di dirsi uguale a me, che faccio tremare tanti altri».
Cosí diceva; ed Iri dal piede di vento, fu pronta,
e dalle vette mosse dell’ Ida verso Ilio la sacra.
Come scoscende giù dalle nuvole grandine o neve
gelida, sotto la spinta di Bora che nasce nell’ètra,
Iri cosí passò per l’ètere, a volo veloce,
e stette al Nume presso che scuote la terra, e gli disse:
«Nume dal crine azzurro, che cingi la terra, un messaggio
venni a recarti qui, da parte di Giove possente:
ei vuol che tu desista da guerre e da pugne, e che tomi
alla tribù dei Numi, di nuovo, ed al mare divino.
Ché poi, se i detti suoi rifiuti ascoltare, e li spregi,
minaccia fa che qui verrà, per pugnar fronte a fronte
contro di te; ma t’esorto di stare lontan dal suo braccio:
ché molto egli ti vince, per quanto egli dice, di forze,
e di te prima è nato, sebbene il tuo cuore non tremi
di dirsi uguale a lui, che pur fa tremare tanti altri».
E a lei, crucciato, il Nume che scuote la terra, rispose:
«Ahimè, troppo superbo, per quanto sia prode, favella,
se vuol di forza, contro mia voglia, frenarmi. D’onore
son pari a lui. Tre siamo, da Rea generati, fratelli,
figli di Crono: io, Giove, terzo Ade, signor dei defunti.
Tutto in tre parti fu diviso, ebbe ognuno la sua.
Furono tratte le sorti. Io m’ebbi il perenne soggiorno
nello spumante mare: ebbe Ade le tènebre e l’ombra:
ottenne Giove il cielo, nell’ètere eccelso, fra i nembi:
la Terra e il grande Olimpo, rimangon possesso comune.
Per questo, a modo mio vivrò, non a modo di Giove,
per quanto ei sia possente. Rimanga nel regno ch’è suo,
né sgomentarmi, come s’io fossi un dappoco, pretenda,
col braccio suo. Sarà molto meglio che i figli e le figlie
ch’ei generò, spaventi con queste minacce tremende;
quelli ai comandi suoi dovranno, anche a forza, ubbidire».
Ed Iri a lui, la Diva che i piedi ha di vento, rispose:
«Sire dal crine azzurro, che cingi, che scuoti la terra,
riporterò questi aspri superbi tuoi detti al Cronide,
o un po’ vorrai piegarti? Pieghevole è il cuore dei buoni:
degli anziani, l’Erinni, lo sai, seguon sempre le parti».
E a lei rispose il Nume che cinge, che scuote la terra:
«0 Dea, queste parole che dici, son molto opportune,
e bene è che a giustizia s’ispiri, chi reca un messaggio;
ma questo è fiero cruccio che il cuore e lo spirito opprime,
quando ei con iraconde parole rampogna chi pari
è nei diritti a lui, soggetto allo stesso Destino.
Pur, questa volta voglio, sebbene adirato, piegarmi;
ma un’altra cosa dirti, ma questa minaccia vo’ fare:
se contro il mio volere, se contro il volere d’Atena
vaga di prede, e d’Era, d’ Ermète e d’ Efesto sovrano,
l’eccelsa Ilio vorrà risparmiare, né abbatterla al suolo
vorrà, né la vittoria concedere ai figli d’Acaia,
sappia che l’ira mai si potrà nei cuor nostri placare ».
E cosí detto, lasciò gli Achivi, Posidone, e mosse
al mare, e vi s’immerse; né più lo trovaron gli Achivi.
E allora, il Dio che aduna le nuvole, disse ad Apollo:
« Febo, diletto mio, cerca Ettore armato di bronzo,
però che il Dio che stringe la terra, che scuote la terra,
mosse al divino mare, schivò la mia collera fiera:
se no, di nostra zuffa saputo anche avrebbero i Numi
ch’ànno soggiorno sotterra, che vivono a Crono d’intorno.
Ma molto meglio è stato per me, molto meglio per lui,
ch’egli, sebbene irato, schivò di mie braccia la furia:
ché non poteva senza sudore finir la contesa.
Ora, via, dunque, in pugno questa ègida ornata di frange
tu stringi, e metti in fuga, squassandola forte, gli Achivi.
E cura, abbi tu stesso, Signore che lungi saetti,
d’Ettore: in lui gran possa ridesta, sin quando alle navi,
all’Ellesponto, in fuga sospinti, pervengan gli Achivi.
Di li provvederò, con parole o con opere, io stesso,
ch’abbiano, infine, qualche sollievo gli Achei dal travaglio».
Cosí diceva. E Apollo fu pronto al comando del padre,
e dalle vette dell’ Ida si mosse; e pareva sparviere
che le colombe strugge, che supera al volo ogni uccello.
Ed Ettore trovò, di Priamo il figlio divino,
che non giaceva più. Sedeva; e lo spirto, di nuovo
ripreso, attorno a sé ravvisava i compagni; e cessati
erano affanno e sudore, ché Giove l’aveva riscosso.
Standogli presso, il Nume che lunge saetta, gli disse:
«Ettore, figlio di Priamo, perché qui, lontano dagli altri,
siedi spossato? Qualche dolore t’opprime di certo».
Ettore, ancora spossato, rispose con queste parole:
«E chi sei tu, benigno fra i Numi, che questo mi chiedi?
Non sai dunque, che presso gli estremi navigli d’Acaia
il valoroso Aiace, mentre io gli abbattevo i compagni,
me con un gran macigno percosse, fiaccò le mie forze?
Ed io credevo ch’oggi fra i morti alla casa d’Averno
sceso sarei: ché il cuore mancar mi sentivo nel petto».
E allora Apollo, il Nume che lunge saetta, rispose:
«Ora fa’ cuore: tale dai picchi dell’Ida un compagno
che ti stia presso e difenda ti manda il figliuolo di Crono:
me, Febo Apollo, il Dio dall’aurea spada, che sempre
uso a difesa tua vegliare, e di Troia l’eccelsa.
Dei cavalieri, su’ via, sospingi le fitte coorti,
che spingan verso i neri navigli i veloci cavalli:
io spianerò, dinanzi movendo ai corsieri veloci,
tutta la via, farò che vadano in fuga gli Achivi».
Cosí dicendo, infuse vigor nel pastore di genti.
Come, satollo d’orzo, corsiere in riposo alla greppia,
che usato era bagnarsi nei puri lavacri d’ un fiume,
spezza i legami, e via si lancia sul piano a galoppo,
altero incede, leva superba la testa, e sul collo
agita il crine, e di sua beltà baldanzoso, si spinge
a gran lanci fra gli altri corsieri, ed al pascolo usato:
Ettore similemente, le gambe ed i piedi affrettava,
poscia che udí la voce del Nume, a eccitare i guerrieri.
E allora, come cervo cornigero o capro selvaggio,
quando a inseguirlo bifolchi si lanciano e cani, rifugio
sopra una rupe trova scoscesa, o fra l’ombre d’ un bosco,
però che suo destino non era che qui fosse preso;
ma ecco, a quel frastuono compare animoso leone,
e tutti allor, per quanto feroci, si dànno alla fuga;
similemente i Dànai, sin qui, su le schiere nemiche
piombati erano in massa, con l’aste affilate e le spade;
ma quando Ettore sopra le genti schierate piombare
videro, tutti il cuore cader si sentirono ai piedi.
Gli Achei sono stupiti nel rivedere Ettore. I più forti decidono di affrontarlo. Ma Ettore è sostenuto da Apollo, che con il suo scudo annebbia la mente degli Achei.
E disse allora ad essi Toante, d’Andrèmone figlio,
ch’era degli Ètoli il primo, valente a scagliar giavellotti,
prode a combatter da presso, né molti fra i giovani Achei
lo superavano, quando fra loro sorgesse contesa
nell’assemblea; parlò costui, che pensava pel meglio:
«Ahimè, quale prodigio vedere non debbon questi occhi!
Dunque di nuovo è risorto, sfuggendo alle Parche di morte,
Ettore! E si, ciascuno nutriva certezza che i colpi
del Telamonio Aiace l’avessero ucciso. Qualcuno
certo, protetto l’ha, salvato ha di Priamo il figlio
che le ginocchia fiaccò di tanti guerrieri d’Acaia,
come anche adesso avverrà, mi credo: ché senza volere
di Giove, ei non s’avanza cosí furioso alla pugna.
Ma su, come io vi dico, cosí tutti adesso facciamo:
ordine diamo alle turbe che tornino presso le navi;
e noi, quanti abbiam vanto che siam fra gli Achivi i più prodi,
stiamo, se mai si possa fermarlo, facendogli fronte,
contro puntandogli l’aste: per quanto bramoso di zuffe,
non oserà dei Dànai, credo io, penetrar fra le schiere».
Cosí diceva. E quelli l’ udiron, gli diedero ascolto.
Essi d’intorno ad Aiace si strinsero, ad Idomenèo,
a Teucro, a Meríóne, a Mege, l’ uguale di Marte;
e a sé tutti i più forti chiamando, sostenner la pugna
contro Ettore ed i fieri guerrieri di Troia: più dietro,
tutta la turba fece ritorno alle navi d’Acaia.
Vennero al cozzo i Troiani compatti: ché innanzi, a gran passi,
Ettore andava, e dinanzi ad Ettore, Apolline Febo,
che d‘ una nube aveva le spalle ravvolte, e stringeva
l’ègida orrenda, abbagliante, villosa, sterminatrice.
Efesto, il fabbro, data l’aveva al figliuolo di Crono,
ché sbigottisse i mortali: nel pugno, a guidare le genti,
or la stringeva Febo. Serrati attendevan gli Achivi,
e acuto il grido surse da entrambe le parti; e dagli archi
frecce volavano, e molte zagaglie dai pugni gagliardi:
queste, a trafigger le membra dei giovani pronti alla pugna,
quelle nel mezzo, prima di giungere ai candidi petti,
pure di carne umana bramose, restavano in terra.
Or, sinché ferma in pugno Apòlline l’ègida tenne,
frecce da entrambe le parti volavan, cadevano genti;
ma quando l’agitò dei Dànai sugli occhi, ed un urlo
alto egli stesso emise, nell’animo a tutti, stupore,
sgomento infuse; e niuno più ebbe la mente alla pugna.
Come, allorché due fiere, mentre è più profonda la notte,
scompigliano una mandra di bovi, di pecore un branco,
quando il custode è lontano, giungendo repenti: del pari
si sgomentar, fatti imbelli, gli Achivi; ché in essi terrore
Febo gittò, concesse ad Ettore gloria e ai Troiani.
Qui, sparpagliata la mischia, pugnavano, uomo contro uomo.
Ettore, Stichio ed Arcesilao tolse allora di vita,
quello ai Beoti duce, coperti di vesti di bronzo,
questo di Menesteo magnanimo fido compagno.
Enea tolse la vita a Iaso e a Medonte. Era questi
figlio bastardo d’ llèo, sovrano che ai Numi era pari:
era fratello, dunque, d’Aiace, e abitava Filàca,
dalla sua patria lungi, ché avea d’ Eriòpide ucciso
quivi il fratello, della consorte d’Oilèo, sua matrigna.
Iaso, guidati ad Ilio aveva i figliuoli d’Atene,
e lo dicevan figlio di Spelio Bucòlide. E a morte
Polidamante pose Mecisto: Polite, nel primo
scontro, die’ morte ad Echio, Agenore fulgido a Clonio.
E Paride, colpi dell’omero a sommo Deiòco,
mentre fuggiva fra i primi, passando fuor fuori la lancia.
Gli Achei fuggono verso le navi, ed Ettore li incalza, sostenuto da Apollo. Nestore prega Giove, che manda un tuono terribile. I Troiani però oltrepassano il muro, e gli Achei fuggono presso le navi, dove continuano una disperata difesa.

E mentre essi i caduti spogliavan dell’armi, gli Achivi
giù nella fossa profonda, tra i pali gittandosi a furia,
fuggivano qua e là, riparando sconfitti entro il muro.
E con un urlo, ai Troiani volse Ettore questo comando:
«Sopra le navi irrompete, lasciate le spoglie cruente!
Chiunque troverò vólto altrove, lontan dalle navi,
quivi gl’ infliggerò la morte, né amici ed amiche
sarà che lui defunto partecipe faccian del rogo:
strazio dinanzi alla nostra città ne faranno le cagne».
E, cosí detto, la sferza vibrò su la groppa ai cavalli,
da schiera a schiera grida lanciando ai Troiani; e,’concordi,
quelli, con fiere grida, spingevano carri e cavalli,
con infinito clamore. E Apolline Febo, dinanzi
agevolmente, coi piedi, le ripe del fosso profondo
fece crollare giù, nel mezzo formando il passaggio
d’ un ponte, largo, e lungo quant’è la gittata d’ un’ asta,
quando la scaglia un uomo che vuole provar la sua forza.
Qui si lanciarono tutti, serrati in falange; ed Apollo
l’ègida orrenda innanzi scoteva; e abbatté degli Achivi
agevolmente il muro, cosí come abbatte un fanciullo
la sabbia presso al mare, che prima l’ammucchia a trastullo,
e per trastullo, poi, coi piedi e le mani l’abbatte.
Saettatore Febo, cosí la fatica e le pene
tu degli Achèi rovesciasti, volgendoli a fuga dirotta.
Stettero pure, infine, fermandosi presso alle navi,
l’uno esortando l’altro, volgendo le supplici mani
a tutti i Numi, voti levando a gran voce, e preghiere.
E più che gli altri, al cielo stellato levando le braccia.
Nèstore, gran baluardo d’Acaia, levò questa prece:
«Giove, se alcuno mai, in Argo ferace di spelta,
le pingui cosce ardendo di pecora o bove, il ritorno
ebbe a implorarti, e tu concedesti promessa ed assenso,
or lo rammenta, e lungi da noi tieni il giorno fatale,
e non lasciar gli Achèi sopraffare cosí dai Troiani».
Cosí disse pregando. Scagliò Giove saggio un gran tuono,
ché le preghiere udí del vegliardo figliuol di Nelèo.
Ed i Troiani, udita la romba del sire d’Olimpo,
balzar sopra gli Achèi con più furia e più ardore di zuffa.
Come su l’ampia distesa del pelago, un gran cavallone
sovra le sponde piomba d’ un legno, se il vento l’incalza,
con la sua furia, che suole dal fondo sconvolgere i flutti:
cosi traverso il muro passar con grandi urli i Troiani,
e, spinti innanzi i carri, pugnarono presso le navi,
a fronte a fronte, questi dai carri, con l’aste affilate,
e da le navi quelli, che v’erano sopra saliti,
con lunghe stanghe, fatte di pèrtiche insieme congiunte,
di bronzo armate in cima, adatte alle pugne navali.
Patroclo lascia Euripilo e va a parlare ad Achille per convincerlo a tornare in battaglia. I Troiani assediano le navi; Aiace non riesce a fermare Ettore e chiama il fratello Teucro, abile arciere, in aiuto. Teucro mira ad Ettore, ma Giove gli spezza la corda dell’arco
Patroclo, intanto, finché pugnarono Achivi e Troiani
intorno al muro, lungi dai legni veloci d’Acaia,
rimase entro la tenda d’Euripilo cuore cortese,
e di parole conforto gli dava, e la cruda ferita,
per mitigar la doglia, di farmachi leni spalmava;
ma quando vide poi che i Troiani passavano il muro,
e che seguia fra i Danai sgomento, e si davano a fuga,
allora poi, levò lamenti, batté su le cosce
ambe le palme, e queste parole fra i gemiti disse:
«Euripilo, non posso, per quanto bisogno tu n’abbia,
qui rimaner: troppo è fiera la lotta che adesso s’impegna.
Di te cura si dia lo scudiere; ed io corro ad Achille,
se mai lo convincessi ch’ei voglia tornare alla pugna:
chi sa che con l’aiuto d’un Dio, non lo faccia convinto
coi miei discorsi? Assai può fare, esortando, un amico».
Cosí disse; e parti con passi veloci. E gli Achivi
fermi attendeano i Troiani. Ma invano cercavan tenerli
sebbene eran più scarsi di numero, lungi dai legni;
né poi quelli di Troia poteano spezzar le falangi
dei Dànai, e fra le tende cacciarsi e le navi d’Acaia:
bensí, come cordella che drizza una trave navale
in man d’ un fabbro esperto, che tutti i segreti dell’arte
bene conosce, ché a lui maestra fu Pàllade Atena:
pari fra quelli cosí si svolgeva, e accanita, la lotta.
Ed altri ad altre navi d’intorno stringeva la zuffa.
Ettore contro Aiace guerrier glorioso, era mosso,
e s’affannavano entrambi d’intorno a una nave; né quegli
poteva Aiace lungi scacciare, e bruciare la nave,
né lui poteva l’altro respinger: ché un Dio lo eccitava.
Aiace qui colpí Calètore, figlio di Clizio,
con l’asta, in mezzo al petto, mentre egli accorreva col fuoco:
diede cadendo un rimbombo, di mano gli cadde la face.
Ettore, come si vide cader sotto gli occhi il cugino,
giù nella polvere, spento dinanzi al suo nero naviglio,
alta levò la voce, die’ ordine ai Liei e ai Troiani:
«Liei, Troiani, e voi, valenti a combatter da presso,
Dàrdani, in simile stretta lasciar non vogliate la pugna,
bensí di Clizio il figlio correte a salvare, ché l’armi
non gli depredin gli Achivi: ch’ei cadde vicino alle navi».
Detto cosí, lanciò contro Aiace la fulgida lancia;
ma lo sbagliò, colpí Licòfrone, a Mèstore figlio,
ch’era scudiere d’Aiace. Nato era a Citèra; ma quivi
aveva ucciso un uomo; ed ora vivea presso Aiace.
Ettore lo colpí, che stava vicino ad Aiace,
sotto l’orecchio, con l’asta fulgente: piombò dalla poppa
giù nella polvere, a terra, sciogliendo supine le membra.
Còlto d’ un brivido, allora cosí disse Aiace al fratello:
«Teucro diletto, vedi che spento è di Mèstore il figlio,
fido compagno, che noi, quando egli fra noi dimorava.
onoravamo al pari dei nostri parenti. L’ uccise
Ettore adesso, cuore magnanimo. Su, dov’e l’arco,
dove le frecce’ fatali che Apolline Febo ti diede?».
Cosí diceva. E quegli l’udiva; e gli corse vicino,
l’arco nel pugno, e, colmo di dardi, stringendo il turcasso;
e sui Troiani saette scagliava con rapida furia.
E qui Clito colpi, di Pisènore il fulgido figlio,
ch’era compagno di Polidamante, figliuolo di Panto,
mentre reggeva le briglie; ché egli attendeva ai cavalli,
e li guidava dove più fitte cozzavan le schiere:
ché dei Troiani cercava le grazie egli, e d’Ettore. E presto
piombò su lui sciagura, né alcuno poteva impedirla:
perché l’amara freccia gli giunse di dietro, alla nuca.
Ei piombò giù dal carro, balzarono indietro i cavalli,
vuoto scotendo il carro. Fu pronto a vederlo il signore,
Polidamante, e primo si fece dinanzi ai cavalli,
e di Protàone al figlio li diede, ad Astrnoo; e molto
raccomandò che presso tenesse, e guardasse i cavalli;
ed ei mosse di nuovo, fra i primi a combatter fu misto.
E Teucro, un’altra freccia contro Ettore armato di bronzo
lanciava; e si l’avrebbe mandato lontan dalle navi,
se, mentre ei qui pugnava, colpito l’avesse ed ucciso.
Ma Giove ben lo scòrse, che d’ Ettore a guardia vegliava,
e toglier volle a Teucro, figliuol di Telamone, il vanto,
e gli spezzò la corda ritorta dell’arco perfetto,
mentre su lui toglieva la mira. Lontana la freccia
grave di rame sbandò, dalle mani giù l’arco gli cadde.
E Teucro abbrividì, cosí si rivolse al fratello:
«Miseri noi, dunque è vero, che un dèmone tronca i disegni
della battaglia nostra, che l’arco di mano mi svelse,
e il nervo franse, or ora ritorto, ch’ io stesso vi strinsi
stamani, ché reggesse, per molti che fossero, ai dardi.
E a lui queste parole parlò di Telamone il figlio:
«0 caro, lascia l’arco da parte, e le rapide frecce,
poscia che vane un Dio te le rese, che invidia gli Argivi,
stringi la lunga zagaglia, sugli omeri gitta lo scudo,
e coi Troiani tu stesso combatti, e fa cuore alle genti.
Non prenderanno, sebbene siamo or sopraffatti, le navi,
senza fatica: prove daremo del nostro valore».
Cosí gli disse. E l’arco lasciò nella tenda il fratello.
Sopra le spalle uno scudo di cuoio quadruplice pose,
bene costrutto; un elmo sul capo gagliardo, di chiome
equine adorno: sopra, tremendo accennava il cimiero;
prese una salda lancia, dal cuspide aguzzo di bronzo;
e mosse; e fu ben presto, correndo, vicino ad Aiace.
Ettore incita i Troiani, Aiace gli Achei. Muoiono i troiani Dolope e Melanippo.

Ettore, poi, come vide le frecce di Teucro fallire,
levando un alto grido, si volse ai Troiani ed ai Liei:
«Liei, Troiani, e a pugnare da presso voi, Dàrdani, prodi,
uomini siate, amici, volgete alla fiera battaglia
tutto l’animo vostro: ché io con questi occhi ho veduto
fiaccate in pugno a un prode, per mano di Giove, le frecce.
È ravvisar la possa di Giove ben facile impresa
per i mortali, sia per quelli a cui gloria concede,
sia per quelli a cui nega soccorso, e li vuole depressi,
come or vuole depressi gli Argivi, e soccorre i Troiani.
Serratevi, su’ via, piombate sui legni; e se alcuno
debba, trafitto o colpito, soccombere al fato di morte,
muoia: non è senza gloria morir difendendo la patria.
E salva la sua sposa sarà, saran salvi i suoi figli,
intatti i beni suoi saranno e la casa, se un giorno
con le lor navi gli Achèi dovranno tornare alla patria».
Queste parole, l’ardire, la furia eccitaron di tutti.
E d’altra parte, Aiace, tal grido rivolse ai compagni:
«Vergogna, Achei! Niun altro partito ora c’è, che salvezza
cercar, lungi dai legni cacciando il nemico, o morire.
Forse sperate, se i legni strugge Ettore prode, che possa
a piedi ognun di voi tornare alla terra patema?
E non udite dunque come Ettore incita le genti
tutte, com’egli brama dar fuoco alle navi d’Acaia?
A danza ei non l’invita: che corrano a pugna l’invita;
e qui non c’è per noi consiglio né avviso migliore
che fronte opporre a fronte, mescendo la furia e le mani:
meglio in un punto solo morire o salvare la vita,
che in una pugna esosa distruggersi in lento martirio,
presso alle navi qui, contro gente di noi meno forte».
Queste parole, l’ardire, la furia eccitaron di tutti.
Ettore allora Schedio colpi, di Perimede figlio,
capo ai Focesi: cadde d’Antènore il nobile figlio,
Laodamante, ai colpi d’Aiace: era duce ai pedoni:
Polidamante tolse la vita ad Otone Cillenio,
compagno di Filide, signor dei magnanimi Epèi.
Mege lo vide, e su lui piombò; ma si trasse di fianco
Polidamante, e il colpo falli, poiché Febo non volle
che fra le prime schiere cadesse il figliuol di Pantòo;
e Cresmo invece fu colpito nel mezzo del petto:
piombò rombando; e quegli dagli omeri l’armi gli tolse.
Dòlope intanto su lui balzò, gran maestro di lancia,
figlio di Lampo, degli aspri cimenti ben pratico: Lampo
figlio di Laomedonte, fu il primo fra gli uomini tutti.
Fattosi presso a Filide, la lancia nel mezzo allo scudo
ei gli vibrò; ma il colpo schermiva la salda corazza
ch’egli portava, tutta composta di piastre: Filèo
l’avea recata un giorno da Efira, dal fiume Sellento,
ché a lui l’ospite Eufète, signore di genti, la diede,
ché la portasse in guerra, riparo dai colpi nemici,
come proprio or le membra del figlio schermi dalla morte.
E Mege lui colpi nell’elmo crinito di bronzo,
a sommo del cimiero, con l’asta dal cuspide aguzzo,
e ne recise via l’equino cimiero, che tutto
cadde, com’era, tinto da poco di porpora, al suolo.
Mentre Dòlope ancora pugnava, e sperava vittoria,
giunse, a rincalzo, il prode guerrier Menelao, che furtivo
stette di fianco a lui, gli piantò ne la spalla la lancia.
Avidamente il petto la punta, spingendosi innanzi,
passò da parte a parte: mancò, cadde quegli boccone.
Megète e Menelao si lanciarono entrambi, per tòrgli
l’arme di bronzo, e predarle. Ma Ettore un grido ai fratelli
rivolse: a tutti; e primo sgridò Melanippo gagliardo,
d’Ichetaóne figlio. Costui, per l’innanzi, a Percòte
pasceva i lenti buoi, sin ch’erano lungi i nemici;
ma poi che degli Achivi fur giunte le rapide navi,
era tornato ad Ilio, distinto fra tutti i Troiani,
ospite in casa del re, che al pari d’un figlio l’amava.
Ettore a lui parlò, volgendogli questa rampogna:
« 0 Melanippo, dunque cosí cederemo? Né punto
ti si sconvolge il cuore, vedendo il cugino trafitto?
Non vedi, quanta ressa per l’armi di Dòlope? Resta,
seguimi: più non si può combatter da lungi gli Argivi:
bisogna, o tutti adesso finirli, o che abbattan la rocca
di Troia, e facciano essi sterminio di tutti i Troiani».
Cosí diceva, e mosse; con lui Melanippo anche mosse.
E il Telamonio Aiace spronava a sua volta gli Argivi:
«Uomini siate, amici, l’onore vi dòmini l’alma,
e l’uno abbia vergogna dell’altro, nei cozzi di guerra:
più di frequente si salva, chi bada all’onore: chi fugge,
nessuna gloria avrà, né per questo sarà più sicuro».
Cosídiceva. E quelli, che pure anelavan la pugna,
le sue parole in cuore scolpirono, e attorno alle navi
strinser di bronzo un recinto. Ma Giove eccitava i Troiani.
E Menelao, gagliardo guerriero, ad Antiloco disse:
«Niuno è di te fra gli Achei più giovine. Antiloco, niuno
ha più veloce il piede, né più da gagliardo combatte:
vedi se puoi lanciarti, colpire qualcun dei Troiani».
Cosídiceva; e indietro tornò, poi che l’ebbe eccitato.
E quei, dinanzi ai primi balzato, guardandosi intorno,
scagliò l’asta fulgente. Si trassero indietro i Troiani,
mentre vibrava il colpo; né vana parti la zagaglia,
ma Melanippo colpi, d’ Ichetàone il figlio gagliardo,
presso una mamma, nel seno, mentre egli accorreva alla pugna.
Diede, cadendo, un tonfo, su lui rintronarono l’armi.
E Antiloco balzò su lui, come un cane si lancia
sopra un cerbiatto ferito, cui, mentre balzava dal covo,
il cacciatore colpì, gli sciolse il vigor delle membra.
Cosí balzò su te, Melanippo, Antiloco prode,
ché l’armi tue predare voleva; ma ben se n’accorse
Ettore forte; e contro gli corse nell’aspra battaglia.
Né lui, sebbene fosse fortissimo, Antiloco attese;
anzi fuggi, come fiera quando abbia compiuto un eccidio,
che, dopo ucciso un cane, un uomo alla guardia dei bovi,
prima che si raguni la turba degli uomini, fugge.
Cosí fuggiva il figlio di Nestore; e dardi dogliosi
Ettore e i suoi, contro lui scagliavan con orride grida:
egli ristette, e si volse, poiché fra i compagni fu giunto.
Ettore si getta sugli Achei, e i Troiani posso quindi arrivare fino alle navi. Nestore fa coraggio agli Achei, spaventati. Aiace combatte, ma alla fine deve anche lui ritirarsi su una nave; da qui prova a difendersi agitando una lunga trave.

Ed i Troiani, come leoni che sbranan la preda,
davan l’assalto alle navi, compiendo il volere di Giove,
che in lor fiero accendeva l’ardore, ed il cuore agli Argivi
stordiva, e gloria ad essi negava, la dava ai Troiani:
ch’egli voleva al figlio di Priamo concedere gloria,
si che gittasse sopra le navi la furia del fuoco
infaticabile, e pieno di Tètide il voto funesto
esito avesse. Appunto lo spirito saggio di Giove
questo attendeva: la fiamma veder d’una nave bruciata:
ché da quel punto avrebbe respinte le schiere troiane
lungi dai legni, avrebbe concessa la gloria agli Argivi.
Questo pensando, eccitò contro i legni dai fianchi ricurvi
Ettore, il figlio di Priamo, che tanto da sé furiava:
ei furiava, che Marte sembrava, oppur fuoco funesto
che sulle macchie infuria di selva profonda, sui monti.
Schiuma d’intorno alla bocca fioriva, e terribili, sotto
le ciglia folte, gli occhi mandavano lampi; e tremendo
l’elmo d’intorno alle tempie, mentr’ei combatteva, ondeggiava.
E Giove stesso, a lui soccorso porgeva dall’ètra,
ché a lui, che, cosí solo pugnava fra tanti guerrieri,
onore dava e gloria: ché poco doveva durare
la vita sua; ché già per lui preparava la morte
Pàllade Atena, sotto le mani d’Achille Pelide.
Ed ei franger voleva le schiere dei Dànai, tentando
dove più fitta vedeva la turba, più fulgide l’armi;
né le poteva spezzare, per quanto egli fosse furente:
ché, a torre essi ristretti, reggevano, al pari di rupe
grande, precipite, che presso il mar biancheggiante si leva,
e dei fischianti venti resiste alle corse rapaci,
dell’onde immani all’urto, che sopra gli piomban rugghiando.
Cosí gli Achivi, senza timore attendeano i Troiani.
Ed ei, tutto avvampando di fuoco, balzò fra la turba,
su vi balzò, come flutto che investe una rapida nave
sotto le nuvole, gonfio dai venti, rapace: la schiuma
tutta nasconde la nave, l’orribile soffio dei venti
empie stridendo la vela, sgomenti nel cuore, i nocchieri
restan tremando: ch’anno per poco schivata la morte.
Cosí l’anima in seno rimase percossa agli Achivi.
Ed ei, come leone feroce, che piombi su bovi
che stan nei bassi prati pascendo di vasta palude,
innumeri essi, e solo li guarda un pastore, che poco
sa con le fiere a difesa lottar dei cornigeri bovi,
e con le prime file dei bovi s’allinea sempre,
o con l’estreme; e la fiera si lancia nel mezzo all’armento,
e sbrana un bove, e tutti si sbandano gli altri: gli Achivi
tutti, cosi, per Giove, per Ettore, furono còlti
d’immenso orrore. E il solo Perifete quegli uccideva,
il micenèo, figliuolo di Còprio, che ad Ercole forte
spesso venir soleva, d’Euristio recando i messaggi.
D’un padre assai più tristo, nato era un figliuolo migliore,
d’ogni virtù: veloce nei piedi, gagliardo alla zuffa,
ed era anche per senno tenuto in Micene fra i primi.
Ad Ettore egli quivi superbo trionfo concesse:
ché, mentre ei si voltava, nell’orlo inciampò dello scudo
ch’egli portava a schermo dei dardi, che ai pie’ gli giungeva.
Cadde, impedito cosi, a terra supino; e rimbombo
orrido l’elmo levò d’intorno alle tempie al caduto.
Ettore pronto lo vide, correndo gli giunse dappresso,
l’asta nel petto gl’infisse, l’uccise vicino agli amici;
e non poterono quelli, per quanto percossi dal cruccio,
dargli soccorso: ché troppo temevano d’Ettore divo.
Giunsero innanzi alle navi; e qui li fermarono quelle
che prima erano state tirate sul lido. E i Troiani
giunsero anch’essi. Gli Argivi lasciarono allora, costretti,
le navi estreme, e, fitti, si strinsero intorno alle tende,
né si sbandarono a caso pel campo: vergogna e timore
li tratteneano; e senza mai tregua, l’un l’altro esortava.
Nestore, poi, gerenio signor, baluardo d’Acaia,
ad uno ad uno tutti pregava, pei loro parenti:
«Uomini siate, amici, vergogna vi regni nel cuore
degli altri uomini; e poi, ciascuno di voi si ricordi
dei figli, della sposa, dei beni, dei suoi genitori,
quegli che vivi ancora li serba, o a chi sono già morti.
Per tutti essi, che sono lontani, in ginocchio vi prego
che resistiate saldi, che il pie’ non volgiate alla fuga».
Spronò, cosí dicendo, la furia d’ognuno e il coraggio.
E Atena a lor dagli occhi disperse l’oscura infinita
nebbia; e una luce ad essi brillò da una parte e dall’altra,
da quella delle navi, da quella del fiero cimento.
Ettore videro allora, gagliardo alla pugna, e i compagni,
e quanti erano indietro rimasti, lontan dalla pugna,
e quanti combatteano vicino alle rapide navi.
Pago però non fu d’Aiace il magnanimo cuore
di lì restare donde fuggiti eran tutti gli Achivi,
ma delle rapide navi balzava sui ponti a gran passi,
stringendo in pugno un’asta foggiata agli scontri navali,
di venti braccia e due, coi pezzi connessi da chiovi.
E come allor che un uomo maestro a saltar sui cavalli,
poiché quattro corsieri trascelse da un numero grande,
verso una gran città li spinge, affrettandosi al piano,
sopra la via maestra: molti uomini accorrono, molte
donne a vederlo; ed egli, sul dorso or dell’ uno, or dell’altro,
si lancia, e piede in fallo non mette, e pur corrono a volo:
cosi di ponte in ponte correa su le rapide navi,
a grandi balzi, Aiace, gridava da giungere al cielo.
E, sempre orride grida levando, ordinava agli Achivi
che difendesser le tende, le navi. Ma Ettore, anch’egli
non rimanea fra la turba dei saldi guerrieri troiani;
anzi, come aquila fulva, che piomba sovresso uno stormo
di svolazzanti augelli, che presso le ripe d’ un fiume
pàscono, d’oche, di gru, di cigni da l’agile collo:
Ettore anch’egli cosi, diritto a una cenila prora
contro balzò, ché Giove medesimo a tergo lo spinse
con la sua mano possente, le turbe invitando a seguirlo.
Ed aspra arse di nuovo la pugna vicino alle navi.
E tu, ben detto avresti che freschi e indefessi eran quelli
che si scontravano in zuffa: tanta era la furia di guerra.
E tale questi e quelli nutrivan credenza: gli Achivi
che qui, senza al malanno sfuggire, cadrebbero spenti;
e dei Troiani ognuno speranza nutriva nel seno
che brucerebbe le navi, che sterminerebbe gli Achivi.
Stavano gli uni cosí contro gli altri, con tali pensieri.
Ed Ettore abbrancò la poppa d’un grande naviglio,
bello, veloce per mare, sul quale venuto era a Troia
Protesilào; né di li tornò, né rivide la patria.
E dunque, intorno a questo naviglio, Troiani ed Achivi
stavano a corpo a corpo lottando; e da entrambe le parti
non attendevano i colpi lontani di frecce e zagaglie,
ma stando gli uni agli altri dappresso, con sola una brama,
con affilate scuri pugnavano, e salde bipenni,
con lunghe spade, e lancie di duplice taglio. E assai brandi
belli, con l’elsa bene piantata, di nera guaina,
cadeano a terra, questi dagli omeri, quelli di mano
ai combattenti: negra la terra scorreva di sangue.
Ettore, poi, non lasciava la poppa che aveva ghermito,
ma con le mani stringendo l’aplustro, gridava ai Troiani:
«Fuoco portate, e l’urlo di guerra levate a una voce,
ché Giove, infine, un di’ ci concede che vale per mille,
per catturare le navi, se contro il volere dei Numi
vennero, e tanti cordogli c’inflisser, mercè degli anziani,
che me, quando io volevo combattere presso le navi,
sempre frenarono, ed anche le turbe rattennero. Ebbene,
se allora il saggio figlio di Giove che romba dal cielo
cieche ci rese le menti, ci esorta ora invece, e ci spinge».
Disse. E più ardenti quelli piombarono sopra gli Achivi.
Né resisteva Aiace, ché troppo dai colpi era offeso.
Ma si ritrasse un po’, credendosi giunto al suo fine,
il ponte abbandonò, si ritrasse in un banco di sette
piedi; e all’agguato, fermo qui stava, e lontani i Troiani
tenea dai legni, quanti portavan l’indomito fuoco.
E ognor volgeva ai Danai, con orride grida, il comando:
«O amici, o Danai prodi, che siete seguaci di Marte,
uomini siate, o cari, non vada il coraggio in oblio!
Forse speriamo che dietro ci siano compagni a difesa,
ci sia muro più saldo, che possa schermir la rovina?
Presso non v’è città munita di solide torri,
dove si trovi rifugio, spingendo altre genti a riscossa:
nella pianura siamo di Troia, fra genti nemiche,
siamo addossati al mare, lontan dalla terra materna:
sol nelle mani è salvezza, non già nel fiaccarsi alla pugna! ».
Cosí dicea, vibrando fremente l’aguzza sua lancia.
E quanti dei Troiani, dal mònito d’Ettore spinti,
presso le concave navi recasser la furia del fuoco,
tanti accoglieva Aiace, feriva con l’asta affilata.
Dodici ne colpi, fronte a fronte, dinanzi alle navi.
Patroclo chiede ad Achille di fargli indossare le sue armi, in modo da spaventare i Troiani, che lo scambieranno per lui. Achille acconsente, e poi gli raccomanda di tornare subito
Presso la nave, quelli cosí combattevano. Ed ecco,
Patroclo, presso ad Achille, pastore di popoli, giunse,
e lagrime cocenti piangea, come negra fontana
che l’onde oscure giù da ripida rupe devolve.
Achille pie’ veloce, pietà n’ebbe, come lo vide,
e a lui si volse, queste veloci parole gli disse:
«Perché, Patroclo, piangi, al par d’una bimba che corre
dietro la mamma, e in braccio vuol essere presa, e s’aggrappa
alla sua veste, e indugiare la fa, per quanto essa abbia fretta,
e tien gli occhi su lei lagrimosi, finché non l’ha presa?
Simile a quella, tu, molli lagrime, o Patroclo, versi?
Qualche notizia devi recare ai Mimidoni? 0 forse
a me? Qualche notizia da Ftia, tu soltanto, hai saputa?
D’Àttore il figlio, Menezio, è, dicono, ancora fra i vivi,
vive tuttora Pelèo fra i Mirmídoni, d’Èaco il figlio:
che la lor morte per noi sarebbe assai grave dolore.
Oppur tu per gli Argivi ti attristi cosi, ché li vedi
presso le navi perire, mercè della loro protervia?
Non mi celar ciò che pensi, ma parla, ch’io voglio saperlo».
Patroclo, e tu cosí rispondevi, con gemiti lunghi:
«0 tu che il primo sei di forza fra tutti gli Achivi,
non t’adirare, Achille! Gran cruccio ha prostrati gli Achivi:
però che, quanti eroi più saldi alla pugna eran prima,
giacciono tutti sopra le navi, colpiti o trafitti:
giace colpito il prò’ Diomede, figliuol di Tidèo,
giaccion feriti Ulisse, maestro di lancia, e l’Atride:
ferito nella coscia da un dardo, anche Euripilo giace.
E attorno a lor, gli esperti dei farmachi, i medici, stanno,
per risanar le piaghe, né, Achille, tu punto ti plachi.
Mai non mi colga uno sdegno siffatto, terribile eroe,
come or tu covi! Quale dei posteri avrà giovamento
da te, se da rovina tu adesso non salvi gli Achivi?
Cuore spietato! Tuo padre non fu, no, Pelèo cavaliere,
Tèti non fu tua madre: nascesti dal cerulo mare,
o da scoscesa rupe: che troppo è crudele il tuo cuore!
Se poi qualche responso dei Numi schivare tu pensi,
se qualche profezia di Giove t’ha detta tua madre,
almeno manda me, di Mirmidoni dammi una schiera,
se mai raggio di luce brillare potesse agli Argivi.
E l’armi tue concedi ch’io cinga alle membra: i Troiani
forse, credendomi te, schivare vorranno la pugna.
Solo un momento basta per dare sollievo ai guerrieri;
e facilmente, se, freschi, piombiamo sopra uomini stanchi,
lungi dai legni e le tende potremo respingerli a Troia».
Cosí disse pregando, l’ignaro, lo stolto: ché il danno
egli cosí per sé pregava, la Parca e la Morte.
E a lui, pieno di cruccio, cosí disse Achille veloce:
«Pàtroclo, ahimè!, progenie di Giove, che cosa m’hai detto?
Pensiero io non mi dò di qualche responso ch’io sappia,
nulla mi disse la pura mia madre da parte di Giove;
ma questo è fiero cruccio che il cuore mi pènetra e l’alma,
allor che un uomo voglia privare d’un bene un suo pari,
e tòrgli i doni ch’ebbe, perché lo soverchia in potere.
Questo è per me fiero cruccio; ché tanto patii nella guerra,
e la fanciulla che a me gli Achivi prescelsero in dono,
e con la lancia mia conquistai, saccheggiando una rocca,
dalle mie mani Agamennone, il forte figliuolo d’Atrèo,
rapi, come se qualche straniero spregevole io fossi.
Ma questo è ornai seguito, né più se ne parli: covare
collera eterna in cuore, possibil non è; ma pensavo
di non deporre prima lo sdegno, ma solo in quel punto
che giunga alle mie navi la furia e il tumulto di guerra.
Tu, dunque, l’armi mie fulgenti alle membra recingi,
ed i Mirmidoni vaghi di pugne, alla pugna conduci,
se dei Troiani oramai s’addensa d’intorno alle navi
nugolo negro, e le stringe possente, e alla spiaggia del mare
piegan gli Argivi, e poco di terra più ad essi rimane,
e tutta la città dei Troiani si lancia all’assalto
piena d’ardire, perché brillare non vedon da presso
il mio cimiero. Oh!, presto colmar di cadaveri i fossi
dovrebbero fuggiaschi, se meco Agamennone forte
fosse cortese! Adesso, circondano, incalzano il campo,
poiché di Diomede figliuol di Tidèo nella destra
più non infuria la lancia, schermendo gli Achèi dalla morte.
Né odo più la voce del figlio d’Atrèo, che risuoni
dall’odiosa bocca; ma d’Ettore sterminatore
strepono gli urli ai Troiani, con fiero tumulto i Troiani
empiono tutta la piana, ché vincono in zuffa gli Achivi.
Ma pure, a tener lungi dai legni l’estrema rovina,
Pàtroclo, piomba su loro con tutta la furia, ché a fuoco
metter non debbano i legni, privarci del dolce ritorno.
E dammi retta, proprio come io ti consiglio e ti dico,
sì che tu mi procacci da parte dei Danai tutti
onore e gloria, e a me la bellissima figlia di Crise
rendere debbano, e inoltre recarmi bellissimi doni.
E quando poi li avrai respinti dai legni, ritorna.
Ché, se pur d’Era lo sposo tonante la gloria t’accorda,
tu non voler più a lungo pugnar coi guerrieri troiani,
senza di me; ché, allora, minor la mia gloria sarebbe;
né per soverchia esultanza di guerre e battaglie, ti piaccia
guidar contro Ilio i nostri, ponendo a sterminio i Troiani,
ché poi non intervenga qualcuno dei Numi d’Olimpo:
ché li protegge molto Apollo che lunge saetta.
Ma toma qui, come abbia recata la luce alle navi,
e lascia pur che al piano prosegua fra loro la pugna.
Oh, deh!, se Giove padre volesse, ed Atena, ed Apollo
che dei Troiani nessuno sfuggire potesse alla morte,
né degli Achivi; e noi due sfuggissimo soli alla strage,
si che il suo serto di torri sciogliessimo a Troia da soli!».
Queste parole cosí scambiarono l’uno con l’altro.
Ettore disarma Aiace e poi incendia la nave. Patroclo indossa l’armatura di Achille, in modo da farsi scambiare per lui. Achille corre dai Mirmidoni ed elegge cinque capi
Né più reggeva Aiace: ché troppo era offeso dai colpi,
troppo il voler l’opprimeva di Giove, ed i colpi troiani.
Terribile rimbombo mandava d’intorno alle tempie
l’elmo lucente percosso: ché mai non ristavano i colpi
sopra la salda visiera. Spossata la spalla sinistra
aveva ormai, ché sempre reggeva lo scudo fulgente;
pur non poteano, per quanti vibrassero colpi, scalzarlo;
e un grande affanno il petto ognor gli opprimeva, e il sudore
giù gli scorreva a rivi da tutte le membra, e respiro
trar non poteva; e male su male incombea d’ogni parte.
Ditemi adesso, o Muse, che avete dimora in Olimpo,
chi primo fu che il fuoco gittò su le navi d’Acaia.
Ettore presso ad Aiace si fece, e colpì con la spada
grande, nel fusto, la lancia di frassino, dietro alla punta,
e ne stroncò via netta la cuspide. Aiace il troncone
ne palleggiava ancora nel pugno: non lungi da lui
cadde la punta di bronzo, mandò su la terra un rimbombo.
E intese allora Aiace, e un brivido in cuore gli corse,
l’opra dei Numi: ché Giove tonante, ogni pian di battaglia
irrito a lui rendeva, per dar la vittoria ai Troiani.
Lungi si trasse dai tiri: gittarono il fuoco i nemici
sopra la nave; e da quella s’effuse indomabile vampa.
Cosídunque la fiamma cingeva la poppa. Ed Achille
queste parole, le cosce battendosi, a Patroclo disse:
«Patroclo, stirpe di Giove, maestro a guidare cavalli,
veggo alle navi presso la furia del fuoco nemico.
Ch’abbiano a prender le navi, privarci dei mezzi di fuga!
Indossa l’armi, presto, ché intanto io raccolgo la gente».
Cosí diceva. E l’armi sue lucide Patroclo cinse.
Prima d’intorno alle gambe si cinse i fulgenti schinieri,
ch’erano da fermagli d’argento ai mallèoli stretti:
poi la corazza cinse., che al pan d’un astro fulgeva,
del figlio d’Èaco, bella: sugli omeri poscia la spada
gittò, che l’elsa aveva cosparsa di borchie d’argento;
quindi lo scudo imbracciò, ch’era grande massiccio; e sul capo
fiero l’elmetto pose, di fine lavoro, su cui
terribilmente ondeggiava d’equino cimiero la cresta;
poi, due zagaglie prese, che il palmo gli empier della mano.
Sol dell’Eàcide immune da macchia non prese la lancia
grande, massiccia, salda: niun altri potea degli Achivi
vibrarla Achille solo potea palleggiarla: era un tronco
pelio, d’un frassino: al padre d’Achille, Chirone lo diede,
che lo tagliò dal Pelio, maestra di morte agli eroi.
Poi, disse ad Automedonte che presto aggiogasse i cavalli:
lui dopo Achille, sterminio di persone, su tutti pregiava,
e fedelissimo gli era, nel reggere agli urti di guerra.
Questi, dunque, per lui strinse al giogo i veloci cavalli,
Xanto e Ballo, che al pari correvan col soffio dei venti:
a Zefiro li avea generati Podarge l’Arpia,
mentre pascea sul prato, lunghessi d’Ocèano i rivi;
e Pèdaso legò, senza pene, alle briglie del giogo,
cui, quando la città d’Etione prese il Pelide,
addusse, e che seguiva, mortale, i corsieri immortali.
E Achille ora avanzò nel campo, ed armar nelle tende
fece i Mirmidoni tutti. E simili quelli a voraci
lupi, che dentro il cuore son pieni d’ardore infinito,
che quando hanno un gran cervo cornigero ucciso pei monti,
lo fanno a brani, e i musi tutti hanno purpurei di sangue,
e poscia vanno in branco per bere a una bruna sorgiva,
a sommo l’onda bruna lambendo con lingue sottili,
fiotti eruttando di strage sanguigna: rempiuto hanno il ventre,
ma dentro il petto loro intrepida l’anima resta:
simili a questi, dei forti Mirmidoni i duci, i signori,
d’intorno al prò’ scudiere del figlio veloce d’Eàco,
fieri correvano, e Achille fra loro, che Marte sembrava,
i cavalieri ed i fanti coperti di scudo spronava.
Eran cinquanta i legni sui quali alla spiaggia troiana
era venuto il Pelide diletto ai Celesti: e in ciascuno
cinquanta suoi compagni guerrieri sedevano ai remi;
e cinque duci avea nominati, nei quali avea fede,
che comandassero agli altri: l’imperio supremo ei reggeva.
Duce era d’una schiera Menèstio dal fulgido usbergo,
figliuolo di Sperchèo, del fiume caduto dal cielo,
cui generò Polidora, la figlia di Pelèo bella,
all’indefesso Sperchèo: lei donna mortale ad un Nume:
però padre di nome fu Boro, figliuol di Perèro,
che l’ebbe, e doni grandi le offerse, legittima sposa.
Eudòro, pari a Marte, guidava la schiera seconda:
spurio: ché lui generò Polimèla, famosa nei balli,
la figlia di Filonte. La vide il possente Argicida,
e ne invaghí, mentr’ella, fra i canti d’Artèmide e i balli,
glorificava la Dea clamorosa dall’auree frecce.
Nelle superne sue stanze ascese il benevolo Ermète,
con la fanciulla giacque, le diede il magnifico figlio
Eudoro, che nel corso vincea tutti quanti, e nell’armi.
Ed ora, poi che Ilizia, la Dea delle doglie materne,
l’ebbe condotto a luce, che i raggi del sole egli scorse,
Ècheclo, il figlio gagliardo d’Attòride, sposa condusse
la donna, poi che offerta le fece d’innumeri doni;
e il vecchio Fila il bimbo raccolse, nutrire lo fece
con ogni cura e allevare, l’amò come fosse suo figlio.
Duce alla terza schiera Pisandro era, simile a Marte,
figlio di Maimalo: il primo fra tutti i Mirmidoni egli era,
dopo il compagno d’Achille Pelide, a pugnar con la lancia.
La quarta schiera, poi, guidava il vegliardo Fenice.
Alcimedonte la quinta, perfetto figliuol di Laerche.
I Mirmidoni vanno a combattere, incitati da Achille, con Patroclo e Automendonte in testa. Achille prega Giove e poi esce dalla tenda a guardare gli esiti della battaglia

Or, poi che tutte l’ebbe distinte, disposte il Pelide,
insiem coi duci loro, die’lor questo fiero comando:
«Non sia che alcun di voi, Mirmidoni, oblii le minacce
che scagliavate ai Troiani, vicino alle rapide navi,
sinché durò l’ira mia, coprendomi ognun di rampogne:
— Crudo figliuol di Pelèo, t’ha nutrito col fiele tua madre,
che presso i legni, contro lor voglia, trattieni i compagni!
Solchiamo ancora il mare coi legni, torniamo alla patria,
poiché l’anima questa maligna tua bile t’invase! —
Questo sovente fra voi contro me dicevate: ora, apparso
è della pugna il grande cimento che voi bramavate:
contro i Troiani ora ognuno combatta con cuore gagliardo!».
Cosídetto, eccitò la furia d’ognuno e il coraggio.
E, udito appena il re, più fitte si strinser le file.
Come se un uomo con pietre ben fitte compagina un muro
d’una gran casa, che possa schermire la furia dei venti:
eran cosí commessi gli elmetti e gli oblunghi palvesi:
sicché scudo era a scudo puntello, elmo ad elmo, uomo ad uomo,
e si toccavan degli elmi criniti le lucide creste,
ad ogni mossa: tanto fitti erano, l’uno sull’altro.
Stavano innanzi a tutti due uomini chiusi nell’armi,
Patroclo, ed Automedonte, che avevano sola una brama:
d’essere nella pugna dinanzi ai Mirmidoni. E Achille
nella sua tenda entrò, sollevò da un cofano bello
istoriato, il coperchio. Per lui su la nave recato
Tèti l’avea, pie’d’argento, che tuniche dentro vi pose,
e manti, per riparo dei venti, e villosi tappeti.
Ed una coppa era qui, ben foggiata; e degli uomini niuno,
toltone Achille, in quella beveva il purpureo vino,
né Achille ad altro Nume libava, ma solo al Cronide.
Questa dal cofano trasse, la purificò con lo zolfo,
prima, poi la deterse con getti purissimi d’acqua,
poi si lavò le mani, attinse il più limpido vino.
Poi, stando in mezzo al sacro recinto, volgendosi al cielo,
vino libò, pregò: né a Giove rimase nascosto:
«Giove, pelasgico re, dodonèo che lontano dimori,
che su Dodona imperi gelata, ed i Selli indovini
presso ti sono, che i pie’ non si lavan, che dormono in terra,
un’altra volta ascolto mi desti, quando io ti pregavo,
a me recando onore, colpendo la gente d’Acaia:
fa’ che compiuta anche sia la prece che adesso ti volgo.
Nel nostro campo io qui rimango, vicino alle navi;
ma il mio compagno insieme con molti Mirmidoni mando
alla battaglia: a lui concedi, Cronide, alta gloria,
e il cuore a lui nel petto rinsalda, si ch’Ettore anch’egli
sappia, che il mio scudiere combatter sa anche da solo,
oppur se le sue mani soltanto infieriscono, invitte
siano soltanto quando io mi lancio alla zuffa di Marte.
Ma poi ch’abbia respinta la zuffa e il clamor delle navi,
illeso torni a me, qui presso alle navi, con l’armi,
tutti, e i compagni suoi valenti a combatter da presso».
Cosí pregava. E il figlio di Giove dal saggio pensiero
parte concesse, parte negò di quant’egli chiedeva:
gli die’ ch’ei respingesse dai legni la guerra e il tumulto,
ma gli negò che salvo potesse tornar dalla pugna.
E poi ch’ebbe cosí pregato, libato al Cronide,
tornò dentro la tenda, nel cofano pose la coppa,
e usci di nuovo, e stette dinanzi alla tenda: ché ancora
bramava il fiero scontro mirar dei Troiani e gli Achivi.
I Troiani alla vista di Patroclo si spaventano e fuggono, credendolo Achille.

E col magnanimo Patroclo, in fila marciavano quelli,
chiusi nell’armi, finché sui Troiani balzarono in furia.
Si sparpagliarono quivi poi sùbito, simili a vespe
che il nido han su la strada, se vanno a irritarle i fanciulli
usi a molestai; sempre quanti han su la strada la casa,
senza criterio, ché a molti procacciano un solo malanno:
poiché, se qui taluno s’imbatte a passare, ed i nidi
urta senza volere, le vespe con animo ardito
volan ciascuna fuori, combattono a schermo dei figli.
Con questo cuore e questa baldanza, i Mirmidoni allora
si sparpagliar dalle navi; né mai posa avevano gli urli.
E Patroclo parlò, levando alto il grido, ai compagni:
«Mirmidoni, compagni d’Achille figliuol di Pelèo,
uomini siate, amici, mostrate la forza e il valore,
si che al Pelide onore si rechi, che primo fra i primi
è presso i legni Argivi, e prodi sono anche i compagni;
e ben vegga l’Atride possente Agamènnone, quanta
fu la sua colpa, che onore non fece al miglior degli Achivi!»
Spronò con questi detti l’ardore d’ognuno e il coraggio;
e, stretti l’uno all’atro, piombar su le navi; e le navi
per l’urlo degli Achivi, mandarono orrendo rimbombo.
Ed i Troiani, come visto ebbero Patroclo prode,
e lo scudiere suo, che tutto fulgeva nell’armi,
l’animo scosso fu di tutti, ondeggiar le falangi,
poi che credetter che presso le navi il veloce Pelide,
deposta l’ira, fosse tornato a benevoli sensi;
e ognun cercava dove trovare potesse un rifugio.
Patroclo primo il colpo vibrò della fulgida lancia,
dritto nel mezzo, dove più fitta ferveva la zuffa,
presso la nave di Protesilao magnanimo; e il colpo
feri Piracme, il duce che addotto d’Amidone aveva,
dal fiume d’Assio bello, i prò’ cavalieri Peoni.
Colpito fu nell’omero destro: levando uno strido.
cadde supino al suolo; fuggirono tutti i compagni
d’intorno a lui: ché Pàtroclo in tutti gittò lo spavento,
come ebbe ucciso il duce che primo era ognor nella zuffa.
Cosí via li scacciò dalle navi, ed il fuoco rapace
spense, e rimase lì semispenta la nave. E i Troiani
con infinito clamore fuggirono; e i Dànai su loro
via per le concave navi; né mai posa aveva il clamore.
Come allorché dalla vetta più alta d’un’alta montagna,
Giove che i folgori desta disperde la nuvola fitta,
e appaion tutti i picchi, le balze ed i vertici sommi,
e giù dal cielo erompe la luce dell’aria infinita:
cosi gli Achei, respinto dai legni l’incendio funesto,
ebbero un po’ di respiro. Né pure ebbe tregua la guerra:
perché sotto la spinta dei Dànai prodi, i Troiani
non recedevano in rotta dai negri navigli, ma fronte
faceano ancora, e a stento cedevan, lasciavan le navi.
I Troiani provano a difendersi, ma Patroclo guida avanti gli Achei; molti Troiani cadono

Qui, sparpagliata la mischia, l’un l’altro colpivansi i duci.
Pàtroclo primo fra tutti, il prode figliuol di Menezio,
colpi con l’asta aguzza nel femore il prode Arilòco,
mentre si stava voltando: passò parte a parte la punta,
ruppe la cuspide l’osso, rovescio piombò nella polve.
E Menelao, diletto di Marte, nel seno Toante
feri, dov’era ignudo, di sotto a lo scudo, e lo spense.
Filèide, còlto il punto che Ànficlo innanzi balzava,
l’asta lanciò, lo prevenne, colpendolo dove più grossa
è delle gambe la polpa: d’intorno alla punta dell’asta
franti cederono i nervi, sugli occhi la tènebra scese.
E dei Nestòridi, l’uno, Antiloco, Atimnio trafisse,
con la sua lancia aguzza, fuor fuori passandogli il fianco.
Cadde bocconi; e Mari, che vide cadere il fratello,
pieno di sdegno, l’asta vibrò contro Antiloco, stando
piantato innanzi al corpo; ma prima che il colpo partisse,
l’asta su lui vibrò Trasimède divino, e gli colse
l’omero a sommo: squarciò la punta l’estremo del braccio
via dai muscoli, e l’osso spezzò, lo recise di netto:
diede un rimbombo cadendo, sugli occhi la tenebra corse.
Or questi due cosi, di Sarpèdone prodi compagni,
spenti da due fratelli, nell’Èrebo scesero entrambi.
D’Amisodàre eran essi figliuoli, che un di’ la Chimèra
nutriva, orrendo mostro, sterminio di tanti mortali.
E balzò Aiace, figlio d’Oilèo, su Cleòbulo; e vivo
lo prese, ed impacciato nel mezzo alla calca; ma presto
sul collo lo feri con la spada sua salda, e l’uccise:
si tepefece tutta la lama nel sangue; e sugli occhi
a lui piombò la morte purpurea, e il Fato possente.
E Lupo e Penelèo piombarono l’uno su l’altro,
e l’un l’altro falli, ché invano lanciarono l’aste.
E con le spade allora si corsero incontro. E qui Lupo
colpi l’elmo crinito sul cono; ma franta la spada
rimase presso all’elsa. Penèleo sotto l’orecchio
nel collo lo colpi, sino all’elsa la spada gl’immerse.
Il capo penzolò, ché sorretto era sol da la pelle,
e cadde giù. Merione, correndo, raggiunse Acamante
e lo colpi, che saliva sul carro, nell omero destro:
dal carro giù piombò: sui cigli una nebbia s’effuse.
Idomenèo, di lancia feri nella bocca Erimanto:
la cuspide di bronzo, via via sotto il cèrebro corse,
usci dal lato opposto, spezzò Tossa candide, i denti
furono svelti via, s’empierono entrambi di sangue
gli occhi; e fuor sangue soffiò dalle nari e la bocca dischiusa.
E sopra lui s’effuse di morte la nuvola negra.
Così spensero i duci dei Dànai ciascuno un guerriero.
E come sopra agnelli si gittano lupi rapaci
o su capretti, se lungi li colgon dal gregge, sbandati,
ché li neglesse il pastore pei monti: li vedono appena,
e già sopra gl’imbelli son corsi a sbranarli: del pari
sopra i Troiani i Dànai piombarono; e quelli sgomento
ebbero solo in cuore, niun seppe resistere all’urto.
E il grande Aiace, sempre contro Ettore armato di bronzo
vibrar cercava il colpo. Ma quegli, da esperto guerriero,
sempre le larghe spalle copria con lo scudo di cuoio,
dei giavellotti la romba schivando, e la furia dei dardi.
Ben la vittoria vedeva rivolgersi adesso ai nemici;
ma, pur cosi, reggeva, schermiva i diletti compagni.
Come allorché dall’Olimpo s’avanza pel cielo una nube
dall’ètra, quando Giove addensa una furia di vento:
tale il tumulto fu, la fuga fu tal dalle navi.
Né più varcar la fossa per ordine. Ed Ettore, lungi
iva con l’armi, via tratto dai pronti corsieri; e le turbe
lasciò, che, lor malgrado teneva la fossa profonda.
E nella fossa, molti veloci robusti corsieri,
presso al timone rotti lasciarono i carri di guerra.
Pàtroclo gl’incalzava, gagliardo, ed a loro rovina
spingeva i suoi. Fuggiano con alto clamore i Troiani
tutti, poiché fur dispersi, empievan le strade; ed un nembo
s’ergèa, sino alle nuvole effuso; e i veloci corsieri
via dalle navi e le tende correvano verso la rocca.
E Pàtroclo, ove più vedeva la gente in tumulto,
quivi correva urlando: sottesse le ruote, i guerrieri
proni cadevano; e i cocchi su loro, con alto fragore.
Oltre la fossa, diritto balzarono i pronti cavalli
cupidi al corso, immuni da morte, che i Numi a Pelèo
diedero, fulgidi doni: spingealo contro Ettore il cuore,
che lui colpir bramava: volavano a corsa i cavalli.
Come di sotto al nembo s’aggrava la livida terra,
nei di d’autunno, quando con più violenza la pioggia
Giove sugli uomini versa, se cruccio, se sdegno lo prese,
quando nell’assemblea decretano leggi non giuste,
e la giustizia via discacciano, e spregiano i Numi:
di tutti quanti i fiumi si gonfiano allor le correnti,
impetuosi i torrenti circondan, come isole, i clivi,
verso il purpureo mare scorrendo con alto fragore,
precipitando dai monti, struggendo gli uomini e i campi:
rumoreggiavan cosi, fuggendo, i cavalli troiani.
Patroclo non permette che i Troiani fuggano verso la rocca, ma li blocca tra le navi e le mura, e ne fa strage.

E Pàtroclo, poi ch’ebbe tagliate le prime falangi,
verso le navi di nuovo li spinse, né presso alla rocca
tornare li lasciò, per quanto n’avessero brama,
ma tra le navi e il fiume li spinse, e l’eccelsa muraglia,
e ne faceva strage, traeva di molti vendetta.
Prònoo prima qui colpi con la lucida lancia,
nel petto ignudo, sotto lo scudo. Cadendo, un rimbombo
diede, e rimase morto. Lanciandosi ancora all’assalto,
Tèstore uccise, figlio d’Enòpo. Sul carro elegante
curvo egli stava: ché invaso l’aveva sgomento, e di mano
gli erano scórse le briglie. Vicino gli stette, la lancia
ne la mascella destra gl’infisse, fuor fuori pei denti,
e in cima all’asta cosí lo levò, su dall’orlo del carro,
come un immane pesce, talor, da una rupe sporgente,
un pescatore leva con l’amo lucente e la lenza:
cosi, dal carro su, boccheggiante, sull’asta lo trasse,
e giù lo scosse a terra bocconi; e cadendo fu spento.
Poscia Erilào, che all’assalto moveva, nel mezzo del capo
colpi con un macigno. Si franse la testa in due parti
dentro la salda celata: piombò nella polvere prorio
quegli; e su lui la Morte s’effuse, che l’anime sperde.
E dopo questo, Erimanto trafisse, Anfòtero, Epalte,
ed Echio, e Piri, Ifèo, Evippo, Tlepòlemo, figlio
di Damàstore, e il figlio d’Argèa, Polimèlo: un su l’altro,
spènti li spinse contro la terra che tutti nutrica.
Sarpedone incita i Troiani e vuole affrontare Patroclo. Giove non vorrebbe che Sarpedone, suo figlio, fosse ucciso, ma Era lo convince che è meglio così. Patroclo uccide Sarpedone.

Come Sarpèdone sotto le mani di Pàtroclo forte
cader vide i compagni dai brevi corsali, la voce
levò, lanciando ai Liei, divini guerrieri, rampogne:
«Vergogna, o Liei! Dove fuggite? Siate ora animosi,
ché io voglio a quest’uomo far fronte, sapere voglio io
chi è, l’eroe si forte, che tanti malanni ai Troiani
recò: ché a molti prodi disciolse egli già le ginocchia».
Disse. Ed a terra, chiuso nell’armi, balzò giù dal cocchio.
Pàtroclo anch’egli dal carro balzò, ché lo scorse; ed entrambi,
come avvoltoi dal becco grifagno, dall’unghie ricurve,
che sopra un’alta rupe s’azzuffan con alto clamore,
cosi l’uno su l’altro proruppero, alzando alte grida.
Di Crono astuto il figlio li vide, e a pietà fu commosso,
e si rivolse ad Era, sua moglie e sorella, e le disse:
«Ahi!, l’uomo a me su tutti diletto, Sarpèdone, è fato
che del figliuol di Menezio, di Pàtroclo ai colpi, soccomba!
Io penso, e il cuor sospeso fra due mi rimane nel petto:
se io, vivo tuttora, lontan dalla zuffa dogliosa
lo tragga via, lo rechi sul fertile suolo di Licia,
oppur lo prostri sotto le man’ del figliuol di Menezio».
Ed Era a lui rispose, la Diva dall’occhio fulgente:
«Quali parole dici, di Crono figliuol prepotente?
Un uomo nato a morte, da lungo segnato dal fato,
scioglier daccapo vuoi dai lacci aborriti di morte?
Fa’; ma non tutti i Numi vorranno largirtene lode.
E un altra cosa ancora ti dico, e tu figgila in mente;
se in Licia tu vorrai mandare Sarpèdone vivo,
pensa che poi qualche altro vorrà dei Celesti, egli pure
mandare il figlio suo lontan dalla fiera battaglia:
ché, intorno all’alta rocca di Priamo combattono molti
figli di Numi; e fra i Numi tu nascer farai fiero cruccio.
Ma pur, s’egli t’è caro, se piange il cuor tuo la sua sorte,
lascia che sotto le mani di Pàtroclo adesso, del figlio
prò’ di Menezio, cada prostrato nel nero cimento;
e poi che l’alma sua lasciato l’avrà, la sua vita,
manda la Morte e il Sonno soave, che allora il suo corpo
rechin, sinché sian giunti sui fertili campi di Licia,
dove sepolcro a lui daranno i fratelli e gli amici,
sotto una tomba e una stele: ché tale dei morti è l’onore».
Disse cosi. Fu convinto degli uomini il padre e dei Numi,
e sulla terra fece rugiade cadere di sangue,
prestando al figlio onore, cui Pàtroclo uccider doveva
sopra le pingui zolle di Troia, lontan dalla patria.
Or, quando l’un sull’altro movendo, già eran vicini,
Pàtroclo quivi al prode Trasimede, illustre campione,
ch’era scudiere del forte Sarpèdone, sire dei Liei,
un colpo trasse al basso del ventre, che morto lo stese.
Dopo di lui, vibrò Sarpèdone il colpo; e non còlse
Pàtroclo l’asta fulgente, ma Pèdaso giunse, il corsiere,
sopra la spalla destra. Die’ un urlo, esalando la vita,
giù nella polve, mugliando, piombò, fuggi l’anima a volo.
Xanto e Balio, di fianco balzar, come cadde il trapelo,
il giogo scricchiolò, s’intricaron confuse le briglie.
Ma presto Automedonte lanciere trovava un rimedio:
da presso al saldo fianco fuor tratta l’aguzza sua spada,
tagliò, vibrando un colpo preciso, la fune al trapelo;
e i due, di nuovo ritti, si posero sotto le briglie.
E nuovamente gli eroi si affrontar nella zuffa mortale.
Ma vano ancora usci dalla man di Sarpèdone il colpo:
di Pàtroclo volò su la spalla sinistra la punta
dell’asta, e non lo giunse. Secondo, la lancia vibrava
Pàtroclo; e vano il colpo non fu: ché lo giunse là dove
il diaframma al cuore compatto d’intorno s’avvolge.
E cadde come cade pei monti una quercia od un pioppo,
0 un pino eccelso, quando, con scuri di fresco affilate,
i boscaioli lo taglian, per farne legname da navi:
cosi giacea disteso dinanzi ai cavalli ed al carro,
muggendo e brancicando la polvere molle di sangue.
Come leone, in mezzo piombando a una greggia, improvviso,
fulvido toro uccide, superbo fra i lenti giovenchi,
che del leone spira, con lento mugghiar, fra le branche:
cosi sotto le mani di Pàtroclo, il sire dei Liei
gemeva iroso, e a nome chiamava il compagno diletto:
«Glauco diletto, campione tra tutti il più forte, or tu devi
esser gagliardo guerriero, valente a vibrar la tua lancia:
ora, la triste guerra, se proprio sei prode, ti prema!
Pria, da ogni parte vólto, i duci che guidano i Liei
chiama, ché vengano qui, d’intorno a Sarpèdone, a lotta;
e intorno a me tu stesso combatti col bronzo a difesa:
ché io scorno per te sarei pel futuro, vergogna,
giorno per giorno, senza mai tregua, se adesso gli Argivi
l’armi predar mi potranno, ché sono caduto sul campo.
Dunque, con tutta la forza tien fermo, ed esorta le genti».
Mentre diceva cosi, si stese sugli occhi e le nari
a lui di morte il fato. Puntandogli un piede sul petto,
Pàtroclo fuori trasse la lancia dal cuore; e con quella
il diaframma usci. La lancia e lo spirito a un tempo
fuori gli trasse; e i cavalli sbuffanti, i Mirmidoni quivi
tenner, che, sciolti dai cocchi, bramavano volgersi a fuga.
Glauco non può andare a proteggere il corpo di Sarpedonte, perché anch’egli è ferito; ma invoca Apollo, che gli guarisce la ferita. Così va a chiedere aiuto ai compagni, che intervengono tutti per proteggere il corpo di Sarpedonte. Lo scontro tra Troiani e Achei riprende.

E Glauco, grave cruccio soffri, poi che udí quella voce;
e il cuor gli sussultò, ché a difenderlo gir non poteva;
ei con la mano il braccio reggeva e premeva: ché strazio
a lui dava una piaga che un dardo di Teucro gli aperse,
mentre ei sul muro eccelso correva a salvare i compagni.
E queste preci a Febo che lungi saetta, rivolse:
«Odimi, o re che forse nel fertile suolo di Licia,
che forse in Tracia sei: ché udir da ogni parte tu puoi
un uom tanto affannato quanto ora l’affanno mi preme.
Sono colpito da questa dogliosa ferita, e la mano
tutta d’intorno è trafitta d’acuto dolore, né il sangue
vuole stagnare; e fiero mi grava su l’omero un peso:
salda tenere l’asta non posso, non posso lanciarmi
alla battaglia, mentre caduto è Sarpèdone, il primo
di noi, di Giove il figlio; né accorre a difenderlo il padre.
Ma tu, signore, a me risana la fiera ferita,
sopisci i miei tormenti, la forza a me dà, ché ai compagni
Liei un appello io lanci, li spinga a tornare alla pugna,
ed io stesso combatta d’intorno alla salma caduta».
Cosí disse pregando; né sordo fu il Nume a l’appello:
sùbito i fieri dolori leni, su la piaga dogliosa
contenne il negro sangue, vigore nell’alma gl’infuse.
E Glauco ben conobbe, nel cuor s’allegrò, che il gran Nume
sùbito udita aveva la voce di lui che pregava.
E d’ogni parte, prima, si volse, e i signori dei Liei,
chiamò, ché qui venisser, d’intorno a Sarpèdone a lotta.
Andò poscia, a gran passi movendo, anche presso i Troiani,
presso Polidamante figliuolo di Panto, e il divino
Agenore ed Enea, presso Ettore chiuso nel bronzo;
e a lui vicino stette, parlò queste alate parole:
«Ettore, adesso affatto ponesti in oblio gli alleati,
che qui sono, per te, lontan degli amici e la patria,
che qui perdon la vita, né tu porgi ad essi soccorso.
Giace Sarpèdone, il re dei Liei dagli ampi palvesi,
ch’era alla Licia schermo con l’opere giuste e la forza:
l’ha spento sotto i colpi di Pàtroclo il bronzeo Marte.
Suvvia, correte, amici, di sdegno vi s’empiano i cuori,
ché non gli rubino l’armi, né strazio i Mirmidoni fieri
faccian del corpo, irati per quanti dei Dànai caduti
presso le navi sono, ché noi li uccidemmo con l’aste».
Cosí diceva. E lutto s’effuse sul capo ai Troiani
non sopportabile, immenso: ch’egli era per essi il sostegno
della città, sebbene straniero: ché molte venute
erano genti con lui, ché primo era pur negli scontri.
E contro i Dànai mosser, bramosi di pugne; ed a capo
Ettore, ch’era adirato pel sire dei Liei. E gli Achivi
Pàtroclo, cuore villoso, figliuol di Menezio, eccitava.
E pria gli Aiaci, già frementi essi stessi, eccitava:
«Aiaci, adesso caro vi sia tener fronte all’assalto,
tali mostrandovi, quali voi foste finora, o più forti:
è spento l’uom che primo sul muro balzò degli Achivi,
spento è Sarpèdone. Deh, straziar ne potessimo il corpo,
e l’armi da le spalle predargli, e qualcun dei compagni
che corrono al soccorso, prostrare col ferro spietato!».
Cosí diceva: e quelli da sé già fremevano guerra.
E poi che fùr le schiere d’entrambe le parti afforzate,
Liei e Troiani dall’una, dall’altra Mirmidoni e Achivi,
vennero al cozzo di guerra, d’intorno alla salma distesa,
levando orride grida: gran romba mandavano l’armi.
E su la pugna Giove distese una notte funesta,
perché funesta fosse la zuffa dintorno al suo figlio.
Prima i Troiani respinser gli Achivi dagli occhi fulgenti:
poi che non era Epigèo dei Mirmidoni l’ultimo, il figlio
divino d’Agaclèo gran cuore, che allor fu colpito.
Egli da prima in Budèa, città di piacevol soggiorno,
era signore; ma poi mise a morte un suo prode cugino,
e andò supplice a Tèti dal piede d’argento, e a Pèleo.
E l’inviaron questi, che insieme ad Achille omicida
contro i Troiani, ad Ilio dai vaghi puledri movesse.
Ettore qui lo colpi, mentr’ei s’appressava alla salma,
con un macigno, sul capo. Si franse in due parti la testa
entro la salda celata: piombò sul cadavere prono,
e sopra lui s’effuse la Morte che l’anime sperde.
Pàtroclo invaso fu dal cruccio pel morto compagno,
e sulle prime file nemiche diritto proruppe,
pari a veloce sparviere che sgomina storni o cornacchie.
Contro i Troiani cosi, contro i Liei, o signor di cavalli
Pàtroclo, allor ti lanciasti, crucciato nel cuor per l’amico.
E Stènelo colpi, d’Itèmeno figlio diletto,
con un macigno sul collo, che i tendini franse. E lontano
dietro si trassero allora, con Ettore, i primi campioni.
Quanto si stende il gitto di lunga zagaglia, ch’uom vibra
in una gara, prova facendo di tutte le forze,
oppure in guerra, quando l’incalzano i crudi nemici:
tanto i Troiani si trassero indietro, e incalzaron gli Achivi.
E Glauco primo, duce dei Liei dagli ampi palvesi,
volse di nuovo la fronte, die’morte al magnanimo eroe
Bàticlo, figlio di Càlcone. In Eliade avea la sua casa,
per beni e per fortuna fra tutti i Mirmidoni insigne.
Ma Glauco lo colpi con l’asta nel mezzo del petto,
ché si voltò d’improvviso, mentr’ei l’aggiungeva correndo.
Diede un rimbombo cadendo: gli Achèi, come cadde quel prode,
furono invasi da fiero cordoglio. Gioendo, i Troiani
corsero fitti a lui d’intorno; né il loro valore
poser gli Achivi in oblio, ma spinser contro essi la furia.
Qui Merione trasse di vita un guerriero troiano,
Laògore, l’ardito figliuolo d’Onètore, ch’era
di Giove idèo ministro, qual dio fra le genti onorato.
Di sotto gli colpi la mascella e l’orecchio; e dal corpo
presto lo spirito usci, l’avvolse la tènebra orrenda.
Contro Merione Enea la lancia scagliò; ché colpirlo
credè, mentr’egli innanzi venia, dello scudo al riparo.
Ma quei, che gli occhi innanzi spingeva, piegandosi avanti,
potè schivare il colpo. La lunga zagaglia s’infisse
sul suolo, dietro a lui: l’estremo dell’asta oscillava:
l’orrido Marte, qui svanire lasciò la sua furia.
Cosí rimase a terra la lancia vibrata da Enea,
ché senza effetto il colpo balzò dalla valida mano.
E allora Enea cosí parlò, ché furore l’invase:
«Sebben tu sei valente, Merione, a danza, ben presto
la lancia mia t’avrebbe fermato, se pur ti colpiva!».
Merione a lui rispose, valente nel gitto dell’asta:
«Enea, facil non è, per quanto sii tu valoroso,
che tu la furia spenga di quanti ti vengono incontro
nella battaglia pugnando. Tu pure sei nato mortale:
se anch’io colpirti in pieno potessi col lucido bronzo,
per quanto sii tu forte, per quanto gagliardo, daresti
a me la gloria, all’Ade dai negri corsieri lo spirto».
Disse. E rampogna a lui rivolse il figliuol di Menezio:
«Perché, Merione, cianci cosi, tu che pure sei prode?
Non le parole d’ingiuria, mio caro, faran che i Troiani
lascino il corpo: più d’uno dovrà pria la terra coprire.
Val nei consigli la lingua, ma valgono in guerra le mani.
Dunque, non più si gonfin parole, ma a guerra si muova».
Primo, ciò detto, si mosse, segui Merione divino.
Come il rimbombo si leva, quando uomini abbattono querce
entro le gole d’un monte: lontano il rumore s’effonde
tale su l’ampia terra sorgea dalla pugna un frastuono,
dal bronzo, da le pelli di bove dei solidi scudi,
mentre l’un l’altro feriva, coi brandi e con l’aste affilate.
Giove pensa al destino di Patroclo, e poi manda Apollo a prelevare il corpo di Sarpedonte. Apollo lo consegna a Sonno e Morte, che lo portano nella sua terra, la Licia.

Né ravvisato qui avrebbe Sarpèdone alcuno, per quanto
Io conoscesse: ché tutto le frecce la polvere e il sangue
lo ricoprivan giù giù, dal capo alle piante. E più sempre
quelli d’intorno al corpo correvano, come le mosche
ronzano dentro un ovile d’intorno alle secchie ricolme,
a primavera, quando riboccano i vasi di latte:
cosi quelli correvano al corpo d’intorno. Né Giove
mai dalla mischia orrenda stornava il suo fulgido sguardo;
ma sempre ad essi gli occhi volgeva, ed andava pensando
molto d’intorno alla morte di Pàtroclo; e incerto restava
se forse qui dovesse nel fiero cozzar della pugna
Ettore fulgido dargli la morte col lucido bronzo
presso a Sarpèdone divo, dagli omeri l’armi predargli;
oppur se ancora a molti infligger cordogli dovesse.
Questo, cosí pensando, gli parve l’avviso migliore:
che del Pelide Achille l’insigne scudiero, di nuovo
verso la rocca i Troiani respinger potesse, ed il prode
Ettore, chiuso nel bronzo, la vita ancor togliere a molti
potesse; e pria nel figlio di Priamo infuse sgomento.
Sali sul carro, e a fuga si volse, ed a fuga eccitava
gli altri Troiani: ché vide piegar la bilancia di Giove.
Neppure i prodi Liei qui tennero fermo; ma tutti
fuggiron, poi che il re giacere, trafitto nel cuore,
videro, in mezzo a un mucchio d’estinti: ché molti sovr’esso
eran caduti, quando la pugna eccitava il Cronide.
E allor tolser gli Achei di dosso a Sarpèdone l’armi
di bronzo luccicanti; le diede il figliuol di Menezio
prode ai compagni, perché le recassero ai concavi legni.
E allor, Giove che aduna le nuvole, disse ad Apollo:
«Su via, Febo diletto, discendi, lontano dai colpi
traggi Sarpèdone, il corpo detergi dal lurido sangue,
recalo molto lontano, nell’acqua corrente d’un fiume
lavalo, poi d’ambrosia cospargilo, vesti fragranti
cingigli, ai due gemelli consegnalo, al Sonno e alla Morte,
rapide guide, che seco Io rechino; presto dell’ampia
terra di Licia deposto l’avranno nel fertile piano,
dove sepolcro a lui daranno i parenti e gli amici
sotto una tomba e una stele: ché tale è l’onore dei morti».
Disse cosi. Né sordo fu Apollo al volere del padre.
Ma giù dai picchi d’Ida si volse alla fiera battaglia.
E qui, lungi dai colpi sottratto Sarpèdone divo,
lontano assai l’addusse, nell’acqua corrente d’un fiume
lo lavò, l’unse d’ambrosia, lo cinse di vesti fragranti,
lo diede ai due fratelli gemelli, la Morte ed il Sonno
rapide guide, che presto lo addussero seco nell’ampia
terra di Licia, e qui lo deposer nei fertili campi.
Patroclo prova ad assalire le mura di Troia, ma viene respinto da Apollo. Apollo incoraggia Ettore a battersi contro Patroclo. Patroclo, vedendosi attaccato, uccide con un macigno Cebrione, l’auriga di Ettore.
Pàtroclo intanto ad Automedonte impartiva un comando
ed ai corsieri, e su Torme correa dei Troiani e dei Liei.
E cieco e stolto fu: ché, se avesse obbedito al Pelide,
poteva al fato ancora sfuggir della livida Morte.
Ma vinto ognora l’uomo sarà dal volere di Giove,
che spesso l’uomo prode sgomenta, e gli nega vittoria,
agevolmente, e spesso lo spinge a combatter da prode;
ed anche allor, furente vigore nel seno gl’infuse.
E chi per primo, chi per ultimo quivi uccidesti,
Pàtroclo, allor che te chiamarono i Numi alla morte?
Adrasto prima, poscia Antlnoo uccidesti, ed Echéclo,
e Mègade, Perimo, Melamppide, Elfèstore; e dopo
di loro, uccise pure Muli’one, Pilarte ed Elàso.
Uccise questi: gli altri si volsero tutti alla fuga.
E qui l’eccelsa Troia, pel braccio di Pàtroclo — tanto
nera l’ardore guerresco — prendevano i figli d’Acaia,
se Febo Apollo sopra le solide mura non stava,
che macchinava danni per lui, pei Troiani salvezza.
Pàtroclo, ben tre volte balzò su lo sprone del muro,
tre volte Apollo Febo lontano l’urtò, lo respinse,
con le sue mani immortali colpendo lo scudo lucente.
Ma quando si lanciò la quarta, che un dèmone parve,
con un orrendo grido gli volse l’alata parola:
«Pàtroclo, cedi, stirpe di Numi! Non è già destino
che per tua mano cada la rocca di Troia superba,
né per la man d’Achille, che tanto è di te più valente!».
Cosi’ diceva il Nume. E indietro balzò d’un gran tratto
Pàtroclo, e schivò l’ira di Febo che lungi saetta.
Ora, Ettore i cavalli rattenne alle porte sceèe:
ché stava in due, se di nuovo lanciarsi dovesse alla mischia,
0 se chiamar dovesse, raccoglier le genti alle mura.
E Apollo Febo, mentre pensava cosí, gli fu presso,
d’uomo sembianza assunta, gagliardo e nel fiore degli anni,
d’Asio, che zio da parte di madre era ad Ettore prode.
Fratello d’Ècuba era questo Asio, figliuol di Dimante,
che nella Frigia abitava, su Tacque del fiume Sangario.
Le sue parvenze assunte, cosí Febo Apolline disse:
«Ettore, tu dalla pugna desisti. Perché? Non conviene.
Deh!, quanto io son più fiacco di te, tanto fossi più forte!
Mal ti saprebbe allora, d’avere lasciata la pugna!
I tuoi corsieri, su, contro Pàtroclo spingi, se mai
vincerlo possa, e a te voglia Febo concedere il vanto».
E cosí detto, il Dio tornò dove ardeva la zuffa.
Ed Ettore fulgente, comando a Cebrione diede
che verso la battaglia sferzasse i cavalli. Ed Apollo,
confuso fra la turba, gittò negli Achei lo scompiglio
tristo, e concesse gloria di Priamo al figlio, e ai Troiani.
Ettore, poi, gli altri Dànai lasciava, né alcuno uccideva,
ma contro Pàtroclo solo spingeva i cavalli veloci.
Balzò dall’altra parte, dal carro giù Pàtroclo a terra:
nella sinistra la lancia stringea, nella destra un macigno
bianco, tutto aspro, che tutto spana nella solida palma.
Saldo sui pie’, lo scagliò; né molto andò lungi dal segno
né vano il colpo fu: ché Cebrione còlse, l’auriga
d’Ettore, il figlio spurio di Priamo colmo di gloria.
Reggea le briglia; e a mezzo la fronte il sasso aspro lo colse:
la pietra frantumò entrambe le ciglia, che l’osso
non resse al colpo, e gli occhi piombar nella polvere a terra,
quivi, dinanzi ai suoi piedi; ed egli, dal carro elegante
piombò, ché palombaro sembrò: fuggi l’alma dall’ossa.
E a lui Pàtroclo queste rivolse parole di scherno:
«Poveri noi, com’è svelto quest’uomo, come agile danza!
Senza alcun dubbio, pure se fosse nel mare pescoso,
molti farebbe satolli, se l’ostriche andasse a pescare,
giù da una nave il salto spiccando, anche fosse maretta,
se tanto bene il tuffo dà in terra, saltando dal cocchio!
Davvero, fra i Troiani ci son ballerini di garbo».
Detto cosi, balzò su l’eroe Cebrione; ed aveva
l’impeto d’un leone, che, mentre devasta gli ovili,
colpito fu nel petto, ché a morte il valor suo lo spinse.
Su Cebrione, cosi, tu, Pàtroclo, allora balzasti,
pieno di furia; e a te contro, dal carro giù Ettore corse;
e intorno a Cebrione lottarono come leoni
che sulla cima d’un monte s’azzuffano intorno a una cerva
uccisa; e sono entrambi superbi, famelici entrambi.
D’intorno a Merione cosí quei due mastri di guerra,
Pàtroclo, di Menezio figliuolo, con Ettore illustre,
trafiggere l’un l’altro tentaron col lucido ferro.
Ettore preso l’aveva pel capo, né pur lo lasciava:
Pàtroclo aveva un piede ghermito di contro; ed intorno
furono in zuffa gli altri confusi, i Troiani, e gli Achivi.
E come Noto ed Euro, talor, nelle gole d’un monte,
scrollano, in gara l’uno con l’altro, una selva profonda,
il frassino, ed il faggio, e il cornio dall’aspra corteccia:
i lunghi rami sbattono gli alberi, l’un contro l’altro,
con infinita romba, si schiantan con alto fracasso:
cosi Troiani e Achivi, lanciandosi gli uni sugli altri
si sterminavano; e niuno aveva più cuore alla fuga;
e molte acute Iancie d’intorno a Cebrione confitte
erano, e molte frecce balzavano a volo dagli archi,
e sugli scudi molti piombavano grossi macigni,
d’intorno al morto. E questo, fra spire di polvere, grande
salma, per grande spazio giacea, dei corsieri oblioso.
Or, sin che mosse il sole per mezzo la volta del cielo,
frecce da entrambe le parti volavan, cadevano turbe;
ma quando l’ora già volgea che si sciolgono i bovi,
nella battaglia allora di molto prevalser gli Achivi.
Trassero allor l’eroe Cebrione lontano dai colpi,
lungi dall’urto troiano, dagli omeri tolsero l’armi.
Apollo disarma Patroclo, che viene dapprima ferito non mortalmente da Euforbo. Poi Ettore lo finisce colpendolo al ventre con la lancia. Patroclo prima di morire gli profettizza che morità per mano di Achille.

E Pàtroclo balzò, spirando furor, sui Troiani.
Tre volte ei si lanciò, che Marte feroce sembrava,
levando orride grida, tre volte nove uomini uccise.
Ma quando si lanciò la quarta, che un dèmone parve,
per te della tua vita il termine, o Pàtroclo, giunse.
Ché Febo incontro a te nella fiera battaglia si fece,
tremendo, e, nel tumulto, tu giungere a te nol vedesti,
ché contro a te nascosto venia da caligine fitta.
Stie’ dietro a lui, la schiena e gli omeri larghi percosse
con la sua palma chiusa; gl’invase vertigine gli occhi.
E Febo Apollo, allora dal capo gli tolse l’elmetto.
Giù ruzzolò, fra i pie’ dei cavalli, mandando un rimbombo,
l’alta celata; e furon lordate di polvere e sangue
le chiome del cimiero. Caduto giammai nella polve
non era per l’innanzi quell’elmo crinito: destino
non era: il capo e il viso schermiva d’un uomo divino,
d’Achille. Ed ora Giove concesse che d’Ettore il capo
coprisse, quando già gli era presso l’estrema rovina.
E tutta nelle mani gli franse la lunga zagaglia,
grave, massiccia, che aveva la punta di bronzo; e lo scudo
che sino ai pie’ giungeva, giù cadde dagli omeri a terra;
e la corazza Apollo, figliuolo di Giove, gli sciolse.
Di senno allora usci, gli mancarono sotto le membra,
attònito rimase. Di dietro alla schiena, con l’asta
fra le due spalle, da presso, un Dàrdano allor lo trafisse.
Euforbo fu, di Panto figliuolo, che tutti vinceva
gli uguali d’anni al corso, nell’armi, a guidare cavalli.
E ben venti guerrieri avea rovesciati dal carro,
quando alla guerra giunse col carro ad apprendere l’arte.
Pàtroclo, il primo colpo costui ti lanciò; né cadesti
pertanto; e quegli via fuggi, si mesce’fra le turbe,
poi ch’ebbe estratta la lancia di frassino fuor dalla piaga,
né cimentarsi ardi con Pàtroclo, pur disarmato.
E dal suo colpo quegli fiaccato, e dal colpo del Nume,
si ritraeva fra i suoi, scampando il destino di morte.
Ma come Ettore vide ritrarsi lontan dalla pugna
Pàtroclo, animo grande, ferito dal lucido bronzo,
via fra le schiere a lui vicino si fece, e la lancia
bassa nel ventre gl’immerse, spingendo fuor fuori la punta.
Cadde con un rimbombo gran cruccio infliggendo agli Achivi.
Come un leone atterra lottando, un selvaggio cinghiale,
quando d’un’alpe in vetta s’azzuffano entrambi superbi,
presso una breve fonte: ché bere lì vogliono entrambi;
ma più gagliardo, il leone lo uccide, mentre ànsima forte:
cosi di Priamo il figlio vicino al figliuol di Menezio,
che tanti uccisi avea, si fece, e gli tolse la vita.
E, millantando, queste gli volse veloci parole:
«Pàtroclo, tu pensavi la nostra città porre a sacco,
e su le navi le donne troiane alle vostre contrade,
tolta che avessi a loro la luce dei liberi, addurre.
Stolto! Ché in loro difesa si lanciano i prodi cavalli
d’Ettore, a lotta. Ed io stesso non ultimo son dei Troiani,
quando conviene usare la lancia: ché lungi da loro
tengo il fatale di’. Tu sarai qui sbranato dai gufi
povero te! Né Achille soccorso ti diede, l’eroe,
che quando tu movevi, consigli ti diede, e rimase:
— Pàtroclo, qui non tornare, signor di cavalli., a le navi
concave, se tu prima non abbia squarciata sul petto
d’Ettore sterminatore la tunica intrisa di sangue! —.
Cosídiceva. E tu, dissennato, ne fosti convinto».
E tu, Pàtroclo. già moribondo, cosí rispondevi:
«Ettore, mena adesso gran vanto, ché Giove Cronide
e Apollo, han dato a te vittoria, che m’hanno abbattuto
senza fatica. Ch’essi dagli omeri l’armi m han tolte:
se venti come te venuti mi fossero incontro,
sotto la lancia mia sarebbero tutti caduti.
Ora, la Parca funesta m’uccise, e il figliuol di Latona
ed il mortale Euforbo. Tu terzo m’hai presa la vita.
E un’altra cosa ancora ti dico, e tu figgila in mente:
neppur la vita tua durare dovrà troppo a lungo,
ma presso già ti stanno la Morte e la Parca funesta:
cader sotto le mani dovrai dell’Eàcide Achille».
Mentre cosí diceva, l’avvolse il Destino di morte,
e dalle membra l’alma discese volando nell’Ade,
la sorte sua piangendo: ché insiem giovinezza e valore
lasciava. E a lui già spento, cosí parlava Ettore prode:
«Pàtroclo, a che mi vai profetando la fine funesta?
Chi sa ch’ ei pure Achille figliuolo di Tèti chiomata
prima dall’asta mia cadere non debba trafitto?».
Detto cosi, puntò sul cadavere un piede, e la lancia
dalla ferita estrasse, respinse la salma supina.
E dietro Automedonte con l’asta poi sùbito corse,
dietro il divino scudiere d’Achille dai piedi veloci,
ché lo voleva colpire. Ma presto i veloci cavalli
lui trasportarono, doni fulgenti dei Numi a Pelèo.
Menelao uccide Euforbo perché voleva impossessarsi delle armi di Patroclo. Ettore, avvisato da Apollo, vuole affrontare Menelao. Menelao corre a chiamare Aiace.
E vide Menelao, l’eroe prediletto di Marte,
Pàtroclo sotto i colpi troiani cadere in battaglia;
e tra le prime file, coperto del lucido bronzo,
presso a lui corse, come giovenca primipara, ignara
sin li del parto, va mugolando d’intorno al vitello.
Stava cosí Menelao, di Pàtroclo attorno alla salma,
e innanzi a lui tendeva lo scudo rotondo e la lancia,
pronto ad uccider chiunque venuto gli fosse di contro.
Però, neppure il figlio di Panto, il valente lanciere,
pose in oblio l’eroe caduto; ma, fattosi presso,
stette, e all’Atride cosí parlava, al diletto di Marte:
«0 Menelao, progenie divina, signore di genti,
recedi; lascia il corpo di Pàtroclo e l’armi cruente.
Niuno prima di me fra i Troiani e gl’insigni alleati
percosse con la lancia costui nella fiera battaglia:
lascia quest’altra gloria ch’io m’abbia perciò, né ti debba
vibrare un colpo, e l’alma rapirti, più dolce del miele».
E Menelao chioma bionda, crucciato, cosí gli rispose:
«Bello non è, per Giove, vantarsi con tanta iattanza!
Tanta non è di pantera la furia, non è di leone,
non di sterminatore selvaggio cinghiale, che in seno
cuore fierissimo alberga, che va di sua forza superbo,
quanto superbi sono di Panto i belligeri figli.
Pure, a Iperènore quanto giovò l’esser giovane e forte,
quand’egli, contro me lanciata l’ingiuria, m’attese?
Egli diceva ch’ero fra i Dànai tutti il più vile
nelle battaglie; e intanto tornar non potè coi suoi piedi
ad allegrar la sua sposa diletta, i diletti parenti.
Cosi, se innanzi a me ti pari, fiaccar la tua forza
anche io saprò. Nella turba ritorna, ti dico, e d’innanzi
da me lèvati, prima che qualche malanno ti tocchi:
ché l’opere seguite, vederle sa pure uno stolto».
Disse cosi. Né colui fu convinto, ma contro gli disse:
«Anzi ora, Menelao, progenie divina, dovrai
scontare il fratei mio, che uccidesti, e lo dici, e ti vanti,
ed orba entro la casa novella rendesti la sposa,
e lutto ai genitori recasti, e ineffabile pianto.
Io, di sicuro, fine porrei di quei miseri al pianto,
se la tua testa io potessi recare con me, l’armi tue,
e nelle mani a Panto gittarle, e alla diva Frontide.
No, senza lotta oramai non sarà questa nostra contesa,
né senza prova, chi sia valoroso, o proclive alla fuga».
Poi ch’ebbe detto cosi, lo colpi nello scudo rotondo;
né pur lo franse il bronzo, ché indietro si torse la punta
sopra lo scudo saldo. Secondo vibrò la sua lancia
l’Atride Menelao, levando la prece al Cronide;
e, lo feri mentr’egli cedea, nella gola, alla base,
e sopra il colpo poggiò, della mano seguendo l’impulso.
Passò l’aguzza punta fuor fuori pel morbido collo:
diede, cadendo, un rimbombo, su lui rintronarono l’armi,
furon di sangue intrise le chiome, che chiome di Grazie
pareano, e i ricci belli costretti nell’oro e l’argento.
Come nutrisce un uomo un florido germe d’ulivo,
in solitario loco, sgorgandovi d’acqua gran copia:
cresce leggiadro e verde, gli spiri lo fanno ondeggiare
di tutti i venti, e tutto si copre di candidi fiori;
ma d’improvviso un vento vi giunge di fiera procella,
e dal suo solco lo scalza, e a terra schiantato lo stende:
cosi, poscia che morte a Panto, al figliuolo d’Euforbo,
die Menelao, l’Atride signor, lo spogliava dell’armi.
Come allorquando un leone superbo, cresciuto fra i monti,
la più bella giovenca rapisce del branco che pasce,
poscia la sbrana e il sangue ne inghiotte e le visceri tutte:
intorno molti cani s’addensano, e molti pastori,
e levano alte grida da lungi, ché farglisi presso
nessuno ardisce: tutti son pieni di scialbo terrore:
cosi, nessuno tanto coraggio nutriva nel petto,
che faccia a faccia ardisse scontrarsi col figlio d’Atrèo.
E facilmente qui, Menelao, del figliuolo di Panto
l’armi predate avrebbe, se Febo, con invido cuore,
non l’impedia; ché contro gli spinse di Priamo il figlio.
Prese l’aspetto di un uomo, di Mente, signor dei Cicóni,
e a lui si volse, e queste gli disse veloci parole:
«Ettore, tu corri dietro a ciò che raggiunger non puoi,
dietro ai cavalli corri del fiero nipote d’Eàco;
ma nessun uomo può cavalcarli, né al giogo domarli,
toltone Achille, ch’è progenie di madre immortale;
e intanto, il valoroso figliuolo d’Atrèo, Menelao,
presso pugnando a Pàtroclo, uccise il miglior dei Troiani,
di Panto il figlio, Euforbo, desister lo fe’ dalla pugna».
E, così detto, il Nume tornò fra il tumulto di guerra.
E grave e fosco invase lo spirito d’Ettore il cruccio.
Volse lo sguardo lungo le schiere, e di sùbito scòrse
l’uno, che preda faceva dell’armi; ed il figlio di Xanto,
che al suol giaceva; e sangue scorrea dall’aperta ferita.
E si lanciò fra i primi, coperto del lucido bronzo,
levando acute grida, che parve una vampa d’Efesto
inestinguibile. E udí l’alte grida il figliuolo d’Atrèo;
e cosí disse, pieno di cruccio, al suo fervido cuore:
«Misero me! Le belle armi se lascio, se Pàtroclo lascio,
che, per l’onore mio pugnando qui giace, di certo
biasimo a me darà chiunque dei Dànai mi scorga:
se, da pudore vinto, con Ettore io solo combatto,
e coi Troiani, io solo sarò sopraffatto dai molti:
Ettore, l’elmo crollando, qui tutti conduce i Troiani.
Ma perché mai tali motti mi va favellando il mio cuore?
Contro il voler dei Numi se un uom contro un uomo s’azzuffi,
cui renda onore il Nume, su lui gran cordoglio s’abbatte:
perciò niuno vorrà con me degli Achivi crucciarsi,
se cedo innanzi al figlio di Priamo, sospinto da un Nume.
Il prode Aiace dove si trova sapere io potessi!
Tornar potremmo, entrambi di nuovo riprender la pugna,
sia pur contro un Celeste, se almeno ad Achille Pelide
rendessimo la salma! Sarebbe fra i mali il minore».
Mentr’ei questi pensieri volgeva nell’alma e nel cuore,
giunser, dal figlio di Priamo guidate, le schiere troiane
Ed egli allora indietro si trasse, lasciando la salma,
spesso volgendosi indietro: parea generoso leone
che gli uomini ed i cani sospingano via da una stalla,
con gli urli e con le frecce: gli abbrivida il cuore gagliardo
nel seno, e mal suo grado si scosta dal chiuso: del pari
il biondo Menelao lontano da Paride andava.
Stette, poiché dei suoi fra le schiere fu giunto; e si volse,
cercando il grande Aiace figliuol di Telamone; e presto,
com’ebbe il campo tutto veduto, lo scòrse a sinistra,
mentre ai compagni cuore faceva, esortandoli a zuffa:
ché Febo aveva in essi terrore indicibile infuso.
Mosse correndo, e gli fu ben presto vicino, e gli disse:
«Aiace, vieni qui, di Pàtroclo presso alla salma:
corriamo, o caro, se potessimo almeno ad Achille
recare il corpo ignudo: ché Ettore l’armi ha predate».
Cosí disse. Ed Aiace, turbato nel cuore, si spinse
oltre le prime file, col biondo figliuolo d’Atrèo.
Ettore ha spogliato il corpo di Patroclo delle armi, e le consegna ai Troiani perché le portino ad Ilio. Aiace e Memelao proteggono il corpo di Patroclo, ma Glauco insiste con Ettore perché porti via anche quello; in questo modo, pensa, gli Achei dovranno rendere il corpo di Sarpedonte per riavere indietro quello di Patroclo.

Ettore, intanto, spogliato dell’armi il figliuol di Menezio,
lo trascinava, ché il capo voleva spiccargli dal busto,
ed il cadavere in Troia recare, da pascerlo i cani.
Ma gli fu presso Aiace, levando il suo scudo turrito.
Ond’Ettore cede’, fra le schiere dei suoi si ritrasse,
balzò nel cocchio, diede di Pàtroclo l’armi ai Troiani,
ché le recassero ad Ilio, ché segno a lui fosser di gloria.
E, l’ampio scudo Aiace reggendo, al figliuol di Menezio
vicino stava, come leone in difesa dei figli,
che, mentre per la selva li guida, e ancor cuccioli sono,
nei cacciatori s’imbatte: si ferma, spirando furore
e tutto il sopracciglio giú cala, a nascondere gli occhi:
cosí moveva Aiace d’intorno al compagno caduto;
e Menelao, figliuolo d’Atrèo, prediletto di Marte,
stava dall’altra parte, covando nel cuore il gran cruccio.
E Glauco, condottiero dei Liei, d’Ippòloco figlio,
bieco guardando il figlio di Priamo, gli disse a rampogna:
«Ettore, bèllo di viso, di mano del par non sei prode:
grande’è la fama tua, ma troppo sei pronto alla fuga:
provvedi ora a salvare la gente e la rocca di Troia,
solo da te, con le genti che videro in Troia la luce:
ché niuno più dei Liei combatter vorrà con gli Achivi
presso alle vostre mura, perché niuna grazia riscuote
chi senza tregua s’affronta, per voi, con le genti nemiche.
E come mai potresti salvare un guerriero dappoco,
se tu persin l’amico Sarpèdone, l’ospite tuo,
preda agli Argivi lasciasti, lasciasti che fosse ludibrio
quei che alla rocca, a te fu scudo, mentr’egli era vivo?
E adesso i cani tu non valesti a cacciargli d’attorno.
Perciò, se ascolto alcuno mi dà dei guerrieri di Licia,
torniamo a casa; e piombi su Troia l’estrema rovina:
perché, se nei Troiani lo spirito intrepido e fiero
fosse, che colma il cuore degli uomini, quando a difesa,
di lor patria pugnando, affrontano zuffe e travagli,
tratto ben presto in Ilio sarebbe di Pàtroclo il corpo.
Se, cosí morto, giunger potesse costui su la rocca
grande di Priamo, se lui strappare potessimo al campo,
presto dovrebber gli Achèi di Sarpèdone renderci l’armi
belle, il suo corpo stesso potremmo recare dentro Ilio:
però che lo scudiere caduto è d’un uomo, il più forte
tra quanti sono Argivi; né valgono meno i compagni.
Ma non avesti cuore di star fronte a fronte ad Aiace,
tu, non ardisti negli occhi fissarlo fra gli urli nemici,
né contro lui pugnare; ché troppo è di te più gagliardo».
Ettore Io guardò biecamente, e cosí gli rispose:
«Glauco, perché, quello essendo che sei, parli tanto arrogante?
Misero me! Per senno credevo che tu superassi
tutti, quanti hanno patria la Licia dai fertili campi;
ma troppo or biasimare ti devo per ciò che tu dici.
Dici che cuore non ho d’attendere Aiace feroce”!
Non sono io, quei che tema la pugna e il fragor dei cavalli:
ma ognor vince il volere di Giove, dell’ègida sire,
che sbigottisce sovente, che toglie la gloria ai pili prodi
agevolmente, e spesso li spinge egli stesso alla lotta.
Ma vieni presso a me, rimani al mio fianco, o diletto,
giudica tu la prova, se vile io sarò tutto il giorno,
come tu dici, o se alcuno dei Dànai, sia pur valoroso,
frenar saprò, che pugna di Pàtroclo spento a difesa».
Ettore indossa le armi di Achille e con i Troiani muove contro Aiace e Menelao. Menelao chiama altri Achei a soccorso.

E, cosí detto, esortò, levando un grande urlo, i Troiani:
«Troiani, Liei, e voi, valenti a combatter da presso
Dàrdani, uomini siate, pensate a combattere, amici,
sino ch’io l’armi indossi d’Achille, guerrier senza pecca,
le belle armi, predate da me, poi che Pàtroclo uccisi».
E, detto ch’ebbe ciò, lontan dalla cruda battaglia
Ettore mosse, l’elmo crollando; e, movendo a veloci
passi, raggiunse i suoi compagni, e non erano lungi,
che l’armi belle ad Ilio, recavan d’Achille Pelide.
E quivi le indossò, lontan dalla zuffa crudele,
e die’ le proprie a quelli, perché le recassero ad Ilio.
Ed ei tutte le membra recinse con l’armi immortali
del figlio di Pelèo. Le avevano i Numi d’Olimpo
date a Pelèo: Pelèo le diede al suo figlio diletto;
ma non doveva il figlio nell’armi del padre invecchiare.
E vide allora Giove che i nugoli aduna, da lungi,
ch’egli indossava l’armi del divo figliuol di Pelèo,
e mormorò cosí nel suo cuore, crollando la testa:
«Misero te, che in mente neppure ti passa la morte,
che tanto è a te vicina! Tu l’armi indossasti immortali
d’un uom prode fra i prodi, di cui treman pure tanti altri:
al suo compagno mite gagliardo tu desti la morte,
senza riguardo, via degli omeri l’armi e dal corpo
tu gli strappasti. Ora io conceder ti voglio gran gloria,
che ti compensi; perché, quando tu tornerai dalla pugna,
l’armi d’Achille famose, da te non avrà la tua sposa».
Disse, e chinò le azzurre sue ciglia il figliuolo di Crono,
e su le membra adattò l’armi ad Ettore. E l’orrido Marte
s’infuse a lui nel seno, terribile; e pieni i precordi
furon di forza e d’ardire; e verso gl’insigni alleati,
con un grande urlo mosse, comparve fra loro improvviso,
tutto lucente nell armi d’Achille magnanimo cuore.
E tutti, ad uno ad uno, coi detti spronava alla zuffa:
Glauco, d’Ippòloco figlio, Medonte, Tersiloco, Meste,
Asteropèo, Desènore, Fòrcide, Cromio, Ippotòo,
ed Ènnomo, d’augelli l’interprete esperto. Costoro
egli incitava, e a tutti volgeva volanti parole:
«Innumere tribù dei vicini alleati, ora udite:
non per avere con me, per bramare gran copia di genti,
qui dalle vostre città v’ho fatti venire, uno ad uno,
ma perché voi dagli Achivi bellicosi voleste schermire
con pronto cuor, le spose troiane, ed i teneri figli.
Perciò tributi e offerte dal popolo esigo, e lo sposso,
per mantenere voi, perché non vi manchi lo zelo.
Per questo, ognun di voi diritto si volga al nemico,
e vinca, oppur soccomba: ché questo è il colloquio di guerra.
E chi potrà la salma portare di Pàtroclo in Troia,
e a lui ceder dovrà di Telàmone il nobile figlio,
a lui darò metà delle spoglie, serbando a me l’altra:
sarà cosí fra noi partita ugualmente la gloria».
Disse cosi. Vibrando le lande, piombarono quelli
con urto grave, sopra gli Achivi; e speravano molto
strappare dalle mani d’Aiace il cadavere. Stolti!
ché su quel corpo a molti rapì quel gagliardo la vita.
E al prode Menelao disse allor di Telàmone il figlio:
«0 caro, o Menelao progenie di Giove, non spero
più che noi due potremo tornar dalla stretta di guerra.
Né tanto per la salma di Pàtroclo io temo, che presto
dovrà saziare i cani di Troia, saziare gli uccelli,
quanto per la mia vita temo io, per la tua, che non corra
grave periglio: tal nube di guerra d’intorno ci stringe
Ettore: ancora su noi s’addensa l’estrema rovina.
Su via, chiama i più prodi fra i Dànai, se alcuno ci ascolta».
Disse. Né sordo fu Menelao valoroso all’invito,
e con un alto grido così si rivolse agli Achivi:
«Amici, o voi, signori, che a lotta guidate gli Argivi,
quanti presso all’Atride Agamènnone e al biondo fratello
libate i vini ch’offron le genti, e di genti è ciascuno
signore, e Giove ad esso concede l’onore e la gloria,
è dura cosa che i duci debba io rintracciare uno ad uno
mentre sì fiera avvampa la furia di guerra. Su, dunque,
venga ciascuno da sé, vergogna Io colga, che debba
in Troia esser ludibrio la salma di Pàtroclo ai cani».
Si disse. E bene Aiace l’udiva, il figliuol d’Oilèo,
e primo venne a lui di mezzo alla mischia, correndo:
Idomenèo dopo lui correva, correa lo scudiero
d’Idomenèo, Merióne, che Marte omicida sembrava.
E chi degli altri poi ricordar tutti i nomi potrebbe,
che, dopo essi, la zuffa di nuovo animar degli Achivi?
I Troiani mettono in fuga gli Achei e trascinano via il corpo di Patroclo. Ma poi Aiace li insegue e riesce a riprenderglielo; la zuffa riprende. Apollo spinge Enea alla lotta.

Vennero prima i Troiani, precorsi da Ettore, all’urto.
Come allorché su la foce d’un fiume divino, un gran flutto
l’acqua che sbocca investe mugghiando, e da entrambe le parti
rugghiano i lidi, e fuori vomiscono l’acqua del mare:
con simile frastuono moveano i Troiani; e gli Achivi
stavano d’un sol cuore dinanzi al figliuol di Menezio,
dietro una fitta siepe di scudi di bronzo; e il Cronide
effuse densa nebbia d’intorno ai loro elmi lucenti:
ché neppur prima gli era discaro il figliuol di Menezio,
sinché fu vivo, fu scudier del nipote d’Eàco;
e non soffrí che fosse ludibrio alle cagne troiane,
ed i compagni eccitò, che per lui si lanciarono a lotta.
Prima i Troiani respinser gli Achivi dagli occhi lucenti.
Lasciato il corpo, indietro si volsero a fuga; né alcuno
ne uccisero i Troiani, per quanto ne avessero brama,
ma trascinavano via la salma. Ma stettero poco
lungi gli Achivi; ché, a farli rivolgere, presto giungeva
il Telamonio Aiace, che, dopo il perfetto Pelide,
tutti d’aspetto, tutti d’imprese vinceva gli Achei.
E tra le prime schiere si mosse; e sembrava un cinghiale
che sovra i monti, a un tratto, volgendosi in mezzo alle macchie,
agevolmente i cani scompiglia, e i fiorenti garzoni.
Agevolmente cosi, di Telàmone il fulgido figlio,
cosi sperdeva Aiace, le fitte falangi troiane
che s’addensavano al corpo di Pàtroclo attorno, e speranza
grande nutriano, in Troia di trarlo, d’averne alta gloria.
Ippòtoo quivi, il figlio fulgente di Lete pelasgo,
stretto al mallèolo, ai tèndini attorno, col bàlteo l’aveva,
e per un piede via trascinando l’andava pel campo,
ché dei Troiani e d’Ettore ambiva la grazia; ma presto
su lui giunse il malanno, che niuno, benché lo bramasse,
valse a schermire. Aiace, su lui fra le turbe piombando,
da presso lo colpi, traverso l’elmetto di bronzo!
L’elmo crinito si franse d’intorno alla punta dell’asta,
della gran lancia all’urto, del braccio possente; e il cervello
sanguinolento, schizzò lungo il manico, fuor dalla piaga.
E qui la forza sua fiaccata si giacque: di mano
lasciò sfuggire a terra di Pàtroclo il piede; ed a terra
anch’esso a lui vicino piombò, sul cadavere, prono,
ben lungi di Larissa dai fertili campi; e mercede
ai genitori suoi non rese: ché presto compiuta
fu la sua vita, sotto la lancia d’Aiace animoso.
Ettore allor contro Aiace vibrò la sua lucida lancia.
Ma quegli che ben vide, per poco la lucida punta
potè schivare; e quella colpi del magnanimo Ifíto
il figlio, Scedio, ch’era fra tutti i Focesi il più prode,
ed abitava, signore di popoli molti, in Panòpe.
Di sotto gli colpí la clavicola: il cuspide sommo
passò fuor fuori, uscí dall’omero, presso allo stremo:
diede cadendo un frastuono, su lui rimbombarono l’armi.
Aiace, poi, colpí di Fènope il figlio, Forcíno,
ch’era in difesa accorso d’Ippòtoo, nel mezzo del ventre.
Ruppe la piastra nel mezzo, s’immerse nei visceri il ferro;
disteso egli piombò, brancicando la polvere, a terra.
Ettore indietro si trasse; e quanti primi erano in zuffa
ruppero in alte grida, gli Argivi traendo le salme
di Forci e d’Ippotòo, spogliandone i corpi dell’armi.
E qui, certo, respinti dai forti d’Acaia, i Troiani,
offesi da viltà, sarebbero in Ilio tornati,
e per la forza e il valore, pur contro il volere di Giove,
avrebber gloria avuta gli Argivi. Ma Apollo egli stesso
spinse alla pugna Enea. L’aspetto del figlio d’Epíto
assunto aveva il Dio, di Perifate mente assennata,
che presso il vecchio padre, facendo l’araldo, invecchiava.
Simile a questo, Apollo, figliuolo di Giove, gli disse:
«Enea, come potreste, pur contro il volere di Giove,
salvar l’eccelsa Troia? L’han fatto, e l’ho visto, altre genti,
che nella loro forza fidavan, nel loro coraggio,
e nella copia di genti, pur contro il volere di Giove;
ed ora vuole Giove che vostra e non già degli Achivi
sia la vittoria; ma voi tremate, ma voi siete imbelli».
Cosí diceva. Enea conobbe, vedendolo, il Nume,
Febo, che lungi saetta, e ad Ettore disse, gridando:
«Ettore, e voi che Troiani guidate e alleati alla pugna,
vergogna è questa, se, per la vostra viltà sopraffatti,
tornar dovrete ad Ilio, fugati dai prodi d’Acaia.
Ma ora, uno dei Numi venuto me presso, m’ha detto
che in nostro aiuto Giove combatte, il signor dei Celesti.
Contro gli Achei perciò moviamo, né senza contrasto
possan recare il corpo di Pàtroclo ai concavi legni».
Disse. E d’un lancio balzò fra quei che pugnavano primi;
e si rivolsero quelli, piantandosi contro gli Achivi.
Qui con la lancia Enea trafisse il figliuol d’Ariobante
di Licomède il fedele compagno, Leòcrito. E grande
pietà, come lo vide cader, n’ebbe il prò’ Licomede;
e stette presso a lui, scagliò la sua lucida lancia,
e Apísone colpí, sovrano, figliuolo d’Ippàso,
sotto i precordi, nel fegato, e sùbito morto lo stese.
ch’era venuto dalla Peonia dai pascoli pingui,
e dopo Asteropèo, primo era fra tutti in battaglia.
Asteropèo pietà provò, che cadere lo vide,
e di gran cuore contro gli Achivi si spinse a pugnare:
ma nulla ei più poteva: ché fitti assiepavan gli scudi,
tendevan l’aste, mentre pugnavano a Pàtroclo intorno.
E presso a tutti, Aiace andava con mòniti molti,
e comandava che niuno movesse lontan dalla salma,
che niun si distaccasse per correre avanti alla zuffa,
ma tutti a lui daccanto restassero fermi a pugnare.
Cosíl’immane Aiace gridava; e bagnata la terra
era di rosso sangue: ché fitti cadevano i morti,
sia dei Troiani, sia dei lor valorosi alleati,
e degli Achei: neppur questi pugnavano immuni da strage,
ma ne cadevano meno: ché sempre badavano tutti
l’uno a schermir la vita dell’altro, nel fiero conflitto.
Cosí dunque la pugna ferveva, e pareva un incendio:
né sole avresti detto che qui più brillasse, né luna:
ed erano avvolti tutti di nebbia quanti eran più prodi
campioni, al corpo attorno di Pàtroclo in zuffa confusi.
Gli altri Troiani poi, gli altri Achèi da le belle gambiere,
senza tal mora, a cielo sereno pugnavan: del sole
si diffondeva acuta la luce, né al piano né al monte
nuvola alcuna appariva. Pugnavan; ma spesso una tregua
era alla zuffa; e i dardi schivavano l’uno dell’altro,
stando lontani; ma molto pativano gli altri nel mezzo,
quanti eran più gagliardi, pel buio, pel cozzo di guerra,
per gli spietati colpi del bronzo. Due soli fra tanti,
due valorosi guerrieri, Trasímede e Antlloco, ignari
eran di tutto, ancora: pensavan che Pàtroclo vivo
fosse, che contro i guerrieri di Troia fra i primi pugnasse;
e dei compagni schermendo la vita, evitando la fuga,
pugnavancf in disparte: ché a pugna li aveva esortati
Nestore, quando lontano li spinse dai negri navigli.
Ma tutto il giorno per gli altri durava la guerra accanita
della battaglia; e, affranti, grondavano sempre sudore
dalle ginocchia giù, dagli stinchi ciascuno, dai piedi:
n’erano i visi tutti, le mani imbrattate, mentre essi
pur combattevano, al corpo d’intorno di Pàtroclo prode.
E come quando un uomo consegna la pelle d’un toro,
madida tutta di grasso, per farla stirare, ai garzoni:
presala quelli, chi qua, chi là, la distendono in giro,
e l’umidore presto ne stilla, la pènetra il grasso
per il tirare di tanti, sinché tutta quanta si stende:
cosi, nel breve spazio, la salma tiravano quelli,
di qui, di lì: speranza nutrivano Achivi e Troiani,
quelli di trascinare la salma dentro Ilio, gli Achivi
verso le concave navi: selvaggia infuriava la zuffa
dattorno a lui; né Marte che incita i guerrieri, né Atena,
per quanto irata, opporsi, vedendo tal zuffa, poteva.
Tale quel giorno Giove d’intorno al figliuol di Menezio
duro travaglio tendeva di fanti e cavalli; né ancora
sapeva il divo Achille che Pàtroclo spento giaceva,
poiché pugnavan molto lontan dalle rapide navi,
sotto le mura di Troia; né punto credeva che spento
fosse, ma vivo, e che avesse raggiunte le mura di Troia
e poi fosse di là tornato: poiché ben sapeva
ch’ei né da solo Troia potrebbe espugnare, né seco:
ché molte volte udito l’avea dalla madre in segreto,
che fatto aveva a lui palese il consiglio di Giove;
ma non gli avea predetto il male seguito, che spento
era l’amico suo, diletto fra tutti i compagni.
E senza posa quelli, vibrando le lancie affilate,
stavano intorno alla salma pugnando, l’un l’altro uccidendo;
e alcuno degli Achivi coperti di bronzo, diceva:
«Amici, non sarà bella fama per noi, ritornare
presso le concave navi: no, prima ci còpra qui tutti
la negra terra: questo sarà molto meglio per noi,
se questa salma dovremo lasciare ai guerrieri troiani,
che nella loro città la rechino, e n’abbiano gloria».
E d’altra parte, cosí diceva talun dei Troiani:
«Se pure vuole il Fato che presso a quest’uomo cadere
tutti dobbiamo, amici, nessuno abbandoni la pugna».
Cosí dicea taluno, negli altri eccitava la furia.
Cosí dunque costoro pugnavano; e un ferreo clamore
su, fino al bronzeo cielo, volava pel vuoto dell’aria.
I cavalli di Achille piangono la morte dell’auriga e impietosiscono Giove, che li protegge. Ettore spinge Enea ad impossessarsene. Attaccano Automedonte e Alcimedonte, che guidano il carro. Automedonte uccide Arete. Ettore lo vuole colpire, ma fallisce.

E dalla zuffa intanto lontani, i corsieri d’Achille
stavan versando pianto, poi ch’ebber saputo che spento,
d’Ettore sotto ai colpi, giacea nella polve l’auriga.
Invano Automedonte, di Diore il prode figliuolo,
li andava stimolando, battendo con l’agile sferza,
or con blandizie ad essi volgendosi, ed or con minacce.
Essi, né indietro tornare, su l’ampio Ellesponto, alle navi,
né fra gli Achei tornare volean, dove ardeva la pugna.
Ma, come ferma sta colonna, che sopra una tomba
sorge diritta, d’un uomo defunto, di donna defunta,
saldi essi stavano, immoto reggendo il bellissimo carro,
figgendo al suol recline le teste; e scorrevano a terra
lagrime calde, dai cigli: per brama del loro signore
piangeano; e s’imbrattava al suolo la folta criniera,
giù dal collare effusa, da un lato e dall’altro del giogo.
Pianger li vide, e a pietà fu mosso il figliuolo di Crono,
e scosse il,capo, e queste parole rivolse al suo cuore:
«Miseri, perché mai vi demmo al sovrano Pelèo
mortale, voi che siete immuni da morte e vecchiezza:
forse perché dobbiate soffrir fra gli umani infelici?
Perché davvero, nulla più misero esiste dell’uomo,
fra quanti esseri sopra la terra hanno vita e respiro.
Ma pure, non potrà sopra voi, sopra il lucido carro,
Ettore figlio di Priamo balzare: ché io nol consento.
Ch’egli abbia l’armi forse non basta, e che vanto ne meni?
Tanto v’infonderò vigore nell’alma e nei piedi,
che salvo Automedonte portiate lontan dalla pugna,
presso le concave navi: ché gloria tuttora ai Troiani
concederò, sinché non sian giunti alle navi librate,
e il sol tramonti, e scenda sul mondo la tènebra sacra».
Detto cosi, spirò gagliardo vigor nei corsieri.
Essi scrollarono via dalle chiome la polvere al suolo,
e fra i Troiani e gli Achei veloci portarono il carro.
E quivi Automedonte, sebbene crucciato, pugnava,
come avvoltoio fra l’oche, scagliandosi innanzi col carro:
ché di leggeri poteva schivar dei Troiani il tumulto,
e di leggeri poteva piombar fra le turbe all’assalto;
ma uccider non poteva, quando ei le inseguiva, le genti;
ché solo era sul carro divino; e possibil non era
reggere insieme i veloci corsieri, e vibrare la lancia.
Pure, alla fine, su lui lo sguardo rivolse un compagno,
Alcimedonte, il figlio del figlio d’Emóne, Laerce,
e dietro il carro stette, cosí la parola gli volse:
«Automedonte, e quale dei Sùperi il senno ti tolse,
e in cuor questo disegno ti pose, che util non reca,
che nelle prime file cosí tu combatta da solo
contro i Troiani? Il tuo compagno fu spento; e superbo
Ettore va, ché le membra si cinse dell’armi d’Achille».
Automedonte a lui, di Diore figlio, rispose:
«Alcimedonte, e chi altri potrebbe, fra tutti gli Achivi,
regger la furia, e a freno tenere i corsieri immortali,
come quand’era vivo l’eroe pari ai Numi nel senno,
Pàtroclo? Ora su lui piombaron la Parca e la Morte.
Ma su, tu prendi adesso la sferza e le lucide briglie,
ed io discenderò, per prendere parte alla mischia».
Disse. Ed Alcimedonte balzò sopra il carro di guerra
velocemente, in pugno stringendo le briglie e la sferza.
Automedonte a terra balzò giù dal carro; e lo vide
Ettore tosto; e ad Enea si volse, che gli era da presso:
«Enea, tu che i Troiani dall’arme di bronzo consigli,
i due cavalli ho visti d’Achille dal piede veloce,
che son, da tristi aurighi guidati, comparsi nel campo.
Ed io speranza avrei, se tu desiderio ne avessi,
d’averli in nostra mano: ché certo, se noi ci avventiamo,
non oseranno starci di fronte, e appiccare la zuffa».
Disse cosí: né il prode figliuolo d’Anchise fu tardo.
E mosser l’uno e l’altro, con gli òmeri avvolti di salde
aride pelli di bue, su cui spesso stendevasi il bronzo.
E insiem con essi, Cromio, e Arète, divino all’aspetto,
ivano a pari; e grande speranza nutrivano in cuore
di uccidere quei due, di predare i superbi cavalli.
Stolti! Né ritornare dovean senza spargere sangue:
ché Automedonte al padre Cronide rivolse una prece.
Pieno il profondo seno senti di vigore e di forza,
e cosí disse ad Alcimedonte, diletto compagno:
«Alcimedonte, lungi da me non tenere i cavalli:
alle mie spalle fa’ che sbuffino: ch’io ne son certo,
non frenerà la sua furia di Priamo il figlio, se prima
non ci abbia entrambi uccisi, balzato non sia sui corsieri
dai bei crini, d’Achille, non abbia le schiere d’Acaia
rivolte in fuga, oppure non cada egli stesso fra i primi».
E cosi, detto, chiamò Aiace, chiamò Menelao:
«Aiace, e tu che a pugna conduci gli Achei, Menelao,
ora il cadavere a quelli che son più valenti affidate,
che stiano intorno a lui, respingan le schiere nemiche,
e lunge il di fatale tenete da noi che siam vivi:
perché nella battaglia di pianti feconda, pressura
Ettore con Enea, dei Troiani i più forti, qui fanno.
Ma sopra le ginocchia dei Numi riposan gli eventi;
la lancia io vibrerò; e Giove a ogni cosa provveda».
Disse cosi, vibrò, lanciò la lunghissima lancia,
e colpi Arete a mezzo lo scudo rotondo; né al colpo
resse la piastra; e passò fuor fuori la punta di bronzo,
e per la cintola via s’infisse nel basso del ventre.
Come la scure affilata talor vibra un giovine forte
dietro alle corna d’un bove selvatico, e i tèndini tutti
recide a un colpo, e quello di un balzo giù piomba: del pari
quegli, balzando avanti, supino piombava; e la lancia
entro le viscere acuta vibrando, la vita gli tolse.
Ettore allor contro Automedonte vibrò la sua lancia;
ma quei che ben lo vide, schivò la punta di bronzo,
chinando il capo innanzi. Di dietro la bronzea lancia
si conficcò nel suolo: rimase oscillando l’estremo,
e a poco a poco poi si franse la furia di Marte.
E con la spada qui l’un su l’altro sarebbe piombato,
se sopra loro, a spartirli, non fossero giunti gli Aiaci,
che, del compagno all’appello, corsi eran di mezzo alle turbe.
E per timore, allora, di nuovo si trassero indietro
Ettore, e Cromio che aveva l’aspetto d’un Nume, ed Enea,
Arete qui giacente lasciando, col cuore squarciato.
E Automedonte, l’eroe che in impeto Marte agguagliava,
dell’armi lo spogliò, pronunciò questi detti di vanto:
«Davvero, un poco adesso, per quanto abbia ucciso un da meno,
lenita ho nel mio cuore la doglia di Pàtroclo spento».
E, cosí detto, gittò sul carro le spoglie cruente,
ed egli stesso su vi balzò, con le mani ed i piedi
insanguinati, come leone che un toro ha sbranato.
Giove manda Atena ad incoraggiare gli Achei. Menelao uccide Pode (cognato di Ettore), ed Ettore vuole affrontarlo. Giove favorisce i Troiani.

E attorno ancor la pugna si strinse al figliuol di Menezio,
feroce, lagrimosa: ché Atena eccitava la rissa,
scesa dal cielo: mandata l’aveva il possente Cronide,
per eccitar gli Achivi: ché s’era voltato il suo cuore.
Come allorquando l’iri purpurea Giove dispiega
dal firmamento ai mortali, perché sia segnacol di guerra,
o di tempesta, che l’aria fa gelida, che dei bifolchi
l’opera a mezzo interrompe nei campi, e contrista le greggi:
cosi dentro una nube di porpora ascosa, la Diva
s’insinuò fra gli Achèi, ridestando in ognuno l’ardire.
E la parola prima rivolse al figliuolo d’Atrèo,
al prode Menelao, che presso le stava; ed assunto
aveva di Fenice l’aspetto e la voce mai stanca:
«Certo, per te, Menelao, sarà disonore ed obbrobrio,
se sbraneranno i cani voraci il fedele compagno
dell’ammirando Achille, sottesse le mura di Troia!».
E a lui disse cosí Menelao, prode all’urlo di guerra:
«Fenice, o vecchio annoso mio padre, deh!, infondere forza
volesse Atena in me, da me tener lungi le freccie!
Resistere io vorrei, difendere Pàtroclo, allora,
perché la morte sua m’è giunta nel cuore profondo.
Ma Ettore ha la furia del fuoco tremenda, né resta
mai dalla strage: ché a lui concede or la gloria il Cronide».
Cosí disse. E godè la Diva dagli occhi azzurrini,
perché lei prima avesse fra tutti i Celesti invocata.
E nelle spalle e nelle ginocchia vigore gli pose,
e in seno ardir tenace gl’infuse, quale della mosca,
che più la scacci, e più ritorna alla carne dell’uomo,
avida, a punger, ché il sangue dell’uomo le par troppo dolce.
Lo spirto fosco a lui colmò di consimile ardire.
E presso a Pàtroclo giunto, vibrò la sua fulgida lancia.
Era fra i Teucri un tal Pode, figliuol d’Ezióne. Valente
egli era, e ricco; e lui su tutti i guerrieri onorava
Ettore: ch’era compagno diletto di zuffe e di mensa.
Questo colpiva sotto la cintola il buon Menelao,
mentre volgeasi a fuga, passò la corazza di bronzo.
Diede un rimbombo cadendo: la salma il figliuolo d’Atrèo
via dai Troiani portò, trascinandola, in mezzo ai compagni.
E Febo allora, presso facendosi ad Ettore, disse —
e assunto avea l’aspetto di Fènope Asiade, caro
più d’ogni altro ospite a lui, che aveva dimora in Abido —
di questo, dunque, assunto l’aspetto, cosí gli parlava:
«Chi altri, Ettore, mai, vorrà degli Achivi or temerti,
se il solo Menelao temesti, creduto finora
fiacco guerriero! Vedi che adesso di sotto ai Troiani
leva da solo una salma, che uccise il tuo fido compagno,
Pode, figliol d’Ezione, che prode fra i primi pugnava».
Disse. Ed avvolto fu quello da un nuvolo negro di cruccio,
e tra le prime file si spinse, lucente di bronzo.
E allor, l’egida, tutta guizzante di frange, abbagliante,
prese il Cronide, e ascose fra i nembi la vetta dell’Ida,
e folgorò, levando terribile romba, e la scosse,
e die’ vittoria ai Teucri, gittò negli Achei lo sgomento.
Primo fuggi Penelèo di Beozia: colpito di lancia
fu ne la spalla, mentre volgeva la fronte al nemico.
Colpito a sommo fu; ma l’osso pur giunse a scalfirgli
Polidamante: ché questi colpito l’aveva da presso.
Ettore, poi, da presso, nel carpo feri della mano
d’Alettrióne magnanimo il figlio. Restò dalla pugna,
quegli, e fuggì, dattorno volgendo lo sguardo: ché oltre
più non presunse la lancia tenere, pugnar coi Troiani.
E Idomenèo percosse, mentr’ei s’avventava su Leito,
Ettore nell’usbergo, sul petto, vicino a una mamma;
ma si spezzò nel puntale la lancia; ed un grido i Troiani
alto levarono. Ed Ettore un colpo contro Idomenèo
Deucalidèo vibrò, mentre egli scendeva dal carro.
Di poco lo sbagliò: colpi lo scudiere e l’auriga
di Merione, Cerano. Seguito l’aveva da Litto:
ché a piedi egli da prima, lasciate le rapide navi,
era venuto; e dato qui avrebbe alto vanto ai Troiani,
se non spingeva a lui presso Cerano i veloci cavalli.
Come una luce giunse per lui, lo salvò dalla morte;
ma d’Ettore omicida mori sotto il colpo egli stesso:
di sotto gli colpi la mascella e l’orecchio: la punta
i denti via schizzò, recise nel mezzo la lingua.
Piombò dal carro giù, lasciò a terra cadere le briglie.
E Merione a terra si chinò, raccolse le briglie
con le sue mani, e ad Idomenèo la parola rivolse:
«Sferza i cavalli, adesso, finché non sii giunto alle navi:
vedi da te, che adesso non è degli Achei la vittoria!».
Si disse. E Idomenèo sferzava i veloci cavalli
verso le concave navi: ché preso l’aveva il terrore.
Aiace vede che Giove favorisce i Troiani; Menelao manda Antiloco, il figlio di Nestore, ad avvisare Achille che Patroclo è morto.

Né il segno era di Giove sfuggito al magnanimo Aiace,
né a Menelao, quando il Nume concesse la gloria ai Troiani:
onde cosí parlò di Telàmone il figlio possente:
«Miseri noi, vedere potrebbe sinanche uno stolto
che il padre Giove adesso sostiene egli stesso i Troiani:
a segno i dardi loro van tutti, chiunque li scagli,
sia valoroso o da poco: ché Giove alla mira li guida;
ma dalle mani a noi, tutti irriti cadono al suolo.
Su via, dunque, noi stessi cerchiamo il partito migliore,
onde sottrarre il corpo si possa ai nemici, e tornare
noi stessi, e dar col nostro ritorno conforto agli amici
che son crucciati, qui vedendoci, e niuno ha speranza
che d’Ettore omicida si sfugga alle mani, alla furia;
ma certo è che qui tutti morremo fra i negri navigli.
Deh!, se pur qualche amico recasse la nuova al Pelide,
prima ch’ei possa: ch’egli finora non sa, nulla intese,
della funesta nuova, che spento è il compagno suo caro.
Ma tra gli Achei non posso distinguer chi acconcio sarebbe,
perché son dalla nebbia nascosti essi stessi e i cavalli.
Deh!, Giove padre, sottrai dalla nebbia i figliuoli d’Acaia,
fa’ che il sereno torni, che possano gli occhi vedere:
se morti pur ci vuoi, fa’ che almen nella luce si muoia».
Cosí gemeva. Ed ebbe pietà del suo pianto il Cronide.
Sùbito sperse via la caligine, e scosse la nebbia;
e il sole scintillò, tutta quanta si vide la pugna.
E Aiace allora al buon Menelao volse queste parole:
«Or cerca, Menelao, progenie di Numi, se vivo
vedi tuttora il figlio di Nestore Antiloco; e digli
che, quanto prima può, si rechi ad Achille, e gli dica
che morto giace quegli che amò sopra tutti gli amici».
Cosí disse. E l’invito fu pronto a seguir Menelao.
E quindi mosse, e parve leon che abbandona una stalla:
che, poi che stanco è fatto, lottando coi cani e i pastori,
che, tutta notte desti, contrasto gli han fatto, che grassa
preda facesse dei bovi — s’avventa egli pure per brama
ch’à delle carni, e a nulla riesce, ché incontro zagaglie
volano fitte a lui, lanciate da mani gagliarde,
volan fascine accese: per quanto feroce ei le teme —,
all’alba infine lungi si volge ed il cuore gli piange.
Cosi, lontano andava da Pàtroclo il buon Menelao,
a mal suo grado: troppo temea che i guerrieri d’Acaia
per quel terrore lui lasciassero preda ai nemici.
E Merione molto, e molto ammoniva gli Aiaci:
«Aiaci, che a battaglia guidate gli Achèi, Merióne,
ora della bontà del misero Pàtroclo, ognuno
abbia memoria: seppe con tutti, sin ch’egli fu vivo,
esser soave: e adesso l’ha còlto il Destino di morte».
Il biondo Menelao, si scostò, come questo ebbe detto,
e d’ogni intorno l’occhio rivolse, ed un’aquila parve
che, dicono, ha la vista più acuta di tutti gli uccelli,
e non le sfugge, per alta che voli, una lepre veloce
che si rimpiatti sotto fronzuto cespuglio, ma sopra
si lancia a lei, l’afferra di bòtto, e le toglie la vita.
Cosí del pari a te roteavano gli occhi fulgenti,
o Menelao, d’ogni parte cercando, se mai fra le schiere
dei tuoi compagni, tu vedessi di Nestore il figlio.
E sùbito lo scorse, che stava a sinistra del campo,
ed esortava i compagni, spingeva le genti alla pugna.
Il biondo Menelao vicino gli stette, e gli disse:
«Antiloco, progenie divina, vien qui, ché tu oda
una funesta sciagura — cosi, deh!, seguita non fosse! —
Già da te stesso, credo, se guardi, potrai ben vedere
che rotolare il Nume sui Dànai fa la sciagura,
sui Teucri la vittoria; ma inoltre, il più forte dei nostri,
Pàtroclo è spento, e di lui gran brama fra i Dànai rimane.
Presto, alle navi adesso tu corri, e l’annuncio ad Achille
reca, se pure ei voglia qui correre, e salvo alle navi
recare il corpo ignudo: ché l’armi son d’Ettore preda».
Disse. Ed Antiloco, udendo, fu còlto d’un brivido; e a lungo
restò, senza parola poter profferir. Di pianto
colmi gli furono gli occhi, la voce restò nella strozza.
Ma non per questo pose l’invito in oblio dell’Atride,
e ratto mosse, l’armi lasciando a Laòdoco, fido
compagno suo, che presso spingeva i veloci cavalli.
Cosi, piangendo, a passi veloci lasciava la zuffa,
ché la novella triste recava ad Achille Pelide.
Intanto Menelao e Aiace e Merione cercano il modo di sottrarre il corpo di Patroclo ai Troiani, e ci riescono; lo sollevano e lo portano verso le navi, fuggendo. I Troiani, capeggiati da Ettore e da Enea, li inseguono, ma gli Aiaci li tengono a bada.

Né pur tu, Menelao, progenie dei Numi, volesti
restare ivi, a soccorso di quegli ambasciati compagni,
poscia che Antiloco fu partito, lasciando tra i Pili
di sé gran brama. A questi lasciò Trasimede forte,
ed egli corse ancóra vicino al figliuol di Menezio,
e qui stette, e parlò veloci parole agli Aiaci:
«Antiloco ho spedito, che presso le rapide navi
rechi la nuova ad Achille dai piedi veloci; né quegli
credo, verrà, per quanto contro Ettore avvampi di sdegno:
—ché in guerra non potrà senz’armi affrontare i Troiani.
E noi qui, dunque, adesso, cerchiamo il partito migliore
onde sottrarre il corpo si possa ai nemici, e torniamo
noi stessi, a dar col nostro ritorno, conforto agli amici».
E il grande Aiace, il figlio cosí di Telàmone disse:
«Inclito Menelao, fu ben tutto quanto dicesti.
Via, Merione e tu ponetevi sotto alla salma,
e dalla mischia lungi recàtela: a tergo frattanto
noi pugnerem coi guerrieri troiani, con Ettore prode:
ché uguale il nome, uguale vantiamo il coraggio; ed abbiamo
l’un presso all’altro, altre volte già retto alla furia di guerra».
Cosí diceva. E quelli levar su le braccia la salma,
alta dal suolo. E levò grande urlo lo stuol dei Troiani,
come vider gli Achèi sollevare di Pàtroclo il corpo.
E si slanciarono; e cani parevan, che, innanzi correndo
ai cacciatori, s’avventano sopra un cinghiale ferito,
che gli si fanno presso, che fare lo vogliono a brani;
ma come contro loro si volge il gagliardo, all’istante
balzano indietro, e chi qua, chi là si disperde tremando.
Similemente i Troiani su quelli correvano a schiere,
e con le spade via li colpivan, con l’aste affilate;
ma come contro ad essi volgevan la fronte gli Aiaci,
trascolorare i volti vedevi, e nessuno avea cuore
di farsi innanzi, e presso la salma appiccare la zuffa.
Cosi, pieni d’ardore, portavan lontan dalla pugna,
presso le navi, il corpo: su loro infieriva la guerra.
Come se investe il fuoco selvaggio città popolosa,
che d’improvviso sorge, divampa, e diroccan le case
dentro la fiamma immensa, ruggendo la furia del vento:
similemente su loro corsieri piombavan, guerrieri,
con incessante frastuono; ma pure, avanzavano quelli.
L’Atride e Merione parevan due muli robusti,
che traggon giù dal monte, per aspro sentiero di rocce,
o trave, o tronco grande di nave: stanchezza e sudore
ad essi, mentre svelti procedon, lo spirito opprime.
Cosí quei due di lena portavano il corpo; ed a tergo
stavan gli Aiaci a riparo, come argin selvoso, che, steso
traverso alla pianura, trattiene la furia dell’acqua,
i rovinosi gorghi trattiene dei fiumi gagliardi,
sùbito la corrente di tutti devia, li respinge
alla pianura, ché invano fluiscon di forza, a spezzarlo.
Sempre cosí gli Aiaci tenevano indietro la furia
dei Teucri; e questi ognora premevano; e due più che gli altri;
Enea, figlio d’Anchise, ed Ettore fulgido. E tutti,
come uno stuolo fugge di storni o uno stuolo di corvi,
con orrido schiamazzo, se giungere vede da lungi
uno sparviere, che strage far suole di piccoli augelli:
tutti cosi, dinanzi ad Ettore e al figlio d’Anchise,
con orrido schiamazzo fuggivan gli Achivi, in oblio
posta la pugna; e molte bell’armi d’intorno alla fossa
caddero in quella fuga; né pure avea tregua la pugna.
Antiloco comunica ad Achille che Patroclo è morto. Achille si dispera.
Questi cosí pugnavan: parevano fiamma che avvampi.
E messaggero ad Achille pie’ rapido, Antiloco giunse.
Presso alle navi che alta levavan la prora e la poppa,
ei lo trovò, presago di ciò che pur era seguito:
si che crucciato, andava dicendo al magnanimo cuore:
«Misero me, perché di nuovo gli Achivi chiomati,
tutti sgomenti, dal piano s’addensano sopra le navi?
Deh!, che non abbiano i Numi compiuto per me quel gran lutto
che un dì mi profetò mia madre, quando ella mi disse
che, me vivente ancora, caduto sarebbe il più forte
dei Mirmidoni, sotto le mani dei Teucri guerrieri.
Si certo, è spento il prode figliuol di Menezio! Meschino!
E ben detto gli avevo, che, spenta la fiamma nemica,
tornasse a noi, schivasse col figlio di Priamo la lotta».
Mentr’ei questi pensieri volgea nella mente e nel cuore,
ecco, gli giunse vicino di Nestore il fulgido figlio,
lagrime calde versando, gli diede la nuova funesta:
«Ahimè!, figlio del saggio Pelèo, che notizia di lutto
apprendere dovrai da me! Deh, non fosse avvenuto!
Pàtroclo spento giace, d’intorno al cadavere ignudo
arde la lotta: ché l’armi cadute son d’Ettore in mano».
Disse. Ed Achille avvolse di cruccio una nuvola negra:
polvere e cenere prese con ambe la mani dal suolo,
e se le sparse sul capo, bruttandone tutto il bel volto.
Tutto il nettareo manto fu sparso di cenere negra;
ed ei, l’alta persona distesa in gran tratto di suolo,
giacea, con le sue mani bruttava, straziava le chiome.
Tutte le donne che Achille con Pàtroclo aveva predate,
levarono alte grida, ferite nel cuore; ed uscite
fuor dalla tenda, tutte d’intorno al figliuol di Pelèo,
si percotevano il seno, mancando a ciascuna le forze.
Lagni dall’altra parte levava di Nestore il figlio,
pianto versava, le mani reggendo ad Achille piangente,
ch’egli temea che la gola segarsi volesse col ferro.
Il pianto di Achille viene udito da Teti, che corre a vedere cosa gli è successo. Achille le dice che vuole uccidere Ettore per vendicare Patroclo. Teti gli promette che gli porterà nuove armi forgiate da Efesto.

Orrido pianto levava. L’udí la divina sua madre,
che negli abissi del mare sedea presso il padre vegliardo,
e levò gemiti anch’essa. D’intorno si strinsero a lei
tutte quant’eran le figlie di Nèreo, nel fondo del mare:
erano quivi Azzurra, con Florida e Amicadellonde,
Vaganegliàntri, Isolana, Veloce, Marina occhiardente,
Rattasulonde, Amicadeilidi, Paludecorrente,
Dolcedimiele, Gaietta, Velocesuiflutti, Miranda,
Donodelmare, Prima, Possente, Trasportosoave,
Vastodominio, Dolcericetto, Fragliuominibella,
Doride, Tuttoveggente; con esse era pur Galatea
inclita, e Verità, Senzafrode, Bellezzasovrana,
Climene vera, e Gioiadelluomo, e Signoradigioia,
e Fulgida, e Amatèa dai riccioli belli, ed Orizia,
e quante v’erano altre Nerèidi nel fondo del mare.
Tutta fu piena di loro l’argentea spelonca; ed insieme
si percotevano il seno: principio die’ Teti al lamento:
«Udite, o mie sorelle Nerèidi, e tutte sappiate
chiaro, dal labbro mio, che doglie m’angosciano il cuore.
Ah!, che sciagura per me, generare il migliore dei figli!
Un figlio ho generato gagliardo ed immune da pecca,
primo fra tutti gli eroi. Crescea che pareva un virgulto;
e poi che lo nutrii, come arbusto sul dorso d’un campo,
ad Ilio io lo mandai, sovresse le navi ricurve,
contro i Troiani a pugnare; né accogliere più di ritorno
in patria io lo potrò, nei tetti del vecchio Pelèo;
e pur mentre egli vive, contempla la luce del sole,
deve soffrire; e non posso recarmi a lui presso, aiutarlo.
Ma ora, io vado, il figlio diletto a vedere, a sapere
perché, mentre egli lungi riman dalla zuffa, si cruccia».
E, cosí detto, lasciò la spelonca; ed insieme con lei,
mossero tutte l’altre, piangendo; ed i flutti del mare
s’apriano intorno ad esse. Poi, giunte alla fertile Troia,
saliano ad una ad una sul lido, ove fitte le navi
dei Mirmidóni, in secco tratte erano intorno ad Achille.
A lui, che amaramente piangeva, la madre divina
stette da presso, acuti lamenti levando; e abbracciando
del figlio il capo, queste parole, fra il pianto, gli volse:
«Figlio, che piangi? Che doglia t’è dunque piombata sul cuore?
Dimmelo, non tacere. S’è pure compiuto il tuo voto,
quello, che, al cielo alzando le palme, invocasti da Giove,
che fosser tutti i figli d’Acaia incalzati alle navi,
che, di te privi, duri volgesser per essi gli eventi!».
E a lei rispose Achille veloce, con gemiti gravi:
«0 madre mia, si, quello ch’io chiesi, l’Olimpio ha compiuto:
ma che gioia è la mia, se Pàtroclo è spento, l’amico
diletto mio, che io pregiavo fra tutti i compagni,
come la vita mia? L’ho perduto, dell’armi superbe
Ettore l’ha spogliato, che morte gli diede, dell’armi
meravigliose, belle, che diedero i Numi a Pelèo,
quel dì che te, Celeste, gittarono in braccio a un mortale.
Deh!, se tu fossi rimasta vicina alle Ninfe immortali,
e avesse il padre mio sposata una donna mortale!
E invece…. Anche tu devi crucciarti di doglia infinita,
pel figlio tuo che deve morire, che tu non potrai
riabbracciare al ritorno: che vivere più non voglio io,
né rimaner su la terra, se prima di Priamo il figlio
dalla mia lancia non cada colpito, non sconti la pena:
ch’ei Pàtroclo spogliò dell’armi, il figliuol di Menezio».
E Teti a lui rispose, di pianto bagnando le ciglia:
«E dunque, presto, o figlio, per ciò che tu dici, morrai,
poiché il Destino per te dopo Ettore segna la morte».
E a lei rispose Achille veloce, col cuore in corruccio:
«Sùbito, deh!, potessi morir, ché non seppi al compagno
dare soccorso; ed egli caduto è lontan dalla patria,
e invano attese ch’io giungessi a salvarlo da morte!
Ed ora, poi, non faccio ritorno alla terra patema,
né a Pàtroclo soccorso saputo ho recar, né ai compagni!
Presso alle navi seggo, disutile peso alla terra,
sebbene tale io sia, quale niun degli Achivi guerrieri
nelle battaglie, ch’altri mi può superar nei consigli.
Deh!, la contesa andasse distrutta fra gli uomini e i Numi,
distrutta andasse l’ira, che spinge a furore anche il saggio,
che, più soave assai del miele che stilla dai favi
si espande entro nei petti degli uomini, a guisa di fumo.
come or d’ira m’empié Agamennone sire di genti.
Ma or, ciò eh e passato scordiamo, per quanto ci crucci,
freno poniamo al cuore, se questo è pur d’uopo,» nel petto.
Ed ora andrò: ché coglier voglio io chi l’amico m’uccise,
Ettore; e il fato mio saprò sopportar, quando Giove
voglia che sia compiuto, lo vogliano gli altri Celesti.
Ercole, neppur egli sfuggiva al destino di morte,
sebben diletto egli era su tutti al figliuolo di Crono;
ché a lui la Parca, e d’Era lo sdegno, distrusse la vita.
Ed io pure, cosi, se tale m’aspetta una sorte,
morir dovrò, giacere. Ma nobile fama ora bramo,
bramo che delle donne Troiane e Dardànidi, alcuna
debba asciugare con ambe le mani le lagrime fitte
sopra le tenere guance, levando alte grida di lutto.
S’accorgeranno allora, quanto io dalla pugna fui lungi.
Non trattenermi, perciò: non voler ch’io non muova alla pugna».
E Teti a lui rispose, la Dea dall’argenteo piede:
«Si, tutto questo è vero, figliuolo. Non è cosa trista
che dai compagni lungi tu tenga l’estrema rovina.
Però, l’armi tue belle si trovano presso ai Troiani,
l’armi di bronzo abbaglianti: di Priamo il fulgido figlio
sugli omeri le regge, superbo ne va. Ma per poco
pompa dovrà menarne, ché a lui già vicina è la morte.
Ma tu non ti dovrai crucciar nel travaglio di Marte,
prima che gli occhi tuoi veduta non m’abbian tornare.
All’alba io tornerò dimani, col sole che sorge:
armi ti recherò dalle mani d’Efesto foggiate».
E, cosí detto, il viso distolse la Diva dal figlio,
alle sorelle marine si volse con queste parole:
«Entro l’immenso grembo del mare immergetevi adesso,
si che vediate il vegliardo marino, e la casa paterna,
e tutto a lui diciate. Frattanto, alle cime d’Olimpo
io vado, e’cerco Efesto, l’artefice insigne, se voglia
armi pel figlio mio foggiare, ben salde e lucenti».
Cosí diceva. E quelle s’immerser nei flutti del mare.
Teti all’Olimpo ascese, la Dea dall’argenteo piede,
per procurare l’armi ben salde al figliuolo diletto.
Achei e Troaiani vicino alle navi combattono ancora per la salma di Patroclo. Iride, mandata da Era, consiglia ad Achille di mostrarsi ai nemici, in modo da spaventarli. Così avviene, e gli Achei possono piangere sulla salma di Patroclo.

Teti sui rapidi piedi moveva all’Olimpo. E gli Achivi
con infinito tumulto, da Ettore sterminatore
cacciati, a l’Ellesponto pervennero in breve, ai navigli.
E qui, neppure il corpo di Pàtroclo, il prode scudiere
d’Achille, trarre in salvo potevan dai colpi gli Achivi,
perché raggiunto ancora l’avevano i fanti e i cavalli,
ed Ettore, figliuolo di Priamo, pareva una fiamma.
Tre volte Ettore prode ghermí per i piedi la salma
ché la voleva strappare, levando ai Troiani grandi urli:
tre volte ambi gli Aiaci, che avean di valore l’usbergo,
lo ricacciarono lungi. Ma ei, di sua forza sicuro,
or si lanciava innanzi nel fiero tumulto, poi stava,
levando fiere grida; né pure la presa lasciava.
Come i pastori, a notte, nei campi, lontan dalla preda
non valgono a tenere un rosso leone affamato,
cosi gli Aiaci entrambi tentavano invano dal corpo
di Pàtroclo, lontano tenere di Priamo il figlio.
E tratto via lo avrebbe, ne avrebbe riscossa alta gloria,
se Iride veloce, che piedi ha di vento, discesa
al figlio di Pelèo non fosse d’Olimpo, per dirgli
ch’egli s’armasse; né Giove né altri dei Numi sapeva:
Era l’aveva mandata. Vicino gli stette, e gli disse:
«Sorgi, figliuol di Pelèo, tremendo fra tutti gli eroi,
corri a difesa di Pàtroclo. Innanzi alle navi, per lui
arde accanita la zuffa, l’un l’altro si stanno uccidendo,
questi, pugnando a difesa del morto figliuol di Menezio,
ed i Troiani, portare lo vogliono ad Ilio ventosa.
Ettore più d’ogni altro, di Priamo il fulgido figlio,
trarlo vorrebbe in Ilio, vorrebbe recidergli il capo,
via dal morbido collo, configgerlo in vetta ad un palo.
Via, non poltrire più a lungo! Il cuore vergogna ti tocchi,
che Pàtroclo divenga ludibrio dei cani di Troia:
tuo, se fra i morti giungesse sconciato, sarebbe Io smacco».
E a lei rispose Achille dai piedi veloci, e le disse:
«Iride, e quale a me degli Dei ti mandò messaggera?».
Ed Iri a lui rispose, la Diva dai piedi di vento:
«Era mandata m’ha, di Giove l’illustre consorte:
non il figliuolo di Crono lo sa, né alcun altro dei Numi
eh anno dimora sopra l’Olimpo coperto di neve».
E a lei rispose Achille Pelide dai piedi veloci:
«Or, come andrò nella zuffa? Mi tengono i Teucri l’armi,
e non consente mia madre ch’io possa affrontare la guerra,
se ritornare prima non l’abbian veduta questi occhi:
ché mi promise ch’altre armi recate m’avrebbe, d’Efesto;
né so poi di chi altri potrei rivestire buone armi,
se non del grande Aiace lo scudo; ma questi, mi penso,
dev’esser nella mischia, di certo, a pugnare fra i primi,
con la sua lancia, a difesa del morto figliuol di Menezio».
E a lui cosí rispose la Diva dai piedi di vento:
«Bene anche noi lo sappiamo, che prese t’han l’armi tue belle:
récati, pur tuttavia, su l’orlo del fosso, e ai Troiani
mostrati, se, per sorte, di te sbigottiti, lasciare
voglian la pugna, ed abbian respiro i figliuoli d’Acaia,
per quanto oppressi: poco può dar nella pugna sollievo».
Iri, dai piedi veloci, partì, come egli ebbe ciò detto.
E Achille surse, amico dei Superi, e gli omeri saldi
gli cinse allora Atena con l’egida ornata di frange,
tutto d’intorno al capo gli avvolse una nuvola d’oro,
ed una fiamma fece da lui divampare abbagliante.
Come d’una città si leva per l’ètere il fumo,
lungi, da un’isola, cui stretta hanno d’assedio i nemici:
quelli per tutto il giorno si provano in zuffa tremenda
fuor dalle loro mura; ma poi, come il sole tramonta,
l’un dopo l’altro fuochi sfavillano, ed alta si leva
l’impetuosa fiamma, ché vedan le genti vicine,
se mai recare aiuto potesser coi loro navigli:
tale dal capo d’Achille per l’ètra sorgeva un bagliore.
Mosse dal muro, stette vicino alla fossa, né pure
si mescolò con gli Achèi: ché seguia della madre il consiglio.
Quivi ristette, e un urlo levò. Gridò Pàllade anch’essa
da un’altra parte, e gittò fra i Troiani un immenso scompiglio.
Come distinta s’ode la voce, se squilla una tromba,
allor ch’è una città recinta da infesti nemici,
cosi chiara la voce sonò del nipote d’Eàco.
E come gl’inimici udir quella bronzea voce,
furono invasi tutti d’orrore: i criniti cavalli
volsero addietro i carri, ché in cuor presentivano i danni,
rimasero percossi gli aurighi, poiché su la fronte
vider d’Achille il fuoco tremendo che mai non s’estingue,
distruggitore: acceso l’avea l’occhiglauca Atena.
Tre volte il divo Achille levò dalla fossa un grande urlo,
fuggirono a scompiglio tre volte Troiani e alleati.
E dodici guerrieri qui caddero spenti, fra i primi,
dattorno ai carri, aliaste dattorno; e a loro agio gli Achivi,
tratto di Pàtroclo il corpo lontan dalla furia dei colpi,
sopra un giaciglio lo posero. Intorno gli stetter piangendo
tutti gli amici. E Achille veloce pur ei li seguiva,
lagrime calde versando, poiché vide il fido compagno
che su la bara giaceva, trafitto dal ferro affilato:
però ch’egli mandato l’aveva col carro e i corsieri
alla battaglia; né più l’aveva abbracciato al ritorno.
Era fa tramontare il sole, la battaglia cessa. I Troiani si riuniscono a consiglio.

Ed Era, allor, la Dea veneranda dagli occhi lucenti,
Elio costrinse, contro sua voglia, a tornare nel mare.
Ed Elio si tuffò, desisteron gli Achivi divini
dalla spietata guerra, dal fiero cozzar della mischia.
Ed i Troiani anch’essi, lasciata la pugna feroce,
fattisi lungi, dai carri disciolsero i pronti corsieri,
e si riunirono, pria di pensare alla cena, a consiglio.
I Troiani si riuniscono in assemblea. Polidamante consiglia di ritirarsi alla Rocca. Ma Ettore non vuole rinunciare a battersi, perché pensa di vincere. I Troiani ascoltano Ettore.
E in piedi l’assemblea fu tenuta: ché niuno avea cuore
di star seduto: tutti terrore ingombrava: ché Achille
apparso era, che tanto dal campo rimasto era lungi.
Polidamante, l’accorto figliuolo di Panto, a parlare
prese per primo: ch’ei solo vedeva il passato e il futuro.
D’Ettore esso era compagno, nati erano entrambi una notte,
ma l’un più nei consigli valeva, più l’altro nell’armi.
Questi, pensando al bene, cosí cominciava a parlare:
«Pensate bene a tutto, compagni: ché io vi consiglio
che sùbito in città torniam, senza attendere l’alba,
presso le navi, nel piano: ché lungi siam qui dalle mura.
Sinché fu con l’Atride Agamennone irato quell’uomo,
cosa più agevole fu combatter coi figli d’Acaia:
allor piacque anche a me, pernottar presso i rapidi legni,
con la speranza che prender potremmo le rapide navi:
adesso, invece, troppo temo io pel veloce Pelide:
tale uno spirito avendo quale ha, tracotante e superbo,
ei non vorrà nel piano restar, dove Achivi e Troiani
vanno con sorte alterna tentando la furia di guerra,
ma la città tenterà di prender, le donne troiane.
Datemi retta, alla rocca torniamo: ché questo ci aspetta:
ha posto freno adesso la rorida notte al Pelide;
ma quando sorgerà l’aurora, e recinto dell’armi,
egli si slancerà, se qui pur ci trova, più d’uno
saprà chi sia: beato sarà chi potrà con la fuga
salvarsi in Ilio: molti dovranno dei Teucri far sazi
cani e avvoltoi! Deh!, ch’io non debba udir mai tale scempio!
Ora, se pure a malgrado, volete il mio mònito udire,
teniam la notte in piazza raccolte le forze: la rocca
custodiranno le torri, le porte alte, i travi confitti
sopra le porte, lunghi, di salda compagine, lisci.
Poi, come la prima alba si levi, recinti dell’armi,
sopra le torri staremo: sarà crudel prova per lui,
se dalle navi ei vorrà venire a pugnar sotto il muro:
alle sue navi tornare dovrà, poi che sazi i cavalli
di scorribande vane saran sotto i valli di Troia;
né il cor gli basterà di spingersi dentro la rocca,
e non l’espugnerà: sarà prima ludibrio dei cani».
Ma Ettore guerriero, guardandolo bieco, rispose:
«Polidamante, le tue parole mi piacciono poco,
se vuoi che alla città di nuovo si torni respinti.
Sazi non siete ancora di starvene dentro le mura?
Tempo fu già che tutte le genti, di Priamo la rocca
ricca dicevano d’oro, dicevano ricca di bronzo.
Ma sono i bei tesori scomparsi oramai dalla casa,
e in Frigia e ne la bella Meonia van molti dei beni
venduti, ora che Giove possente è crucciato con noi.
Ed ora, poi che il figlio di Crono concesse che gloria
presso le navi io raccolga, che al mare gli Achivi respinga,
stolto, alle turbe tu non porgere tali consigli.
E già, niuno vorrà darti retta: ché io nol consento.
Ma via, su, tutti quanti facciamo così com’io dico:
ora si faccia la cena nel campo, ciascuno al suo posto,
e si sovvenga di fare la guardia, e ciascuno sia desto:
ché se qualcuno dei Teucri si cruccia dei troppi suoi beni,
li metta insieme, e dia, perché li consumi, alla turba:
meglio che alcuno di loro li goda, e non già qualche Achivo.
Domani, come l’alba sarà, tutti cinti dell’armi,
presso alle concave navi si desti il furore di Marte.
Ché se il divino Achille davvero è vicino alle navi,
dura sarà la prova per lui, se la cerca: alla fuga
io già non penserò, bensí gli starò faccia a faccia,
sia ch’ei la gran vittoria consegua, o pur ch’io la consegua.
Enialo è incerto; e spesso chi sta per uccidere, muore».
Ettore questo diceva, gli fecero plauso i Troiani.
Stolti! Ché Pallade Atena li aveva sviati dal senno:
ché d’Ettore i consigli lodarono, ed erano tristi,
e niun Polidamante lodò, che parlava pel meglio.
Gli Achei piangono Patroclo tutta la notte e lavano il suo corpo. Achille si ripropone di uccidere Ettore, prima di morire lui stesso.

Cosí presero il pasto, restando nel campo. E gli Achivi
piansero Pàtroclo tutta la notte, con alti lamenti.
E cominciò fra loro l’amaro lamento il Pelide,
sul seno del compagno stendendo le mani omicide,
gemiti fitti levando: pareva leon generoso,
a cui dal folto bosco rapiti abbia i teneri figli
un cacciatore di cervi: arriva egli tardi, e si cruccia,
e va per molte valli cercando le tracce dell’uomo,
se mai lo può trovare: che acuta lo invade la bile.
Cosi, con fiero lagno, parlava ai Mirmídoni Achille:
» Ahi, che parola vana m’uscí dalle labbra, quel giorno
ch’io, nella casa sua feci cuore a Menezio l’eroe!
Io gli promisi che a Opunte gli avrei ricondotto suo figlio,
con la sua parte di preda, poiché fosse Troia espugnata!
Ma non vuol tutti Giove compiuti degli uomini i voti.
Vuole il Destino ch’entrambi di sangue arrossiamo la terra,
nella pianura di Troia: poiché neppur me nella casa
accoglierà di ritorno l’antico guerriero Pelèo,
né Teti madre mia; ma qui giacer devo sepolto.
Pàtroclo, ed ora, poiché dopo te devo andare sotterra,
non ti farò l’esequie, se d’Ettore l’armi ed il capo
prima io non rechi qui, del guerrier che ti tolse la vita.
E prima, tanta è l’ira che m’arde, dinanzi alla pira
dodici eletti vo’ figliuoli dei Teucri sgozzare.
Tu giacerai frattanto vicino alle concave navi,
e intorno a te le donne troiane e le donne dardanie
lagrime verseranno, gemendo di notte e di giorno,
quelle che noi conquistammo con dura fatica di lancia,
quando le pingui città degli uomini a sacco ponemmo».
E, cosí detto, impose Achille divino ai compagni
che senza indugio sul fuoco ponessero un tripode grande,
si che lavasser le piaghe sanguigne di Pàtroclo. E quelli
posero un gran bacile da bagno nel fuoco fiammante,
e vi versarono l’acqua, bruciandovi legna di sotto.
Tutta cingeva il fuoco la conca del tripode; e l’acqua
vi si scaldava; e quando bolli dentro il lucido rame.
ecco, levarono il corpo, con pingue licore d’ulivo
l’unsero, empieron tutte le piaghe d’unguento novenne.
Poscia lo poser sul letto, distesero un lino sottile
dal corpo ai piedi, e sopra vi posero un candido manto.
E tutta notte poi, d’intorno ad Achille veloce,
i Mirmidóni lamenti levaron su Pàtroclo spento.
Mentre Era e Giove commentano gli ultimi fatti, Teti va da Efesto, gli spiega ciò è successo ad Achille, e gli chiedi di forgiare per lui un’armatura

E Giove ad Era, sua sorella e sua sposa, diceva:
«Era dagli occhi lucenti, compiuto hai pur ciò che volevi:
tornare Achille piediveloce hai pur fatto alla zuffa!
Sono tuoi figli di certo gli Achei dalle fulgide chiome!»
Ed Era a lui, la Diva dagli occhi fulgenti, rispose:
«Quali parole mai, prepotente Cronide, hai tu dette?
L’uom contro l’uomo pure riesce a tramare un suo danno,
sebbene sia mortale, sebbene non ha troppo senno:
e come io, che mi vanto fra tutte le Dive l’eccelsa,
per due ragioni, ch’io prima nacqui, e che sono tua sposa,
di te che tutti i Numi d’Olimpo governi, come io
contro i Troiani ordire non devo malanni, se li odio?».
Queste parole, dunque, scambiavano l’uno con l’altro.
E Teti pie’ d’argento, pervenne alla casa d’Efèsto,
stellata, eterna, bella fra quante son case dei Numi,
tutta di bronzo, che aveva costrutta egli stesso, il Pie’ torto.
E lo trovò che sudava, girandosi ai mantici attorno,
che s’affrettava: stava foggiando dei tripodi, venti,
da stare alle pareti d’intorno a una solida stanza.
Sotto a ciascuno, alla base, disposte egli aveva rotelle
d’oro, perché da sé movesser dei Numi ai convegni,
poi ritornassero a casa da sé, meraviglia a vederli.
Eran sin qui compiuti; ma ancora le fulgide orecchie
non v’erano: ei le stava foggiando, battendone i chiovi.
Mentre a queste opere intento con grande artificio era il Nume,
Tètide a lui, la Dea dall’argenteo pie’, giunse presso.
Caritè giunger la vide, la bella dal morbido velo,
che sposa era d’Efesto, l’insigne ambidèstro; e le mosse
contro, le prese la mano, le volse cosí la parola:
«Teti dal lungo peplo, qual causa, diletta e onorata,
te guida al nostro tetto? Di rado venirci solevi!
Vieni prima con me, ché i doni ospitali ti porga».
E, cosí detto, seco l’addusse la Dea fra le Dive,
sovra un bel trono ornato di borchie d’argento e di fregi,
seder la fece; ed uno sgabello anche v’era pei piedi.
Efèsto indi chiamò, l’artefice insigne, e gli disse:
«Efèsto, fatti avanti, ché Tètide è qui che ti cerca».
E a lei rispose allora l’artefice insigne ambidestro:
«Una gran Dea mi dici ch’è giunta, ch’io venero. In salvo
ella mi trasse, quando, caduto dal cielo, io pativo,
mercè della mia madre, la cagna sfacciata, che volle
farmi sparire, perché ero zoppo; e avrei molto sofferto,
se non m’avessero accolto nel grembo Eurinome e Tèti,
Eurinome, la figlia d’Ocèano, che cinge la terra.
Stetti sette anni con esse, foggiando molte opere belle
nel bronzo, e fibbie, e curvi bracciali, e collane ed anelli,
entro la cava spelonca: d’intorno, d’Ocèano il flutto
scorrea rimormorando, spumando incessante; né altri
sapea, né fra i Celesti, di me, né fra gli uomini: sola
Tèti sapea, che salvato m’aveva, ed Eurinome sola.
Ed ora, alla mia casa giunge ella: pertanto conviene
che adesso io renda a Tèti dai riccioli belli il compenso.
Ora, imbandisci tu per essa la mensa ospitale,
ché io metta da parte i mantici e tutti gli arnesi».
E, cosí detto, surse di presso all’ancudine il mostro
gagliardo, e trascinava, movendo, le gracili gambe.
Poscia, lontano dal fuoco i mantici pose e gli arnesi
del suo lavoro, e tutti li chiuse in un’arca d’argento:
con una spugna, poi, si deterse ben bene la faccia,
ambe le mani, il collo gagliardo ed il petto villoso,
cinse la tunica, strinse lo scettro massiccio, e a pie’zoppo
fuori dall’uscio mosse: con lui pur movevano ancelle
sculte nell’oro, che in tutto sembravano vive fanciulle,
perché senno entro i petti racchiudono, e forza, e favella,
e sperte sono, in grazia dei Numi, nell’opere belle;
e ansavan sotto il peso del loro signore. E movendo,
questi, vicino a Teti, sede’ sopra il lucido trono,
e a lei prese la mano, le volse cosí la parola:
«Tètide, qual cagione t’addusse alla nostra dimora,
o riverita e cara? Di rado venirci solevi!
Dimmi che cosa brami, ch’io bramo di farti contenta,
se pure io far lo posso, se cosa è che compiersi possa».
E a lui dava risposta cosi, fra le lagrime, Tèti:
«Efesto, e quale mai, fra quante son Dive in Olimpo,
tanti dove’ nel cuore patir luttuosi cordogli,
quanti ne inflisse a me più che ad altri il figliuolo di Crono?
Me, fra le Dive tutte del mare, die’ sposa a un mortale,
diede al figliuolo d’Eàco Pelèo: si che, pur contro voglia,
giacer dovei nel letto d’un uomo. Or, da tristi tormenti
nella sua casa oppresso giace egli; ed io nuovi cordogli
soffro; ché un figlio mi diede; io l’ho generato e cresciuto,
e primo è fra gli eroi; crescea che pareva un virgulto;
e poi che lo nutrii, come arbusto sul dorso d’un campo,
ad Ilio lo mandai, sovresse le navi ricurve,
contro i Troiani a pugnare; né accogliere più di ritorno
in patria io lo potrò, nella casa del vecchio Pelèo;
ed anche mentre ei vive, contempla la luce del sole,
deve soffrire; e non posso recarmi a lui presso, aiutarlo.
E la fanciulla che in premio prescelta i signori d’Acaia
aveano a lui, glie l’ebbe di mano poi tolta l’Atride;
e l’alma, egli, pel cruccio di lei si struggeva; e i Troiani
spinsero contro le navi gli Achivi, né uscir dalla stretta
più li lasciarono. E allora, preghiera gli Achivi vegliardi
a lui volser, promessa gli fecer di fulgidi doni;
ma egli rifiutò di lungi scacciare il malanno,
e l’armi proprie invece, fe’ cingere a Pàtroclo, e quello
a la battaglia mandò, con lui mandò pur molta gente.
Pugnaron tutto un giorno d’intorno alle porte sceèe;
e certo la città pigliavan quel giorno, se Apollo,
quando avea già molte stragi compiute il figliuol di Menezio,
non l’uccideva fra i primi, che d’Ettore poi fu la gloria.
Per questo ai tuoi ginocchi vengo ora, se tu pel mio figlio,
che poco viver deve, foggiar mi volessi uno scudo,
ed un crinito elmetto, fimbriati schinieri, ed usbergo:
ché il suo, l’hanno i Troiani predato al suo fido compagno,
ed egli a terra sta disteso, rodendosi il cuore».
Efesto si mette al lavoro e crea un magnifico scudo, l’elmo, gli schinieri per Achille, e li consegna a Teti, che subito va a portarli al figlio.
E a lei cosí rispose l’artefice sommo ambidestro:
«Sta di buon animo, e più non t’affannino questi pensieri:
cosi lungi potessi tenerlo, nascosto alla Morte
abominata, quando lo giunga il suo fiero destino,
come egli avrà belle armi, che niuno fra i tanti mortali
potrà restare senza stupor, come le abbia vedute».
Detto cosi, la lasciò, e ai mantici fece ritorno.
I mantici eran venti: soffiavano dentro i crogioli.
fuori spirando soffi gagliardi, più forti e più leni,
ora per secondare la fretta d’Efesto, ora l’agio,
come volea l’Ambidestro, per compiere a punto il lavoro.
Poscia nel fuoco gittò l’indomito bronzo, lo stagno,
e l’oro prezioso, l’argento gittò: sovra il toppo
quindi piantò l’incudine grande; e il possente martello
nell’una mano strinse, con l’altra impugnò le tenaglie.
Ed uno scudo, prima di tutto, fe’, grande e massiccio,
che tutto istoriò, gittandovi un orlo d’intorno,
triplice, luccicante: fregiato era il balteo d’argento.
Aveva cinque strati lo scudo; ed Efesto sovra esso
avea molti lavori condotti con fine artificio.
Quivi foggiata aveva la terra ed il cielo ed il mare,
l’infaticato Sole, la Luna che piena rifulge,
e tutte quante le stelle che sono corona del cielo,
le Iadi, le Plèiadi, il fiero gigante Orione,
e l’Orsa, che le genti chiamare anche sogliono Carro,
che sovra un punto sempre si gira, guatando Orióne,
e tra le stelle, sola è dai lavacri d’Ocèano immune.
Poi, vi foggiò due belle città di parlanti mortali.
Erano feste di nozze scolpite nell’una e banchetti.
Per la città le spose guidavano ai talami, al lume
di scintillanti faci, volando il sonoro imenèo:
e giovinetti in giro tessevano danze, e fra loro
la voce si levava di flauti e di cetre; e le donne
stavano, ognuna sopra la soglia di casa, ammirando.
Quindi, una piazza, e in quella gran ressa di genti. Una lite
quivi era sorta: due contendeano fra Ior, per la multa
d’un uomo ucciso. L’uno, facendone pubblico giuro,
dicea d’averla tutta sborsata; quell’altro negava;
e per venirne a fine, chiedevano un arbitro entrambi.
Questo acclamavano e quello le genti, divise in due parti;
e al popolo gli araldi silenzio imponevano; e i vegli
su levigate pietre sedeano in un sacro recinto,
gli scettri degli araldi canori stringendo nel pugno.
Sorgean, poggiati a questi, dicevano l’un dopo l’altro
la lor sentenza. E due talenti giacevano in mezzo,
d’oro, per darli a chi pronunciasse il giudizio migliore.
Stavano all’altra città d’intorno, due schiere nemiche
tutte fulgenti nell’armi. Pendevan le brame fra due:
o saccheggiare, oppure dividere tutte in due parti
quante ricchezze in sé chiudeva la rocca opulenta.
Ma quelli, ancor non vinti, avevano teso un agguato.
Stavano a guardia sopra le mura le spose dilette,
e i pargoletti figli, con loro anche stavano i vecchi.
Ivano gli altri; e Marte con Pàllade Atena era guida:
erano entrambi d’oro foggiati, con auree vesti,
erano belli e grandi, recinti dell’armi, e ben chiaro
pareva ch’eran Dei: più piccole intorno le genti.
Giunti ch’essi erano al luogo che adatto pareva all’agguato,
presso ad un fiume, dove solevano tutti gli armenli
abbeverarsi, qui si appiattarono, chiusi nel bronzo;
e poste avevan due vedette, a spiare da lungi,
quando vedessero giunger le greggi ed i lenti giovenchi.
Giunsero presto; e due pastori venivan con essi,
sonando la sampogna; né avevan la mente ad insidie.
Come li videro, quelli balzarono sùbito; e presto
predarono gli armenti dei buoi, delle pecore bianche,
predarono le mandre, ne posero a morte i pastori.
Ma, come udir quel frastuono d’intorno ai giovenchi, i nemici
che stavano a consiglio seduti, balzar senza indugio
sopra i cavalli più rapidi, accorsero, giunsero presto.
Presso le rive qui del fiume, appiccaron la zuffa,
e l’uno contro l’altro vibravan le bronzee zagaglie.
C’era Contesa, c’era Tumulto, e la Parca funesta,
che un uom teneva, or ora ferito, ed incolume un altro,
e un altro, ai pie’ghermito, tirava, già morto, pel campo,
e tutta rossa di sangue sugli omeri aveva la veste.
E s’incontravano come se avessero vita, i guerrieri,
che dalle mani l’uno dell’altro strappavano i morti.
Poscia, una molle maggese vi finse, una fertile terra,
ampia, tre volte arata. Volgevano i bovi aggiogati
molti aratori in essa, movendo da un capo ad un altro.
E quante volte, tornando, giungevan del campo al confine,
tante di contro ad essi facevasi un uomo, e una coppa
di vin dolce porgeva: sicché, ritornavano ai solchi,
desiderosi di giungere al termine ancor del maggese.
E nereggiava dietro la terra, ed arata sembrava,
sebbene fosse d’oro: prodigio a vedere stupendo.
Quindi, un podere vi finse regale. Tagliavan le spighe
due mietitori, in pugno stringendo le falci affilate.
Ed i mannelli, qui, fitti fitti cadean lungo il solco,
ed altri i legatori stringevan coi vétrici. E appunto
i legatori eran tre, che stavan 11 presso; e ragazzi
stavano dietro, e i mannelli recavano via tra le braccia,
senza interrompersi mai. Fra loro, impugnando lo scettro,
stava in silenzio il re, sopra un solco, e gioiva nel cuore.
Sotto una quercia, araldi, lf presso, ammannivano il pranzo.
Un gran bove immolato avevano; e intanto le donne
sopra le carni molta spargevano bianca farina.
Quindi, una vigna tutta di grappoli carica finse.
La bella vigna, d’oro, ma i grappoli v’erano neri;
ed era d’ogni parte sorretta da pali d’argento,
ed un fossato intorno di ciano, di stagno un recinto
anche vi finse. Solo correva un sentier per la vigna:
i portatori, quando mieteano, passavan per quello;
e verginette, e con esse fanciulli di spirito gaio,
entro cestelli ad intreccio portavano i grappoli dolci.
Ed un fanciullo, stando fra lor, con la cétera arguta
soavemente sonava, cantando il bell’inno di Lino,
con delicata voce: movendosi gli altri in misura,
con canti e liete grida seguiano, coi guizzi dei piedi.
Ed un armento finse di buoi dalle corna lunate.
I bovi, alcuni d’oro foggiati, ed alcuni di stagno,
fuor dalla stalla, al pascolo uscivano in furia, mugghiando,
lungo un sonante fiume, vicino alle mobili canne.
Quattro pastori d’oro schierati eran presso i giovenchi,
e nove cani, dietro, movevano i piedi veloci.
E due leoni orrendi, piombando sui primi giovenchi,
avean ghermito un toro mugghiante. Con alti muggiti
quello era tratto; e dietro giungevano i cani e i pastori.
Ma, del gran toro avendo le fiere squarciate le membra,
íentragne e il negro sangue lambivano; e invano i pastori •
spingevan contro loro, aizzavano i cani veloci:
ché non osavano quelli coi morsi affrontare i leoni,
ma li schivavano; e solo Ievavan da presso i latrati.
E un pascolo anche finse l’artefice sommo ambidestro,
entro una bella vallèa, con gran copia di pecore bianche,
e stalle; e riparati da tetti, recinti e capanne.
Ed una danza finse l’artefice sommo ambidestro,
simile a quella che un di, nell’ampie contrade di Creta,
Dèdalo un giorno apprestò per la bella ricciuta Arianna.
Quivi fanciulli danzavano, e vergini molto bramate’
che l’Uno all’altra il polso stringevano, presso la palma:
quelle, di vesti cinte sottili, di tuniche questi
bene intessute, nuove, che ancora stillavano d’olio:
aveano cinta quelle di belle corone la fronte,
d’oro pendeano spade a questi dai baltei d’argento.
E questi, ora giravano svelti sui rapidi piedi,
agilemente, come fra mano l’agevole ruota
prova il vasaio, stando seduto, se rapida scorre,
or gli uni verso gli altri correvano, in fila disposti;
e molta turba stava d’intorno all’amabile danza,
ché ne traeva diletto. Fra loro, un cantore divino
stava suonando la cetra. Prendendo le mosse dal canto,
due giocolieri nel mezzo volgevansi come palèi.
Poi, l’Ambidestro, all’orlo estremo del solido scudo,
attorno attorno, finse la possa d’Ocèano grande.
E poi ch’ebbe costrutto lo scudo grande e robusto,
l’usbergo costruí, più lucente del raggio del fuoco,
l’elmetto costruí ben saldo, aderente alle tempie,
istoriato, bello, l’ornò con un aureo cimiero.
Infine, costruí gli schinieri, d’agevole stagno.
Poi ch’ebbe tutte l’armi costrutte l’insigne Ambidestro,
le prese, ed alla madre d’Achille dinanzi le pose.
Ed ella si lanciò dalle cime nevose d’Olimpo,
come sparviere, l’armi recando fulgenti d’Efesto.
Teti porta ad Achille le armi forgiate da Efesto, e lo sprona a rinconciliarsi con Agamennone e tornare a combattere, assicurandogli che lei veglierà sul corpo di Patroclo e impedirà che imputridisca.
Ecco, dai rivi d’Ocèano, Aurora dai peplo di croco
fuori balzò, che ai Numi recava la luce e ai mortali;
e coi presenti del Nume, d’Achille a le rapide navi
Tètide giunse; e il figlio trovò, che di Pàtroclo il corpo
stretto teneva, piangendo: gemevano molti compagni
a lui d’intorno. Ad essi vicina si fece la Diva,
e per la mano lo prese, gli volse cosí la parola:
«0 figlio mio, per cruccio che averne si possa, lasciamo
giacer costui, poiché dei Numi la forza l’ha spento;
e tu da me quest’armi fulgenti d’Efesto ricevi,
belle cosi, che alcuno non mai le indossò dei mortali».
E, dette ch’ebbe queste parole, la Diva depose
l’armi dinanzi ad Achille. Mandarono tutte uno squillo;
e furon di terrore colpiti i Mirmidoni; e niuno
guardarle osava, tutti tremavano. Achille soltanto,
come le vide, più fu invaso dall’ira; e tremende
le sue pupille, sotto le ciglia, mandavano lampi.
E s’allegrò, del Dio ricevendo i bellissimi doni;
e poi che sazio fu di guardare quell’opere belle,
alla sua madre si volse, parlò queste alate parole:
«L’armi che il Dio m’ha date, somigliano ad opre di Numi.
Esser cosí doveva: nessuno degli uomini, o madre,
era capace di tanto. Vo’ cingerle adesso alle membra.
Ma troppo temo adesso pel prode figliuol di Menezio,
che nelle piaghe schiuse dal bronzo non entrin le mosche,
non generino vermi, che sconcino il corpo defunto:
ché vita più non ha, ché tutte marciscon le carni».
E a lui cosí rispose la Dea dall’argenteo piede:
«L’animo, figlio mio, non devi per questo crucciarti:
lungi dal corpo io terrò le selvagge tribù delle mosche,
che sogliono far pasto degli uomini uccisi in battaglia:
se qui dovesse pure giacer sin che un anno si compia,
sempre qual’è dovrà restare, e forse anche più bello.
Ma ora, a parlamento tu chiama i guerrieri d’Acaia,
l’ira contro l’Atride signore di genti deponi,
sùbito dopo, a guerra t’appresta; e valore te vesta».
La Dea, con questi detti l’infuse d’audace prodezza.
Nelle narici poi di Pàtroclo, ambrosia stillava,
nèttare rosso stillava, perché non marcisse la carne.
Achille e Agamennone si riconciliano

E andò lungo la riva del pelago Achille divino,
e con orrende grida riscosse i guerrieri d’Acaia.
E sin quelli che inanzi soleano restar presso i legni,
ed i piloti, e quelli che avevano i remi in custodia,
e quei, che, dispensieri, partire solevano il pane,
anch’essi a parlamento correvano, adesso che Achille
era comparso, che tanto rimasto era lungi alla pugna.
E, zoppicanti, due giungevan scudieri di Marte,
il figlio di Tidèo valoroso, ed Ulisse divino,
ambi poggiati all’asta: ché ancora soffrian delle piaghe.
Giunti che furono qui, sedettero, primi fra tutti.
Giunse Agamènnone, sire di genti, per ultimo: anch’egli
era ferito: l’aveva colpito nel fiero cimento
con la sua lancia di bronzo, Coóne, d’Antènore figlio.
E poi che furon tutti raccolti i figliuoli d’Acaia,
surse fra loro Achille dai piedi veloci a parlare:
«Si, per entrambi, Atride, fu quello il partito migliore,
per me, per te, quel dì, che, crucciati, che ligi a Contesa
che strugge l’alme, a lite venimmo per una fanciulla!
Deh!, su le navi con una saetta colpita l’avesse
Artemide quel di, ch’io la presi e distrussi Lirnesso:
ché tanti e tanti Achèi non avrebbero morsa la terra
sotto i nemici colpi, mentre io lungi stavo nell’ira.
Per Ettore, pei Teucri, vantaggio fu, si; ma gli Achivi
lunga dell’ira nostra memoria serbare dovranno.
Ma quello ch’è trascorso, si oblii, se pur cruccio se n’abbia;
e la necessità, gli spiriti domi nei petti.
Ecco, dall’irà mia desisto, giacché non conviene
che senza tregua io sia corrucciato. E tu, senza più indugio,
alla battaglia sospingi gli Achei dalle floride chiome,
si ch’io, contro i Troiani movendo, far possa la prova
se mai presso le navi volessero fare il bivacco.
Ma più d’uno, credo io, vorrà rimanere in riposo,
se dalla lancia mia scamperà nella pugna crudele».
Cosí disse. E fùr lieti gli Achei dalle belle gambiere,
che avesse infine l’ira deposta il magnanimo Achille.
Ed Agamènnone, sire di popoli, surse a parlare,
di là dov’ei sedeva, ché in mezzo al convegno non venne.
«Dànai, guerrieri miei valorosi, scudieri di Marte,
conviene, quando un uomo si leva a parlare, ascoltarlo,
non interromperlo; o ch’egli, per quanto sia sperto, s’impaccia.
Dov’è di molta gente frastuono, ascoltare, parlare,
come si può? Per forte che s’abbia la voce, si perde.
Ora, io vo’ col Pelide spiegarmi; ma tutti gli Argivi
modano anch’essi, quello ch’io dico, ciascuno lo intenda.
Già molte volte gli Achei m’han fatto lo stesso discorso,
m’hanno lanciato rampogne; ma io non ho colpa di nulla.
Giove ha la colpa, la Parca, l’Erinni che muove nel buio,
che dentro il cuore mio gittarono cieco furore
nell’assemblea, quel giorno ch’io tolsi ad Achille il suo dono.
Ma io, che far potevo? Ché a tutto pone esito un Nume,
Ate, la figlia maggiore di Giove, che tutti fa ciechi,
la maledetta! I suoi piedi son morbidi; e non su la terra
essa cammina, bensí per le menti degli uomini avanza;
essa danneggia le genti: ché uno irretisce su due;
essa, persino il figlio di Crono accecò, che il più saggio
è fra i Celesti, si dice, fra gli uomini tutti. Ed anch’esso,
pure, ingannato fu, d’una donna ai raggiri fu preda,
d’Era, quel dì che Alcmena dovea dar la luce alla forza
d’Ercole, fra le mura di Tebe ch’à serto di torri.
Egli, con questo vanto parlava fra tutti i Celesti:
— Datemi tutti ascolto, voi Numi, voi Dive d’Olimpo:
ch’io voglio dirvi quello che il cuore mi dice nel petto.
Oggi, alla luce Ilizia datrice di doglie, un mortale
darà, che re sarà dei popoli tutti vicini,
nato da quella stirpe d’umani che vien dal mio sangue —.
Ed Era veneranda, maestra d’inganni, rispose:
— Esito non avrà ciò che dici, sarai menzognero.
Giurami invece, o sire d’Olimpo, con giuro solenne,
che re diventerà dei popoli tutti vicini
colui ch’oggi nascendo, fra i piedi cadrà d’una donna
nata da quella stirpe d’umani che vien dal tuo sangue —.
Cosí diceva. E Giove comprender non seppe l’inganno,
ch’era acciecato; e ad Era prestò giuramento solenne.
Ed Era, con un balzo lasciate le vette d’Olimpo,
rapidamente ad Argo d’Acaia pervenne: sapeva
ch’era di Stenèlo, figlio di Pèrseo, quivi la sposa,
che un figlio in grembo, già nel settimo mese, recava.
Era lo trasse a luce, sebbene il suo mese non fosse,
e freno pose al parto d’Alcmena, e trattenne le Ilizie.
Ed il messaggio ella stessa recando al Cronide, gli disse:
— Una notizia, o Giove, ti reco, e tu scrivila in cuore:
è nato chi sarà signor degli Argivi: Euristèo,
di Stènelo, figliuolo di Pèrseo, nipote: è tuo sangue:
ben degno egli è però, che regni su tutti gli Argivi. —
Acuto cruccio Giove colpiva nel fondo del cuore.
Sùbito Ate afferrò per la testa dai riccioli molli,
e, tutto pien di sdegno, prestò giuramento solenne
che su l’Olimpo mai più, mai più fra le stelle del cielo
Ate sarebbe tornata, che accieca di tutti le menti.
E, pur giurando, rotò la mano, e dal cielo stellato
via la scagliò: ben presto degli uomini ai campi fu giunta.
E a lei sempre imprecava, qualora il suo figlio vedesse
sotto le indegne fatiche patire, mercè d’Euristèo.
Ed io del pari, quando di Priamo il figlio possente
strage facea d’Argivi, vicino alle navi d’Acaia,
non mi potevo d’Ate scordar, che m’aveva acciecato.
Ora, poiché m’accecai, poiché Giove di senno mi tolse,
voglio con te far la pace, vo’ darti infinito riscatto.
Su via, muovi alla zuffa, sospingi alla zuffa anche gli altri;
e tutti i doni a te recare farò, quanti Ulisse
nella tua tenda ieri venuto, a promettere t’ebbe.
E, se tu vuoi, qui aspetta, per quanto la pugna tu brami;
e gli scudieri miei, dalla tenda prendendo i miei doni,
li recheranno, ché veda se quello ti dò che tu brami».
E Achille pie’veloce rispose con queste parole:
«D’Atrèo celebre figlio, Agamènnone sire di genti,
i doni, se tu vuoi, di’ pur che li portino; oppure
tienili presso di te. Per ora, si pensi alla guerra,
prima che sia: ché qui non bisogna restare a trastullo,
perdere tempo: è grave l’impresa che compier si deve.
E chi di voi vedrà fra i primi combattere Achille
con la sua lancia di bronzo, struggendo le teucre falangi,
porre non deve in oblio la lotta con chi gli si affronti».
Ulisse consiglia ad Achille di non mandare gli Achei a combattere digiuni, ma di indire un banchetto. Poi invita Agamennone a preparare i doni promessi ad Achille. Achille non pensa al banchetto, ma alla guerra, perché arde di desiderio di vendetta. Ulisse insiste, perché sostentarsi è necessario alla guerra.

E questo Ulisse a lui, l’eroe sagacissimo, disse:
«Achille, ai Numi pari, per quanto tu sii valoroso,
contro Ilio non mandare digiuni i guerrieri d’Acaia,
contro i Troiani a pugnare; perché breve tempo la zuffa
non durerà, poiché si saranno incontrate le schiere,
e un Nume in queste e in quelle infonda furore di guerra.
Ordine prima dà che presso alle navi gli Achei
cibino pane e vino, ché quivi è la forza e il valore;
perché, per tutto un di’, sino all’ora che il sole s’immerge,
un uom che sia digiuno non può tener fronte al nemico:
perché, se pure il cuore lo spinge alla zuffa, pesanti
si fanno a mano a mano le membra, la fame e la sete
lo coglie, le ginocchia gli mancano, mentre cammina.
Ma l’uomo invece che ben sazio di cibo e di vino,
da mane a sera può combattere contro i nemici,
è pien d’ardore il cuore nel seno, né stanche le membra
sono, finché non sia cessata del tutto la pugna.
Su via, le genti adesso congeda, ed il pranzo comanda
che si prepari. E i doni, l’Atride signore di genti
in mezzo al campo faccia recare, ché tutti gli Achivi
veggan con gli occhi loro, ché lieto il tuo cuore ne resti.
E poi, sorgendo in pie’fra gli Achivi, ti presti il suo giuro
ch’egli nel letto di lei non è mai salito o giaciuto
com’è dritto, o signore, degli uomini tutti e le donne;
e allora, anche il tuo cuore placarsi dovrà nel tuo seno.
Nella sua tenda poi t’accolga con lauto banchetto,
ché nulla manchi a te di quello che pur t’è dovuto.
Atride, e d’ora innanzi, più equo tu esser dovrai
con gli altri; poi ch’è giusto che un re paghi anch’esso l’ammenda
ad un altr’uomo, quando l’ingiuria per primo gli reca».
E a lui cosí rispose l’Atride, signore di genti:
«Le tue parole udire m’allieta, figliuol di Laerte,
ché tutto è giusto quello che tu ragionasti, esponesti.
Ed io vo’ questo giuro prestare, il cuor mio me lo impone,
né io dinanzi al Nume spergiuro sarò. Ma qui, certo,
sebbene tanta sia la sua brama di guerra, il Pelide,
ed anche tutti voi sostate, sinché dalla tenda
giunti non siano i doni, si prestino i giuri solenni.
Ed a te stesso io questo, figliuol di Laerte, propongo:
scegli dei giovani quelli che son fra gli Achivi i migliori,
che dalla nave mia qui rechino i doni che ieri
noi promettemmo ad Achille, qui rechino pure le donne.
E presto a me Taltibio prepari un cinghiale, nel vasto
campo d’Acaia, ch’io voglio che a Giove s’immoli ed al Sole».
E Achille pie’ veloce rispose con queste parole:
«D’Atrèo celebre figlio, Agamènnone sire di genti,
in altro tempo, meglio potreste di ciò darvi cura,
allor che della zuffa ci sia qualche tregua, e nel seno
a me non arda più questo fiero furore. Ma ora,
giacciono straziati gli amici che caddero ai colpi
d’Ettore, quando a lui concedeva la gloria il Cronide;
e voi volete al pasto mandare le genti? Oh!, comando
bene io darei che a zuffa movessero i figli d’Acaia
digiuni ed affamati, che solo al tramonto il banchetto
s’apparecchiasse, quando lavato si fosse lo scorno.
Per la mia gola, prima d’allora passar non potrebbe
né cibo, né bevanda, sinché giace spento il compagno
nella mia tenda, giace coi piedi rivolti alla porta,
tutto sconciato dal bronzo, gli piangono intorno i compagni.
Quindi, a nulla di ciò rivolgere io posso il pensiero,
ma solo a stragi, a sangue, a gemiti d’uomini fieri».
E a lui cosí l’eroe sagacissimo Ulisse, rispose:
«Pelide Achille, o il più possente fra tutti gli Achivi,
più valoroso tu sei di me, sei più forte, e non poco
nell’armi: io nel consiglio, però, di non poco t’avanzo,
perché prima di te son nato, ed ho visto più cose.
Alle parole mie sia docile dunque il tuo cuore.
Gli uomini, molto presto van sazi di quella battaglia
in cui la spada a terra cadere fa copia di paglia,
ed è la messe invece scarsissima, quando il Cronide
ch’è dispensier negli scontri di guerra, gli eventi bilancia.
Possibile non è che gli Achei faccian lutto col ventre,
perché troppi son quelli che cadono giorno per giorno
l’uno su l’altro: quando s’avrebbe respiro alla pena?
Quando un dei nostri cade, conviene con animo forte
dargli sepolcro, e pianto versare per solo quel giorno;
e quanti poi scampare possiamo alla guerra odiosa,
alle bevande e al cibo pensare dobbiam, sì che, saldi
sempre di più, senza tregua si possa affrontare il nemico,
cinti d’indòmito bronzo le membra, né alcuno più indugi,
novello incitamento che a pugna lo sproni attendendo.
L’incitamento questo sarà: — Sciagurato colui
che resterà presso i legni d’Acaia! Scagliamoci stretti,
e contro i Teucri di nuovo sia desta la furia nemica —».
Ulisse e i compagni preparano un sacrificio. Agamennone giura che non ha mai toccato Briseide. Vengono portati i doni presso la tenda di Achille. Qui Briseide vede Patroclo morto, e lo piange.

Disse. E compagni prese di Nèstore illustre i figliuoli,
con Merióne, Toante, Megète, figliuol di Filèo,
e Melanippo, e il prò’ di Creonte figliuol Licomede.
Mossero tutti alla tenda del sire Agamènnone; e quivi
con le parole insieme, compiuti seguirono i fatti.
Fuor dalla tenda, sette recarono tripodi, quelli
che avea promessi, e venti lucenti lebeti, e corsieri
dodici, e sette donne maestre d’ogni opera bella:
ottava era la figlia di Brise, dal volto vezzoso.
Dieci talenti d’oro pesò quindi Ulisse; ed a capo
si pose del corteo, seguir gli altri giovani Achivi.
in mezzo all’assemblea deposero i doni; ed in piedi
surse l’Atride; e Taltibio, che aveva la voce d’un Nume,
un apro fra le braccia stringendo, lo porse al sovrano.
E allora, strinse il figlio d’Atrèo, fuori trasse la daga,
che della spada presso la grande guaina pendeva,
le setole dell’apro recise, ed a Giove levate
le mani, lo pregò. Ciascuno al suo posto, gli Argivi
stàvano muti, com’era dovere, ascoltando il sovrano.
Ed ei pregò, le luci volgendo alla volta celeste:
«Giove per primo sappia, ch’è il sommo e il migliore fra i Numi,
sappian la Terra, il Sole, l’Erinni, che sotto la terra
traggon vendetta di quanti fra gli uomini mancano ai giuri,
che io non posi mai la man su la figlia di Brise,
né per volerla d’amore, né mai per veruna ragione,
ma nelle tende mie nessuno mai l’ebbe a toccare.
Se in nulla fui spergiuro, m’infliggano i Numi tormenti
molti, quanti essi serbare ne soglion, se alcuno spergiura».
Disse, e lo stomaco svelse dell’apro col ferro spietato.
E lo scagliò Taltibio, giratolo a cerchio, nel gorgo
grande del mare bianco di spume. Ed in piedi sorgendo,
queste parole Achille parlò fra gli Achivi guerrieri:
«0 Giove padre, grandi sciagure tu infliggi ai mortali:
se no, mai non m’avrebbe l’Atride tale ira eccitata
e cosí lunga in seno, né contro mia voglia ed a forza
ei la fanciulla m’avrebbe rapita. Ma volle il Cronide,
che sopra molti Achei piombasse il destino di morte.
Ma ora a pranzo andate, ché ancor poi divampi la zuffa».
Cosí diceva; e senza più indugio, disciolse il convegno.
Si sparpagliarono quelli, tornando ciascuno alla nave:
e allora, gli animosi Mirmidoni presero i doni,
e li recarono verso la nave d’Achille divino,
li collocar nella tenda, disposero ai seggi le donne,
e gli scudieri ammirandi recar nella mandra i corsieri.
E allor, Brisèide, bella non meno dell’aurea Afrodite,
come Patroclo vide trafitto dal ferro affilato,
abbandonata su lui, levò lagni acuti, ed il petto
si lacerò con l’unghie, le guance ed il morbido collo,
e, lagrimando, disse, la donna che Diva sembrava:
«Pàtroclo, ch’eri a me tapina carissimo amico,
io vivo ti lasciai, quel di che partii dalla tenda,
e ti ritrovo morto, signore di popoli, adesso
ch’io vi ritorno! Sempre per me segue un male ad un male.
L’uomo a cui data m’avevano il padre e la nobile madre,
dinanzi alla città lo vidi trafitto di spada:
i tre fratelli a me diletti, che tutti una madre
diede alla luce, tutti pervennero al giorno fatale.
Ma tu neppur volevi, quel giorno che Achille m’uccise
lo sposo, ed espugnò la città di Minète divina,
ch’io lagrimassi: m’andavi dicendo che Achille divino
seco m’avrebbe a Ftia condotta, legittima sposa,
sui legni, e nella patria con me celebrate le nozze.
Per questo io senza tregua ti piango, ché tanto eri mite».
Cosí dicea pregando, gemevano pur l’altre donne.
Pàtroclo n’era il pretesto; ma ognuna sfogava il suo duolo.
Mentre gli altri banchettano, Achille non può toccare cibo per il dolore. Giove, impietosito, manda Atena a infondergli forza.
Quindi i vegliardi Achivi si strinsero intorno ad Achille,
e lo pregaron che cibo prendesse. Ma quei rifiutava,
sempre gemendo: «Vi prego, se pure qualcun degli amici
vuol compiacermi, a me non parlate di cibo e di vino,
ch’io me ne debba saziare, ché troppo è il dolor che mi cruccia:
resistere digiuno saprò sin che il sole tramonti».
Cosí dicendo, diede commiato il Pelide ai sovrani.
Ma seco i due figliuoli d’Atrèo rimanevano, e Ulisse,
Nèstore, Idomenèo vegliardo, e l’equestre Fenice.
E confortar l’afflitto tentavano a prova; ma quello
nessun conforto avere poteva, se pria non poteva
entro le fauci sanguigne gittarsi alla guerra funesta.
E, ripensando l’amico, traeva sospiri, e diceva:
«Oh, quante volte, infelice, diletto fra tutti gli amici,
tu nella tenda a me preparavi soave la mensa,
svelto, con ogni cura, qualora gli Achivi guerrieri
contro i Troiani, in fretta recavan la furia di guerra.
Ed ora, giaci lì trafitto, né io voglio cibo,
né vino, che pur tanto ce n’è nella tenda, per brama
di te, ché nessun male peggior poteva toccarmi,
neppur se avessi udita la nuova che morto è mio padre,
che adesso vive in Ftia, che lagrime versa, per brama
di questo figlio, ch’ora lontano, fra estranee genti,
per Elena odiosa, coi Teucri sta combattendo,
oppur che morto è il figlio mio caro che a Sciro mi vive,
se pur vivo ancora è Neottòlemo simile ai Numi.
Prima, nel petto mio speranza nutriva il mio cuore
ch’io solo in Troia qui caduto sarei, lungi d’Argo
nutrice di cavalli, che in Ftia tu dovessi tornare,
che su la nave negra veloce dovessi il mio figlio
teco da Sciro addurre, per tutti mostrargli i miei beni,
tutti i miei servi, e il mio palazzo dall’alto fastigio:
perché morto è Pelèo di già, me lo dice il mio cuore,
oppur di vita poco gli resta, ché troppo l’opprime
la tormentosa vecchiaia, l’attendere sempre novelle
di me, che luttuose saranno, e saprà ch’io son morto».
Cosí disse piangendo, piangevano tutti i signori,
alla sua casa ognuno pensando, ai suoi beni lasciati.
N’ebbe il figliuolo di Crono, pietà, come pianger li vide,
e tosto volse tali veloci parole ad Atena:
«Figlia, tu dunque affatto l’eroe che pure ami, abbandoni?
Achille, dunque, più non ti viene per nulla al pensiero?
Egli piangendo sta dinanzi alle navi bicorni,
piange il diletto compagno caduto. Son gli altri guerrieri
andati al pasto: ei solo rimane affamato e digiuno:
muòviti dunque, a lui fatti presso, ed infondigli in petto
nèttare e dolce ambrosia, perché non lo abbatta la fame».
Atena, già bramosa, con queste parole sospinse.
Pari ad un falco di penna veloce, di stridula voce,
giù dal cielo balzò nell’ètere. Intanto, gli Achivi
s’armarono via via pel campo. E la Diva, ad Achille
nèttare dentro il seno stillava, e dolcissima ambrosia,
ché non dovesse molesta la fame fiaccargli i ginocchi.
Poscia, la Dea tornò del padre alla solida casa,
e si dispersero quelli lontan dalle rapide navi.
Achille veste le armi e sale sul carro; uno dei cavalli, Baio, gli annuncia la morte vicina, per volere dei Numi.

Come allorquando i fiocchi di gelida neve, dal cielo
svolano fitti, all’urto di Bora che nasce dall’ètra,
fitti cosí gli elmetti brillavano allora e corruschi,
gli scudi umbelicati che uscian dalla cerchia dei legni,
gli usberghi a salde squame, le lancie di frassino: al cielo
saliva il luccichio, tutto intorno rideva la terra
per il barbaglio del bronzo, frastuono sorgeva dai piedi
dei guerrieri. E in mezzo, s’armava il divino Pelide.
Uno stridore i suoi denti mandavan, brillavano gli occhi,
come sfavilla vampa di fuoco, nel seno gli ardeva
insopportabile cruccio. Spirando furor contro i Teucri,
l’armi indossava del Nume, che Efesto gli aveva costrutte.
Prima, riparo alle gambe, si pose i lucenti schinieri,
che alle caviglie intorno stringevano fibbie d’argento;
poscia, d’intorno al petto girò la corazza; la spada
gittò sopra le spalle, di bronzo, coi chiovi d’argento;
e poi, lo scudo prese, che molto grande era e massiccio,
ed un fulgore lontano raggiava, e pareva di luna.
Come talvolta appare, lontano sul mare, ai nocchieri,
d’un fuoco ardente il raggio, che brucia alla cima d’un monte,
entro solinga stalla; ma quelli, sul mare pescoso,
loro malgrado, il turbo lontano dai cari trascina:
tale per l’ètra un fulgore mandava lo scudo d’Achille
istoriato bello. Levò poi la salda celata,
e se la cinse al capo: fulgea che pareva una stella,
l’elmo crinito, tutto d’intorno ondeggiavan le chiome
d’oro, che aveva Efèsto confitte d’intorno al cimiero.
Poi, fece prova di sé nell’armi, il divino Pelide,
se tutte eran adatte, se ben vi moveva le membra:
e queste erano ferme, reggevano a volo il signore.
E dall’astiera allora prese anche la lancia del padre,
ch’era pesante e massiccia, né altri potea degli Achivi
vibrarla: il figlio solo di Pèleo vibrare poteva
quel frassino del Pelio cui diede a suo padre Chirone,
scelta di cima al Pelio, perché fosse morte d’eroi.
Àlcimo ed Automedonte badavano intanto ai cavalli.
Postili sotto il giogo, legarono ad essi le barde,
posero i freni alle bocche, le redini tesero indietro
verso la solida conca: nel pugno la lucida sferza
Automedonte strinse, ben chiusa, e balzò sopra il carro.
E Achille dietro a lui balzò, che, recinto dell’armi,
fulgeva come il sole che valica il sommo del cielo.
E con un orrido grido si volse ai cavalli del padre:
«Baio, Liardo, e voi, di Pie’ ratto famosi figliuoli,
a trarre meglio in salvo l’auriga pensate, quando egli
fra i Danai tornerà, poi che sazi saremo di guerra:
non lo lasciate, al pari di Pàtroclo, morto sul campo».
E Baio a lui rispose, corsiere veloce, dal giogo,
sùbito giù chinando la testa; e di sotto il collare
tutta la chioma s’effuse dal giogo, sfiorando la terra:
ch’ Era gli die’favella, la Diva dall’omero bianco:
«Certo, anche adesso te salveremo, divino Pelide;
ma t’è vicino il giorno che devi morire; e la colpa
noi non abbiamo, ma un Dio ben grande, e la Parca possente.
Non per la nostra lentezza, non già perché fossimo pigri
tolsero l’armi dal corpo di Pàtroclo i Teucri guerrieri:
un Nume fu, fra tutti possente, il figliuol di Latona,
quei che l’uccise in campo, che ad Ettore diede la gloria.
Correre noi potremo coi soffi di Zefiro a pari,
che più leggero è di tutti, si dice; ma pure è destino
che tu cada trafitto, per opra d’un uomo e d’un Nume».
Come ebbe detto ciò, l’Erinni gli tolse la voce.
E a lui rispose Achille veloce, col cruccio nel cuore:
0 Baio, perché m’annunci la morte? Non tu lo dovresti.
Bene lo so da me, ch’ è destino ch’io qui cada spento,
lungi dal padre mio, dalla madre; ma pur, dalla guerra
non resterò, se prima non n’abbia satolli i Troiani».
Disse; e fra i primi spinse, levando un grande urlo, i corsieri.
Mentre Achei e Troiani vestono le armi, Giove raduna un’assemblea e annuncia la fine prossima dei Troiani; dà il permesso agli dèi di scendere in battaglia a fianco dei loro preferiti.
L’armi vestian cosí vicino alle navi ricurve
d’intorno a te, Pelide, gli Achèi non mai sazi di pugne:
dall’altra parte, sul clivo, si armavano anch’essi i Troiani.
Ed ordine a Temiste die’ Giove, dai picchi d’Olimpo,
ch’ella a convegno i Celesti chiamasse. Correndo per tutto,
ella ordinò che di Giove venissero tutti alla reggia.
Né vi mancò dei Fiumi nessuno, l’Ocèano tranne,
né delle Ninfe, ch’anno soggiorno tra i floridi boschi,
nelle sorgive linfe dei fiumi, nei pascoli erbosi.
Dunque, venuti alla reggia di Giove che i pascoli aduna,
nei portici lucenti sedeano, che al figlio di Crono
costrutti aveva Efesto, l’artefice insigne ambidestro.
Stavan cosí nella reggia di Giove. Né sordo all’invito
stato era il Dio che scuote la terra. Balzato dal mare
era con gli altri; e chiese per primo il volere di Giove:
«Perché chiami a convegno, signore del folgore, i Numi?
Forse alcunché disegni che tocchi i Troiani e gli Achivi?
Perché proprio ora avvampa fra loro la zuffa e la pugna».
E il Nume a lui rispose cosi, che le nuvole aduna:
«Bene, o Posidone, in cuore m’hai letto perché v’ho raccolti:
presso alla fine sono, sebbene a me cari, i Troiani.
Ma ora voglio io qui rimanere nei gioghi d’Olimpo,
seduto, ch’io li vegga, che in cuore m’allegri; e voi tutti
movete pure, al piano scendete, fra Teucri ed Achivi,
e questi o quelli, ognuno di voi, come vuole, soccorra.
Poiché, se Achille solo combatter dovrà coi Troiani,
neppur per un istante resister potranno al Pelide.
Già per l’innanzi, al solo vederlo, tremavano tutti:
ora che tanto cruccio gli morde per Pàtroclo il cuore,
temo che, pur contro il Fato, non debba espugnare la rocca»
Disse il Cronide; e implacata la zuffa avvampò pei suoi detti.
Mossero a pugna i Numi che avevano brame diverse.
Era alle navi mosse d’Acaia, con Pàllade Atena,
seco Posidone mosse, che scuote la terra, ed Ermète,
nume benigno, insigne per grande scaltrezza di mente.
Ed anche c’era Efèsto con essi, che forza spirava,
che zoppicava, e, via via, strascicava le gracili gambe.
Marte ai Troiani mosse, scotendo il grande elmo, e con lui
Febo dal crine intonso, Artèmide amica dei dardi,
e Leto e Xanto; e v’era l’amica del riso Afrodite.
Finché, dunque, in disparte rimaser dagli uomini i Numi,
rise la gloria agli Achivi, ché era fra loro comparso
il figlio di Pelèo, che da tanto mancava alla zuffa;
e gran tremore invase le membra a ciascun dei Troiani,
per il terrore, come scopriron, lucente nell’armi,
Achille pie’veloce, che Marte sembrava a vederlo.
Ma poi che fra le schiere mortali comparvero i Numi,
surse Contesa possente, che incita le turbe; ed Atena
grida levava, or fuori del muro, lunghessa la fossa,
or su la spiaggia stando sonora: grandi urli levava
Ares dall’altra parte: gridava; e sembrava procella
fosca, lanciava acuti comandi ai Troiani, dal sómmo
or della rocca, poi da Belpoggio, lunghesso il Simèta.
Cosí gli Iddíi beati spingevano entrambe le parti,
fiera avvampare fra loro, crudele facevan la zuffa.
Ed un terribile tuono degli uomini il padre e dei Numi
scagliò dal cielo; e tutta la terra infinita, di sotto
scosse del mare il Nume: le vette sublimi dei monti,
tutte dell’Ida irriguo di fonti si scosser le balze,
tutte le cime, e la rocca dei Teucri, e le navi d’Acaia.
Teme’ sino Edonèo sotterra, il signor degli estinti;
e sovra il trono urlando balzò, pel terror che sul capo
frangere a lui dovesse la terra il Signore del ponto,
e la sua casa ai mortali dovesse apparire e agli Olimpi,
orrida, squallida tutta, che n’hanno ribrezzo anche i Numi:
tanto il frastuono fu, quando i Numi s’urtarono a zuffa.
Contro a Posidone, dunque, al Nume che scuote la terra,
Apollo Febo stette, stringendo le frecce piumate:
contro ad Eurialo Atena la Diva occhiglauca stette,
e contro ad Era stette la Diva dall’auree frecce,
vaga di grida e di strali, Artemide, suora d’Apollo.
Ermète stette contro Latona, il benefico Iddio,
e stette contro Efèsto il fiume dai gorghi profondi,
che Xanto fra i celesti, fra gli uomini ha nome Scamandro.
Apollo, sotto le sembianze di Licaone, esorta Enea a scontrarsi con Achille. Era si accorge che Enea lo vuole affrontare, e avvisa gli altri dèi. Poseidone decide che è meglio che gli dèi non intervengano, e si siede sulle mura.
Stavan cosí Numi a Numi di fronte. Ed Achille Pelide
Ettore più che ogni altro voleva incontrar nella zuffa:
ché gli diceva il cuore che prima col sangue di quello
Are saziar dovesse, che mai non è sazio di strage.
Ma Febo che le turbe sospinge alla zuffa, per primo
Enea contro il Pelide mandò, ché coraggio gl’infuse.
Di Licaóne assunse, del figlio di Priamo la voce:
simile a questo, Apollo, figliuolo di Giove, gli disse:
«Enea, tu’che i Troiani consigli, ove son le minacce
che tu, fra i Teucri re, nei conviti, bevendo, lanciavi,
che a fronte a fronte avresti saputo pugnar con Achille?».
Ed Enea queste parole gli volse, cosí gli rispose:
«Figlio di Priamo, perché tu, contro mia voglia, mi spingi
che il figlio di Pelèo terribile affronti in battaglia?
Non è la prima volta che contro ad Achille veloce
mi trovo! Un’altra volta fuggire ei mi fe’ con la lancia,
dall’Ida, il giorno ch’egli piombò su le nostre giovenche,
e Pèdaso espugnò, Lirnesso. Ma Giove mi fece
salvo: ché forza allora m’infuse e prontezza di gambe:
se no, morto sarei sotto i colpi d’Achille e d’Atena,
che, innanzi a lui movendo, gli dava la luce di gloria,
ch’ei con la lancia sterminio di Lelegi e Teucri facesse.
Perciò niun uomo v’è che possa affrontare il Pelide,
ché sempre un Nume presso gli sta, gli fa schermo da morte;
e poi, sempre il suo colpo va dritto, che mai non s’arresta,
se pria l’umana carne non pènetra. Pure, se un Dio
vuol bilanciare la sorte di guerra, un’agevol vittoria
ei non avrà, se pure si vanta che tutto di bronzo».
E Apollo disse a lui, di Giove il figliuolo possente:
«Eroe, tu pure volgi ai Numi che vivono eterni,
la tua preghiera. Figlio te dicon che sei d’Afrodite,
figlia di Giove: Achille figlio è d’una Diva da meno:
figlia di Giove è quella, quest’altra del Vecchio del mare.
Su via, spingi diritta la lancia infrangibile, e punto
non sbigottire, perché ti lanci minacce ed imprechi».
Cosí disse, e coraggio spirò nel pastore di genti,
che via mosse tra i primi, coperto del lucido bronzo.
E ad Era non sfuggì, la Diva dall’omero bianco,
Enea, mentre fra l’urlo di guerra movea contro Achille;
e gli altri Dei raccolse, cosí prese a dire la Diva:
«Volgete ora a noi due la mente, Posidone e Atena,
a quello ch’ora avviene. Quale esito avran questi eventi?
Vedete Enea, che muove coperto del lucido bronzo,
contro ad Achille Pelide, ché Apolline Febo lo spinge.
Su via, dunque, noialtri pensiamo a respingerlo indietro;
oppure alcun di voi si faccia vicino ad Achille,
e infonda in lui vigore possente, né nulla gli manchi
di ciò ch’ei brama, e veda che sono i più forti fra i Numi
quelli che l’amano, e invece che valgono un fiato di vento
quelli che in pugne ed in zuffe difeso han finora i Troiani.
Oggi, d’Olimpo siamo discesi, partecipi tutti
della battaglia, perché non incolga sciagura al Pelide:
un’altra volta, poi, patirà quella sorte che a lui
filò la Parca quando sua madre lo diede alla luce.
Ma se il Pelide ciò non udrà dalla voce d’un Nume,
sgomenterà, quando un Nume, vedrà che gli muove di contro
nella battaglia: tremendi, se appaion palesi, i Celesti!».
E a lei rispose il Nume che cinge che scuote la terra:
«Era, non sia che senza ragione ti sdegni: ch’è male.
Davvero, io non vorrei sospingere i Numi alla zuffa.
Su via, noialtri andiamo, sediamo lontan dalla calca,
sopra un’altura; e la pugna si lasci ai guerrieri mortali.
Ché se la zuffa attacca poi Marte, od Apolline Febo,
o se trattengono Achille, né lascian ch’ei possa pugnare,
sùbito impegneremo noi pure il contrasto di guerra
contro di loro; e ben presto, mi credo, lontano da noi
ritorneranno in Olimpo, fra i Numi che li sono accolti,
quando le nostre mani domati li avranno per forza».
Com’ebbe detto ciò, l’Iddio dalle cenile chiome
d’Ercole al muro eccelso guidò gl’Immortali. Costrutto
avevano i Troiani quell’argine, e Pàllade Atena,
perché fosse ad Alcide riparo, se l’orrido mostro
su lui dal lido al piano piombasse, e dovesse fuggire.
Dunque, sedettero qui Posidone a gli altri Celesti,
d’impenetrabile nube velando le loro sembianze.
E d’altra parte, gli altri sul ciglio sedean di Belpoggio
a te d’intorno, arciere di Dolo, ed a Marte omicida
Cosi, dunque, in disparte, assorti nei loro pensieri
sedeano i Numi; e dare principio alla guerra funesta,
pure indugiavano: Giove, dall’alto eccitava alla pugna.
Enea muove contro Achille, che però non vuole ucciderlo e lo invita a ritirarsi. Enea insiste. Enea colpisce Achille ma lo scudo lo protegge. La lancia di Achille manca Enea. Allora Achille prende la spada, ed Enea un grosso macigno.
Ed ecco, la pianura fu piena, e fulgeva di bronzo,
d’uomini e di cavalli. Rombava ai lor passi la terra,
mentre moveano a schiera. Due uomini primi fra tutti
fra le due schiere incontro si venner, bramosi di pugna:
Enea, figlio d’Anchise, Achille progenie di Numi.
Enea s’avventò primo, lanciando minacce, crollando
l’alto cimiero dell’elmo: lo scudo gagliardo teneva
dinanzi al petto, e andava scotendo la lancia di bronzo.
E gli si fece Achille di contro; e pareva un leone
sterminatore, quando le genti di tutto un paese
gli dàn la caccia, e morto lo vogliono: ei prima procede
senza contarli; ma come qualcuno dei giovani prodi
l’ebbe colpito, in sé si raccoglie, le fauci spalanca,
schiuma fra i denti, il cuore gli freme nel valido petto,
e con la coda di qua di là fianchi e lombi si sferza.
sé stesso alla battaglia spronando, fiammeggiano gli occhi,
e di furore ardente si lancia diritto, se alcuno
dei cacciatori uccida, se cada al primo urto egli stesso.
Cosí spingeano Achille la furia, l’intrepido spirto,
ad incontrare Enèa, magnanimo figlio d’Anchise.
E quando, l’un su l’altro movendo, già erano presso,
Achille pie’ veloce divino, parlava per primo:
«Enea, perché ti sei tanto spinto dinanzi a la folla,
verso di me? Con me t’esorta a pugnare il tuo cuore,
con la speranza forse d’aver dei Troiani l’impero,
che Priamo a te lo ceda? Ma no, se pur tu m’uccidessi,
Priamo non per questo vorrebbe a te cedere il regno,
perché gli restan figli, né invalido è ancora, né stolto.
0 t’han promesso un podere, di tutti il più bello, i Troiani,
ricco di viti, ricco di messi, ché tu lo coltivi,
se tu m’uccidi? Per te difficile, credo è l’impresa.
Un’altra volta già fugar ti potei con la lancia:
non ti ricordi quando soletto ti colsi, e fuggire
ti feci a tutte gambe sui gioghi dell’Ida, a gran furia,
lungi dai bovi? Allora, neppure pensasti a voltarti!
Sfuggitomi di li, giungesti a Lirnesso; ma io
presi d’assalto la rocca, mercè del Cronide e d’Atena,
privai di libertà le donne, mie schiave le addussi.
Te volle salvo allora, con gli altri Celesti, il Cronide;
ma non vorranno adesso, mi credo, salvarti, sebbene
lo speri tu. Per questo t’esorto che tu ti ritragga,
che fra la turba tomi, né a fronte mi stia, ché non debba
seguire il peggio! A fatto compiuto, lo stolto è saputo».
E a lui rispose il figlio d’Anchise con queste parole:
«Non figurarti, Achille, che tu sgomentare mi possa
con le parole, come se fossi un bambino: so bene
anch’io dire parole d’oltraggio, che mordano il cuore.
Sappiam l’uno dell’altro la stirpe, sappiamo i parenti:
da ciò che va narrando la gente l’abbiamo saputo;
poiché con gli occhi nostri, né tu l’hai veduto, né io.
Dicon che tu di Pelèo, l’eroe senza macchia, sei figlio,
ed è tua madre Tèti marina dai riccioli belli;
ed io figliuolo sono d’Anchise magnanimo cuore:
tale mi vanto; ed è mia madre la bella Afrodite.
0 questi, o quelli, pianto dovranno levare pel figlio,
oggi; perché non credo che noi separarci dobbiamo
con queste vane ciance, lasciare incompiuta la pugna.
Ma pur, se questo vuoi sapere, conoscere bene
qual’è la stirpe mia, molti uomini possono dirla.
Dàrdano primo fu, generato da Giove Cronide,
e Dardanía fondò, ché ancora nel piano costrutta
Ilio la sacra non era, città di facondi mortali,
ma su le balze irrigue dell’Ida abitavano ancora.
Dàrdano un figlio poi generava, Erittonio sovrano,
ch’ebbe dovizie quante niun altri ebbe mai fra i mortali:
pasceano a lui tremila cavalle su l’umido piano,
femmine tutte, tutte superbe di molti puledri.
Borea ne invaghì, mentre esse pasceano; e con loro
s’uni, che forma assunse d’azzurricrinito corsiere,
e sei puledre e sei concepirono e diedero a vita.
Quando scherzavano queste sui campi feraci di spelta,
sopra le cime e le spighe correvano, senza spezzarle:
quando scherzavano poi sul dorso infinito del mare,
a corsa ivano sopra la candida cresta dei flutti.
Diede Erittonio a Troe la vita, dei Teucri al signore:
da Troe nacquero poscia tre figli non tocchi da menda,
Ilio ed Assàraco, e, pari d’Olimpo agli Dei, Ganimede,
ch’era il più bello fra quanti sono uomini sopra la terra.
Questo rapirono i Numi, che fosse coppiere di Giove,
per la bellezza sua, che avesse dimora fra i Numi.
Ilio ad un figlio poscia die’ vita, non tocco da menda,
Laomedonte; e questi die’ vita a Priamo, a Titone,
a Clizio, a Ischetaóne, rampollo di Marte, a Lampone,
ad Assàraco, a Capi, che diede la vita ad Anchise:
e Anchise fu mio padre, fu Priamo d’Ettore padre.
È questo il sangue mio, di questa progenie m’onoro.
Ma Giove, ora il valore degli uomini esalta, or lo strema,
cosi come gli piace: ché egli è fra tutti possente.
Ma via, come bambini qui più non badiamo a cianciare,
senza far nulla, mentre d’intorno infierisce la zuffa:
ché l’uno contro l’altro potremmo lanciar tante ingiurie
da sprofondare una nave che remi ne avesse duecento,
perché pronta è la lingua degli uomini, e c’è di parole,
qui, varia e grande abbondanza, più là ce n’è pascolo aperto,
e quale è la parola che dici, tal quella che ascolti.
Ma che bisogno c’è di risse fra noi, di contese,
di starci a ingiuriare l’un l’altro, di femmine al pari,
che furiose, quando la smania di rissa le morde,
scendono in mezzo alla strada, lanciandosi ingiurie a vicenda,
vere talune, ed altre non vere, ché l’ira le spinge?
Tanto, non placherai la brama, che m’arde, di pugna,
se prima contro te non provo il mio bronzo. Su, dunque,
l’un contro l’altro, al più presto, proviamoci dunque con l’asta».
Disse; e la salda lancia vibrò contro l’orrido scudo,
tremendo: alto clangore lo scudo mandò tutto intorno,
per quel colpo. Il Pelide lontan, con la mano possente,
tenne lo scudo, perché credea che traverso le piastre
agevolmente sarebbe passata la lancia d’Enea.
Stolto!, non ricordò, né al cuore gli corse il pensiero,
che facil cosa non è, per uomini nati a morire,
frangere i doni eccelsi dei Numi, mandarli distrutti.
Né allor potè la lancia d’Enea valoroso, lo scudo
forar del Nume: l’oro foggiato dal Dio, la respinse:
ché ben forò due piastre; ma tre ne restavano ancora:
ché cinque piastre aveva battute l’insigne Pie’torto,
le prime due di rame, due altre, più interne, di stagno,
ed una infine d’oro, che l’asta respinse d’Enea.
Dopo di lui, scagliò la lunga sua lancia il Pelide
contro il figliuolo d’Anchise. Lo scudo librato rotondo
colpi su l’orlo, dove sottile la piastra di rame,
dove correa sottile la pelle di bove; e fuor fuori
passò la lancia Pelia, die’ rombo Io scudo a quell’urto.
Enea si rannicchiò, da sé tenne lungi lo scudo,
tutto sgomento; e l’asta, sul dorso volandogli, a terra
si conficcò, bramosa di sangue: ch’entrambe le piastre
forò del grande scudo. Schivata l’immane zagaglia,
stette; ed orrore a lui sui cigli infinito s’effuse,
fiero ribrezzo; e l’asta vicino gli stava confitta.
E, pien di furia, Achille balzò, con un orrido grido,
stretta l’aguzza spada. Enea prese un grande macigno,
con una mano, grande, che appena potrebbero in due
reggerlo gli uomini d’ora; ma ei lo scoteva da solo.
Enea sarebbe morto se non fosse intervenuto Posidone. Posidone annebbia gli occhi di Achille e porta Enea lontano, raccomandandogli di tenersi indietro finché Achille non sarà morto. Solo allora potrà combattere senza timore.

E qui, colpito avrebbe, mentr’ei s’avventava, il Pelide,
nell’elmo, o nello scudo, che salva gli avrebbe la vita,
e lui da presso avrebbe trafitto col ferro il Pelide,
se non avesse provvisto Posidone, il dio dei tremuoti,
che subito fra i Numi cosí cominciava a parlare:
«Che cruccio, ahimè, m’affligge, d’Enea dal magnanimo cuore,
che presto scenderà, dal Pelide trafitto, nell’Ade!
Credette alle parole d’Apollo che lungi saetta,
stolto! Né quegli da lui tien lungi l’evento funesto.
Ma perché mai, senza colpa, deve esso travagli or soffrire,
a torto, per i crucci degli altri; e pur giunsero sempre
grati i suoi doni, ai Numi d’Olimpo signori immortali?
Ora, su, dunque, adesso, salviamolo noi dalla morte,
perché non debba poi sdegnarsi il figliuolo di Crono,
se Achille ora l’uccide: ché salvo lo vuole il Destino,
perché senza progenie non resti, perché non sparisca
di Dàrdano la stirpe: ché Giove l’amò più di quanti
figli mai furono a lui concetti da donne mortali,
e in odio prese invece la stirpe di Priamo, il Cronide.
Ora la forza d’Enea dovrà comandare ai Troiani:
i figli suoi comanderanno nei tempi futuri».
Ed Era a lui rispose, la Dea dalle fulgide luci:
«Nume che scuoti la terra, provvedi tu stesso ad Enea,
o sia che tu salvare lo voglia, o che voglia lasciare
ch’ei sotto i colpi cada trafitto d’Achille Pelide:
perché ci siamo entrambe legate con giuro solenne,
Pàllade Atena ed io, dinanzi al consesso dei Numi,
che dall’esizio mai non avremmo schermito i Troiani,
neppur se tutta Troia dovesse soccombere al fuoco
sterminatore, e a sacco la mettano i figli d’Acaia».
E quando il Dio che cinge, che scuote la terra, ebbe udito,
alla battaglia mosse, dov’era il tumulto dell’aste,
e giunse ov’era Enea, di fronte al famoso Pelide.
Sùbito quivi, allora, caligine effuse sugli occhi
del figlio di Pelèo: la lancia di frassino, quindi,
via dallo scudo trasse d’Enea dal magnanimo cuore,
e la depose ai piedi, dinanzi al figliuol di Pelèo.
Poi, sollevato Enea da terra, lontano lo spinse.
Molte file d’eroi, molte file varcò di cavalli,
spinto cosí dalla mano del Nume, il figliuolo d’Anchise;
e giunse dove ardeva sui limiti estremi la pugna,
dove, indossando l’armi, si stavano i Càuconi prodi.
Presso al figliuol d’Anchise si fece Posidone allora,
e, a lui parlando queste rivolse veloci parole:
«A tanta cecità, qual mai t’ha sospinto dei Numi,
che in zuffa tu volessi provare il figliuol di Pelèo,
che te vince di forza, che è più diletto ai Celesti?
No, ritirarti devi, se mai nella pugna lo incontri,
se tu prima del tempo discender non vuoi nell’Averno.
Solo quando abbia Achille compiuto il suo fato, e sia morto,
prendi coraggio, allora, fra i primi alla pugna ti lancia,
ché a te toglier la vita niun altri potrà degli Achivi».
E quivi lo lasciò, poi che tutto cosí gli ebbe detto.
Riavutosi dal prodigio di Posidone, Achille incita gli Achei allo scontro; lo stesso fa Ettore con i Troiani. Apollo consiglia Ettore di non slanciarci in avanti ad affrontare Achille da solo, ma di attenerlo in mezzo alla calca.

Sùbito poi, dagli occhi d’Achille la nebbia divina
disperse, e, come quegli potè l’occhio volgere attorno,
cosi parlava, pieno di cruccio, al gagliardo suo cuore:
«Misero me, che prodigio non debbon vedere questi occhi!
È la mia lancia questa che in terra qui vedo; ma l’uomo
non vedo io, contro cui la scagliai, per levargli la vita.
Era di certo anche Enea diletto ai signori d’Olimpo,
ed io credea che vano, che futile fosse il suo vanto.
Vada in malora! Son certo che voglia di mettermi a prova
più non avrà: si contenti che adesso schivata ha la morte.
Su, dunque, or voglio i Danai guerrieri esortare alla pugna,
spinger mi voglio avanti, far prova degli altri Troiani».
E. cosí detto, balzò fra le schiere, esortando uno ad uno:
«Lungi non state più dai Troiani, o fortissimi Achivi,
movete uomo contr’uomo: desio di combattere v’empia.
Arduo troppo è per me, per quanto possa essere prode,
a tante genti dietro tenere, combatter con tutti.
Neppur Marte, che Nume, non reggere Atena potrebbe
tanto travaglio, la faccia di tante battaglie affrontare.
Per me, quanto posso io con le mani, coi pie’, con la forza,
tutto io farò, di nulla, di nulla mi vo’ risparmiare.
Ora attraverso le file m’avvento; e nessun dei Troiani
s’allegrerà, dico io, che a tiro di lancia mi giunga».
Dunque, cosí li eccitò. D’altra parte, comando ai Troiani
Ettore dava, e diceva che avrebbe affrontato il Pelide:
«0 valorosi Troiani, timor non abbiate d’Achille!
Io mi saprei misurare perfino coi Numi, a parole;
ma con la lancia è il duro, perché sono troppo più forti.
E Achille non potrà dare esito a tutto ch’ei dica;
parte lo compierà, parte a mezzo dovrà rimanere.
Ora io contro gli andrò, se avesse le man’ come il fuoco,
le mani come il fuoco, l’ardir come il ferro fiammante».
Cosí disse a eccitarli. Levaron le lancie i Troiani
contro il nemico, e la furia cozzò, surse l’urlo di guerra.
E presso Ettore, Febo si fece in quel punto, e gli disse:
«Ettore, contro Achille non muovere solo alla pugna,
ma tra la folla attendilo qui, dove ondeggia la zuffa,
ch’egli colpir non ti debba, ferir con la spada dappresso».
Ettore allora indietro, dov’era la calca, si trasse,
ché sbigottí, come udí suonare la voce del Nume.
Achille fa strage di Troiani; quando Ettore vede che ha ucciso anche suo fratello Polidoro, non ce la fa a trattenersi, si lancia per colpirlo; ma Atena protegge Achille, e Febo protegge Ettore. Allora Achille torna a far strage di Troiani.

E fra i Troiani Achille balzò con un orrido grido,
tutto precinto d’ardire. E primo Ifitione trafisse,
d’Otrunte il prode figlio, che a popoli molti era guida.
Lui generava ad Otrunte di rocche eversore, una Ninfa
sotto il nevoso Tmolo, nei pascoli fertili d’Ida.
Achille Io colpi con la lancia, mentr’ei s’avventava,
a mezzo il capo; e tutto fu il capo diviso in due parti.
Diede un rimbombo cadendo, su lui menò vanto il Pelide:
«Giaci, o figliuolo d’Otrunte, tremendo fra gli uomini tutti.
Quivi la tomba avrai, sebben la palude Gigèa
ti die’ la vita, dove t’aspettano i beni paterni.
Dov’è l’Ilio pescoso, dove, tutto vortici, l’Ermo?».
Menò tal vanto Achille. La tènebra a quello sugli occhi
scese; e i cavalli Achei lo fransero sotto le ruote,
lì nelle prime file. D’Antènore quindi il figliuolo,
Demoleonte uccise, valente campione di guerra.
Giusto alla tempia lo colse, traverso l’elmetto di bronzo;
ma non rattenne il colpo l’elmetto di bronzo; e la punta
tramezzo lo forò, franse l’osso, e il cervello di dentro
tutto si spappolò: lo prostrò che moveva all’assalto.
Ippodamante poi, che era balzato dal cocchio
e innanzi a lui fuggiva, di lancia feri nella schiena:
egli esalò, ruggendo, lo spirito; e toro sembrava
che va muggendo quando lo traggono al Nume eliconio
vittima i giovani; e il Dio che scuote la terra, ne lieto.
Tra questi mugghi, l’alma sua prode fuggiva dall’ossa.
E con la lancia allora, colpì Polidoro divino,
figlio di Priamo. Il padre mandarlo alla pugna negava,
perché dei suoi figliuoli quello era il più giovine, e caro
a lui su tutti gli altri. Vincea tutti quanti nel corso;
e stoltamente allora, mostrando la sua valentia,
egli correva fra i primi, sinché qui perdette la vita.
A mezzo lo colpì con la lancia il veloce Pelide,
mentr’ei cosí correva, nel dorso, dov’eran congiunte
le fibbie d’oro, e doppio riparo faceva l’usbergo.
Vicino all’umbelico passò parte a parte la punta:
sulle ginocchia piombò gemendo, una nuvola negra
l’avvolse, e fra le mani, piegandosi, strinse l’entragne.
Ettore, come vide giacer Polidoro, il fratello,
che al suol giacea prostrato, stringea nelle mani l’entragne,
su le pupille una nebbia gli corse, né il cuore sostenne
più d’aggirarsi lontano, ma venne diritto ad Achille
vibrando l’asta aguzza, che un fuoco pareva. Ed Achille,
come lo vide, cosí die’ un balzo, levò questo vanto:
«Vedi colui che più a fondo d’ogni altro m’ha il cuore trafitto,
che uccise il mio compagno diletto; ma or non dovremo
sugli argini di guerra più a lungo l’un l’altro schivarci».
Ad Ettore divino poi volto, cosí gli diceva:
«Fatti più presso, ed avrai più presto raggiunta la morte!».
Ettore, senza temere, rispose con queste parole:
«Non lo sperare, Pelide, di farmi sgomento a parole,
come se un pargolo io fossi. Anch’io, senza dubbio, saprei
dire parole d’oltraggio, parole che mordano il cuore.
Lo so che tu sei prode, ch’io valgo di te molto meno:
però, su le ginocchia dei Numi riposa l’evento,
se io, pur meno forte di te, dovrò darti la morte
con la mia lancia: ché aguzza la cuspide ha pur la mia lancia».
Cosí detto, librò, vibrò la zagaglia. Ed Atena
via con un soffio, lungi la fece volar dal Pelide,
sol con un soffio leggero. Indietro tornò la zagaglia,
d’Ettore innanzi ai piedi di nuovo ricadde. Ed Achille,
pieno di furia balzò, bramoso di dargli la morte,
con un orribile, grido. Ma Febo lontano lo trasse,
facile impresa a un Nume, di nebbia lo avvolse in un velo.
Tre volte si scagliò coi piedi veloci il Pelide,
colpi tre volte l’aria profonda con l’asta di bronzo.
Ma quando si lanciò la quarta, che un dèmone parve,
queste parole disse, lanciando terribili grida:
«Anche una volta, o cane, tu sfuggi alla morte; ma pure,
ben presso t’è venuta. T’ha Febo salvato, a cui certo
ti raccomandi, quando ti lanci al fragor delle zuffe.
Ma io ti spaccerò, se pure di nuovo io t’incontro,
se ho fra i Numi anch’io qualcuno che vegli a me presso.
Adesso sopra gli altri, su chi posso coglier, m’avvento».
E, cosí detto, feri per mezzo alla nuca Driòpe.
Questo dinanzi ai suoi piedi piombò. Lo lasciò quivi Achille;
e di Filètore il figlio Dermico gagliardo e valente,
colpi sotto il ginocchio con l’asta; cosí lo rattenne;
poi lo colpi con la spada sua grande, e gli tolse la vita.
Poscia i due figli di Bia, Laògore e Dàrdano spense,
ché con un lancio entrambi li fece balzare dal carro,
l’uno di lancia, l’altro ferito dappresso di spada.
Tròo, d’Alestòride figlio, gli aveva abbracciati i ginocchi,
se mai lo risparmiasse, prigion lo facesse, e poi vivo
lo rimandasse, avendo pietà che si giovine egli era.
Stolto! Né pur sapeva che mai non l’avrebbe convinto,
perché dolce di cuore non era, quell’uomo, né mite,
bensi pieno di furia. Cosi, gli stringeva i ginocchi,
per supplicarlo. La spada nel fegato Achille gl’immerse:
fuori il fegato uscì, di livido sangue fu piena
sùbito tutta la spada, la tènebra gli occhi gli ascose,
mentre la vita fuggiva. Poi, fattosi a Mulio vicino,
dentro un orecchio la lancia gl’immerse. La punta di bronzo
usci dall’altro orecchio. Echèclo, d’Agènore figlio,
poscia per mezzo il capo colpi con la solida spada.
Tutta si fece calda di sangue la spada: al ferito
tolser la luce la morte purpurea, la Parca possente.
Deucalióne poi, nel punto ove i tendini uniti
sono del gomito, qui con la punta di bronzo trafisse,
traverso il braccio; e quegli col braccio restò penzolante,
la morte innanzi agli occhi vedendosi. Un colpo sul collo
l’altro vibrò, gli fece volare con l’elmo la testa;
fuori il midollo schizzò dalle vertebre; e il corpo, disteso
a terra cadde. Poscia, su Rigmo piombò, di Pirèo
l’egregio figlio, qui dalla Tracia feconda venuto.
Con l’asta lo colpì, nel ventre gl’infisse la punta:
piombò dal carro al suolo. E Achille, Aritòo, lo scudiere
colpi, che il carro aveva rivolto, alla schiena, con l’asta:
dal carro lo sbalzò, s impennarono entrambi i cavalli.
Come un immenso fuoco che invade le forre profonde
d’un monte arido; e tulta divampa l’immensa foresta,
e dappertutto il vento mulina, e la fiamma flagella:
imperversava cosi, come un dèmone, Achille, con l’asta
morte infliggendo ai fuggiaschi: correa negro sangue la terra.
E come quando un uomo due bovi di lunga cervice
aggioga, che su l’aia gli trebbiane il bianco frumento:
ben presto sotto il pie’ dei mugghianti si sgranano i chicchi:
spinti cosí dal Pelide, pestavano insieme i cavalli
scudi e cadaveri, sotto gli zoccoli saldi; e di sangue
tutto era intriso l’asse di sotto, e la sponda del carro:
ché dagli zoccoli, schizzi volavano in alto, e sul cerchio
delle volanti ruote. Bramoso di gloria il Pelide,
cosi le mani invitte lordava di polvere e sangue.
Achille fa strage di Troiani presso il fiume Xanto (Scamandro); qui trova Licaone, figlio di Priamo e fratellastro di Ettore, che invoca la sua pietà, ma Achille è implacabile: lo uccide e lo butta nel fiume.
Ma poi che giunser presso la bella corrente del fiume,
del vorticoso Xanto, cui padre fu Giove immortale,
quivi in due parti li ruppe, spingendone l’una sul piano,
verso la rocca d’Ilio, dov’erano innanzi alla furia
d’Ettore, il giorno innanzi, fuggiti sgomenti, gli Achivi.
Si rovesciarono qui, fuggiaschi; e caligine fitta
Era distese a salvarli, su loro. Ma furono gli altri
sospinti verso il fiume profondo, dai gorghi d’argento.
Giù con fracasso grande piombarono: l’alta corrente
strepito diede, cupe le rive rombarono attorno.
Quelli, nuotavano urlando qua, là, mulinati dai gorghi.
Come allorché locuste, dall’impeto spinte d’un fuoco,
fuggiasche verso un fiume svolazzano: surta improvvisa,
arde la fiamma implacata, si gitlano quelle nei gorghi:
tal, per la furia d’Achille, la fonda corrente del Xanto
d’uomini, di cavalli s’empiea, di confuso tumulto.
E quel divino, lasciò, li sopra la sponda, la picca
poggiata ai tamerischi, balzò, pari a un Nume, nell’acqua,
sola stringendo la spada, volgendo in cuor suo crudi scempi.
Colpiva tutto in giro: la spada feriva, sorgeva
misero il grido,.rossi correvano i gorghi di sangue.
Come allorché, dinanzi l’immane delfin, gli altri pesci
fuggono, e negli anfratti s’accalcan d’un porto securo,
tutti sgomenti, ché quanti ne giunge, l’inghiotte vorace:
similemente i Troiani, pei flutti del fiume tremendo,
si rannicchiavano sotto le ripe. Or, poi ch’egli le mani
ebbe di strage stanche, dai vortici dodici trasse
giovani vivi, che il fio pagasser di Patroclo spento.
Fuori dall’acqua, come cerbiatti sgomenti, li trasse,
e dietro il dorso a tutti le mani avvinghiò con le cinghie
ch’essi portavan, polite, sovresse le tuniche molli:
quindi li diede ai compagni, che sopra le navi ricurve
li conducessero. Ed egli proruppe di nuovo alla strage.
Qui si trovò con uno dei figli di Priamo a fronte,
con Licaone, fuggiasco dal fiume. Già un tempo rapito
in un agguato notturno l’avea dai poderi del padre.
Esso d’un caprifico tagliava le rame novelle
con l’affilata scure, per farne d’un carro le sponde,
quando su lui piombò l’improvviso flagello d’Achille,
che lo mandò, sovresse le navi, per venderlo a Lemno,
e ne die’ prezzo Eumèo, figiuol di Giasone. D’Eumèo
quindi un ospite, Etione d’Imbro, con molti presenti
lo riscattò, che ad Arisba divina lo addusse; e di furto
quindi fuggito, era giunto di nuovo alla casa del padre.
Undici giorni potè’, scampato da Lemno, godere
la compagnia dei suoi cari; perché nel duodecimo, un Nume
sotto le mani d’Achille di nuovo il gittò, che doveva
d’Ade alla casa spedirlo, sebbene a mal grado vi andasse.
Come lo vide, Achille veloce di pie’ , tutto ignudo,
senza né scudo né elmo — né lancia stringeva, ché a terra
tutto gittato avea: ché dal fiume fuggendo, sudore
Io macerava, e grave stanchezza fiaccava i ginocchi —
tutto crucciato, cosí si volse al magnanimo cuore:
«Ahimè!, che meraviglia mai debbon vedere questi occhi!
Ora davvero i Troiani magnanimi a cui diedi morte
risorgeranno di nuovo dall’ètere fosco d’Averno,
quando è tornato costui, che, il giorno fatale schivando,
già fu venduto in Lemno; né freno gli pose l’abisso
dello spumante mare, che molti, a malgrado, trattiene.
E allora via, di nuovo la punta di questa mia lancia
voglio che gusti: vo’ darmi ragione, e vedere se proprio
anche di lì tornerà nel medesimo modo, o se freno
porgli saprà l’alma terra, che i più valorosi trattiene».
Questo pensava, a pie’ fermo restando: ché tutto sgomento
s’avvicinava l’altro, volea le ginocchia abbracciargli:
ch’egli schivare anelava la livida Parca e la Morte.
Dunque, la lunga zagaglia vibrò, per trafiggerlo, Achille;
ma quegli si chinò, si lanciò, gli afferrò le ginocchia,
si, che, sovresso il dorso la lancia volandogli, a terra
restò confitta, invano bramosa di suggere sangue.
Quegli con l’una mano stringealo ai ginocchi, e pregava:
l’aguzza asta con l’altra stringeva, né pur la lasciava;
e il labbro schiuse, e queste gli volse veloci parole:
«Io ti scongiuro, Achille: pietà di me abbi e rispetto:
essere io devo per te come un supplice sacro, o divino:
ch’io presso te primamente cibai di Demètra la spica,
quel di che nel podere mio bello prigione mi festi,
e mi vendesti, recandomi, lungi dal padre e dai cari,
nella divina Lesbo: ché avesti da me cento bovi.
Ora, tre volte tanti ne avrai di riscatto. È pur questa
la dodicesima.luce, che io, dopo molti travagli,
giunto era in Ilio; ma il fato funesto di nuovo or mi gitta
sotto le mani tue. Sarò bene io l’odio di Giove,
che in tua balia di nuovo mi pone! Ah!, che a vita si breve
mi generò d’Altào vegliardo la figlia Laòte,
d’Altào, ch’era sovrano dei Lèlegi vaghi di pugne,
sul Satnioento, aveva in Pèdaso eccelsa la reggia.
Priamo s’ebbe la sua figliuola, fra l’altre sue spose;
e due da lei nascemmo, che tu vuoi trafiggere entrambi.
L’un, tra le prime schiere dei fanti abbattesti: il divino
Polidoro, che tu trafiggesti col cuspide aguzzo:
ora la mala mia sorte sarai qui per me, ché scampare
dalle tue mani, ove un dèmone infesto m’ha spinto, dispero.
Ma questo ancor ti dico, né chiuso rimanga il tuo cuore:
non mi finir: ché portato non m’ha l’alvo stesso onde nacque
Ettore, quegli che al tuo compagno diletto die’ morte».
Dunque cosí diceva di Priamo il fulgido figlio
con supplichevoli accenti; ma fu la risposta implacata:
«Misero te, non propormi, promessa non far di riscatti.
Prima che il dì fatale scendesse su Patroclo, piacque,
grato al mio cuore fu, risparmiar dei Troiani la vita,
si ch’io molti pur vivi li presi per venderli. Adesso,
niuno potrà sfuggire la morte, di quanti un Celeste
sotto le mani mi gitti, dinanzi alle mura di Troia,
niun dei Troiani, e meno d’ogni altro di Priamo i figli.
Misero, e dunque muori tu pure: a che sì ti lamenti?
Patroclo anch’egli è morto, che tanto di te più valeva.
Ed anche me, non vedi, come io sono bello e gagliardo?
E valoroso è mio padre, mi diede alla luce una Diva;
eppure, anche su me la Morte e l’indomita Parca
o all’alba, o a mezzo il giorno, o a vespero un di piomberanno
quando la vita alcuno nel cuor della zuffa rapirmi
saprà con l’asta, oppure dall’arco lanciando uno strale».
Questo egli disse; e all’altro mancarono cuore e ginocchia,
Abbandonò la lancia, s’accosciò, protese le braccia
supplici; e Achille fuori traendo l’aguzza sua spada,
presso al collo colpi la clavicola, e tutta v’immerse
la spada a doppio taglio: Licàone giacque disteso
al suolo; e negro il sangue scorreva, e bagnava la terra.
Achille per un piede lo prese, lo scagliò nel fiume,
che lo rapisse, e, imprecando, parlò queste alate parole:
«Rimani lì fra i pesci, che, senza pensare a sepolcro,
della tua piaga il sangue verranno a lambir: ché tua madre
te non porrà sul giaciglio per piangerti: sì lo Scamandro
ti rapirà coi suoi gorghi nel grembo infinito del mare,
sì lancerà, fra i guizzi dei torbidi flutti, uno squalo,
di Licaóne a cibare le candide polpe. Morite
tutti, sinché la sacra di Troia città non si espugni,
in fuga voi correndo, correndovi io dietro a sterminio.
Né lo Scamandro dal corso veloce, dai gorghi d’argento,
vi salverà, per quante gli offriate ecatombi di tori,
o vivi ancor gittiate veloci corsieri nell’onde:
no, non per questo potrete sfuggire alla morte; ma tutti
espierete di Patroclo il fine, e gli Achei che uccideste
presso alle rapide navi, mentre ero lontano dal campo».
Il fiume è indignato dalla strage di Troiani che Achille sta compiendo, e pensa a come fermarlo. Intanto Achille uccide Asteropeo.

Cosí disse. Ed il fiume s’accese per questo di sdegno;
e divisava come potesse d’Achille divino
fine alla zuffa porre, salvar dall’eccidio i Troiani.
Ed il Pelide, intanto, vibrando la lunga sua lancia,
con omicida furia proruppe sopra Asteropèo,
figlio di Pelegóno. L’ Assio dalle belle fluenti
padre, madre gli fu Peribèa, d’Acessàmeno figlia,
la prima nata, stretta d’amore col fiume profondo.
Gli balzò sopra Achille, di contro dal fiume gli stette
l’altro, due lancie vibrando, ché furia nel cuor gl’infondeva
Xanto, furente di sdegno pei giovani tanti trafitti,
cui sterminava Achille, cuor senza pietà, nei suoi gorghi.
Or, poi che l’uno all’altro, movendosi, furono presso,
prese per primo Achille veloce divino a parlare:
«Chi sei tu mai, di che gente, che muovere ardisci a me contro?
Alla mia furia, solo si oppone chi nacque a sciagura».
E di Pelègono il figlio fulgente cosí gli rispose:
«Pellde, animo eccelso, perché la mia stirpe mi chiedi?
Nella Peonia io nacqui remota, dal fertile suolo,
ed i Peóni conduco che vibrano cuspidi lunghe.
Questa è l’undecima aurora che giunsi alla rocca di Troia.
Della mia stirpe fu capo l’Assio da le belle fluenti,
il più bello dei fiumi che scorrono sopra la terra:
ei generò mio padre Pelègono, lancia gagliarda:
dicon ch’io nacqui da lui. Ma or, prode Achille, alla zuffa!».
Disse cosí con piglio minace. Ed Achille divino
alto vibrò la lancia di fràssino pelio; e d’un colpo
Asteropèo lanciò due zagaglie: ch’egli era ambidestro.
Una zagaglia colpi lo scudo; né valse a forarlo,
perché l’oro faceva riparo, foggiato dal Nume:
a fior di pelle Achille scalfiva nel gómito destro
l’altra, e sgorgò nero sangue: volando troppo alta, la lancia,
si conficcò nella terra, restò con la brama del sangue.
Ecco, a sua volta, diritta la lancia di frassino Achille
scagliò contro il nemico, bramoso di dargli la morte;
né giunse il colpo a segno, bensì l’alta ripa percosse,
e nelle zolle restò, sino al mezzo confítta, la lancia.
Ed il Pelide, dal fianco fuor tratta l’aguzza sua spada,
gli balzò sopra furente; né l’altro potè dal terreno
con le gagliarde mani strappare la lancia d’Achille.
Tre volte la scrollò, ne l’ansia di svellerla fuori,
tre gli mancò la forza. Pensò di spezzare, una quarta,
il fràssino d’Achille, del corpo fece arco a scalzarlo;
ma con la spada prima gli tolse la vita il Pelide.
Vicino all’ombelico fu il colpo: ne usciron l’entragne
tutte, si sparsero al suolo: un rantolo usci dalla gola,
tenebra avvolse gli occhi. Sul petto balzatogli Achille,
l’alma gli tolse, e queste parole superbe gli disse:
«Giaci ora qui: coi figli lottar del possente Cronide,
è troppo dura cosa, sia pure a chi nacque da un fiume.
Tu ti dicevi figlio d’un fiume dall’ampia corrente:
io meno vanto che sono progenie del Re dei Celesti:
m’ha generato un uomo di molti Mirmidoni sire,
Pèleo, d’Èaco figlio; ed Èaco nacque da Giove.
Quindi, se Giove più vale dei fiumi che corrono al mare,
anche di Giove i figli più valgon dei figli d’un fiume.
E un fiume anche ora, qui, ricco d’acque, t’è presso, se mai
possa giovarti. Ma niuno pugnare può mai col Cronfde:
non lo pareggia di forze neppure il possente Achelòo,
neppur la possa immane d’Ocèano dai gorghi profondi,
da cui pur tutti i fiumi fluiscono, e l’acque del mare
tutte, e le fonti tutte, con tutte le grandi sorgive.
E pure, anch’egli teme di Giove la folgore orrenda,
teme l’orrendo tuono, quaad’esso dal cielo rimbomba.
Detto cosi, dalla ripa divelse la lancia di bronzo,
ed il corpo abbandonò, poiché gli ebbe tolta la vita,
sovra la sabbia proteso, bagnandolo i torbidi flutti.
E brulicarono al morto d’attorno le anguille ed i pesci
che divoravan le polpe sue grasse, rodevano i nervi.
Achille uccide i cavalieri Peoni, ma il fiume Scamandro, assunta forma d’uomo, lo rimprovera e gli dice di smettere di riempire le sue acque di cadaveri. Si rivolge anche ad Apollo, lo prega di aiutare i Troiani almeno finché non arriverà la sera, come aveva promesso a Giove.

Sui cavalieri Peóni balzò quindi infesto il Pelide,
che si sbandarono iri fuga lunghesse le rive del fiume,
poi ch’ebber visto sotto le mani e la spada d’Achille
nella terribile zuffa cadere il più forte dei loro.
Quivi Tersiloco e Midone e Astipilo caddero spenti,
ed Ofeleste e Mneso ed Enio con Trasio. Ed uccisi
molti Peóni ancora qui avrebbe il veloce Pelide,
se non gli avesse parlato pieno d’ira il fiume profondo,
che, forma assunta d’uomo, tal voce levò dai suoi gorghi:
«Achille, più d’ogni altro sei forte; ma compi misfatti
orridi più d’ogni altro: ché sempre t’assistono i Numi.
Se t’ha concesso Giove che stermini tutti i Troiani,
cacciali fuor dai miei vortici, esercita al pian le tue gesta:
ché di cadaveri colme son già le mie pure fluenti,
né posso più la mia corrente sospingere al mare,
mi fanno inciampo i morti, né tu dalla strage desisti.
Smetti, su via, ch’io sono sgomento, possente signore!».
E gli rispose Achille dai piedi veloci, e gli disse:
«Li caccerò, come, o divo Scamandro, desideri, al piano;
ma non tralascerò l’eccidio dei Teucri spergiuri,
prima che nella città li spinga, e con Ettore stia
a fronte a fronte, ch’egli m’uccida, o da me resti ucciso».
Detto cosi, sui Troiani balzò come un dèmone infesto.
Ma si rivolse il fiume dai gorghi profondi ad Apollo:
«Ahimè, di Giove figlio dall’arco d’argento, il volere
dunque del figlio di Crono dimentichi tu, che t’impose
presso restare ai Troiani, proteggerli, sin che non giunga
Vespero a ombrare col tardo tramonto le fertili zolle?».
Mentre diceva, Achille feroce piombò dalla ripa
giù nel mezzo del fiume. E il fiume, gonfiandosi a furia,
sopra gli si lanciò: mulinava, scagliava le ondate,
spingeva i corpi uccisi per mano d’Achille, che fitti
lo riempievano, al piano, con lungo muggito di toro,
fuor li gittava; e i vivi lunghesso le belle fluenti
salvi rendea, celati negli ampi recessi dei gorghi.
Il fiume Scamandro perseguita Achille, che teme per la sua vita e si rivolge agli dèi; non vuole fare una fine ignobile. Atena ed Era gli danno conforto, ma il fiume continua a tentare di sommergerlo.
Con traballio terribile il flutto attorceasi ad Achille,
piombava la corrente, cozzava allo scudo, né i piedi
poggiare al suol lasciava: si ch’egli afferrò con le palme
un grande olmo robusto; ma quello, sbarbato piombando,
tutta schiantò la ripa, coperse le belle fluenti
con le fronzute rame, d’un argine freno le pose,
tutto piombandovi dentro. Balzato dai vortici, Achille
via si lanciò per il piano, volando sui piedi veloci,
per lo spavento. Né il Nume possente ristie’; ma la negra
cresta levando, balzò contro lui, per frenare d’Achille
l’impeto, e lungi tenere dai Teucri l’eccidio fatale.
Ed il Pelide die’ un balzo, quanta è la gittata d’un’asta:
l’impeto suo fu come d’un’aquila negra predace,
che vince quanti sono gli alati, di forza e di volo.
Simile a questa, proruppe. Squillava terribile il bronzo
sopra il suo petto; e, di sghembo, fuggiva dinanzi a Scamandro.
Ma rotolando quello seguialo con alto rimbombo.
Come talora dall’acqua profonda di cupa sorgiva
un fontaniere deduce per orti e filari un ruscello,
e con la marra alla mano via spazza gl’intoppi dal fosso:
l’onda fluisce, dinanzi le rotolan tutti i lapilli,
quella, velocemente scorrendo, pel suolo declive
con un gorgoglio scende, precede chi pure la guida:
sempre cosí le ondate del fiume giungevano Achille
benché veloce ei fosse: più valgon gli Dei che i mortali.
E quante volte Achille gagliardo coi piedi tentava
stare, ed opporre alla forza la forza, e vedere se tutti
sono a inseguirlo i Numi che reggon l’impero del cielo:
tante un’immane ondata del fiume rigonfio di pioggia
colpiva a lui dall’alto le spalle. E balzava ei furente
alto sui pie’. Ma il fiume, scorrendo rapace, i ginocchi
a lui fiaccava, e, sotto, dai pie’ gli rubava l’arena.
Ed il Pelfde un lagno mandò, gli occhi al cielo rivolse:
«Deh, Giove padre, perché nessuno dei Numi m’assiste,
si ch’io mi salvi dal fiume? Poi venga qualsiasi sciagura!
Niun altro dei Beati d’Olimpo è cagione di questo,
ma la mia madre stessa, che me lusingò con inganni,
quando mi disse che presso le mura dei Teucri guerrieri
io sarei morto sotto le rapide frecce d’Apollo.
Ettore ucciso m’avesse, che tutti qui vince in valore!
Un prode avrebbe ucciso, un prode sarebbe caduto.
Ora è destino invece che a misera morte io soccomba,
chiuso nel fiume grande, al par d’un garzone porcaro,
via dal torrente travolto, mentr’egli d’inverno lo guada!».
Disse; e di sùbito a lui vicini Posidone e Atena
vennero, e stettero, assunta sembianza mortale; e la mano
strettagli nelle mani, conforto gli dier di parole.
E cominciò Posidone, il dio dei tremuoti, e gli disse:
«No, non tremare cosi, non ti sgomentare, Pelfde!
Tali noi due Celesti siam qui per te giunti al soccorso:
Pàllade Atena, ed io Posidone; e Giove ci approva;
poi che destino non è che a un fiume soccomber tu debba:
questo, vedrai, dovrà tornare ben presto a bonaccia.
Noi ti daremo poi, se tu vuoi seguirlo, un consiglio.
Dall’accanita zuffa tu non trattenere le mani,
sin ch’entro ai muri d’Ilio non cacci la turba ch’or fugge;
non ritornare alle navi, se ad Ettore prima non abbia
tolta la vita: il vanto d’ucciderlo noi ti daremo».
E cosí detto, i due fra i Celesti tornarono; e Achille
via si lanciò, poi che i Numi cosí l’animarono, al piano.
Dell’acqua straripata il pian tutto quanto era colmo,
vi galleggiavano sopra molte armi di giovani uccisi,
molti cadaveri. E Achille s’intese balzar le ginocchia:
alto s’avventò sopra le ondate, ché più noi frenava
l’ampia corrente del fiume: tale impeto Atena gl’infuse.
Né la sua furia frenò Scamandro; ma sempre più irato,
contro il Pelide raccolse la forza del rapido flutto;
ed al soccorso, levando la voce, chiamò Simoenta:
«Caro fratello, in due sbarriamo la strada a quest’uomo,
o che ben presto sarà la rocca di Priamo distrutta
dalla sua zuffa, né i Teucri resister potranno alla furia.
Dunque, su, presto, accorri, soccorri, nei flutti raccogli
dalle sorgive l’acqua, prorompano gonfi i torrenti,
leva sublimi i tuoi gorghi, fa’ ch’alto s’innalzi un frastuono
di tronchi, di macigni, ché freno si ponga al selvaggio
ch’ora imperversa, e crede di forza esser pari ai Celesti.
Ma né la forza, dico, né a lui gioverà la prestanza,
né l’armi belle, che presto, di questa palude nel fondo
giacer dovranno, sotto la melma nascoste; ed io stesso
lo coprirò d’arena, di ghiaia e belletta d’attomo
addenserò gran mucchi; né più troveranno gli Achiví
l’ossa: di tal congerie nascoste le avrò di fanghiglia:
qui gli faranno il sepolcro; e il tumulo alzato sovr’esso
qui troveranno, quando l’esequie faranno, gli Achivi».
Disse, e balzò sul Pelide con impeto d’ardui flutti,
romoreggiando cosparso di schiuma di sangue di morti.
Era, temendo per la vita di Achille, chiede ad Efesto di aiutarla scatenando un gran fuoco. Le acque del fiume si prosciugano, e allora Scamandro desiste e promette ad Era di non ostacolare più Achille.

Dunque, il flutto cosí del fiume rigonfio di pioggia
si sollevava purpureo, già già ghermiva il Pelide,
quando, per lui temendo, che il fiume dai vortici fondi
via non l’avesse a rapire, levò la diva Era un gran grido,
e tale appello a Efesto, diletto suo figlio, rivolse:
«Scuòtiti, o figlio mio, pie’ torto! Trovammo un rivale,
il vorticoso Xanto, ben degno che teco s’affronti.
Corri al soccorso, corri, fa’ ch’alta la fiamma rifulga!
Io di Zefiro intanto, di Noto che limpido fulge
susciterò, correndo sul mare, una fiera procella,
che dei Troiani avvampi gli sparsi cadaveri e l’armi,
spanda l’orror dell’incendio. E tu, su le rive di Xanto
gli alberi brucia, avventa nell’alveo stesso la fiamma.
Né da melate parole lasciarti piegare, o da preci,
né dall’impeto tuo desistere: solo quando io
ti lancio un grido, frena l’indomita furia del fuoco».
Com’ebbe detto, Efèsto lanciò l’ardentissimo fuoco.
Prima la fiamma avvampò la pianura, bruciando le salme,
quivi distese a mucchi, dei Teucri spenti da Achille,
l’acqua limpida stette, tornò tutto il piano rasciutto.
Come la Bora d’Autunno sul campo irrigato di fresco
spira, e d’un tratto lo asciuga: ne gode nel cuore il bifolco;
tutta la piana cosí s’asciugava, bruciavan le salme.
E contro il fiume allora la lucida fiamma rivolse.
Arsero a un tratto gli olmi, i salici, le tamerici,
arsero il loto, il cipero, il giunco, che lungo le belle
acque correnti del fiume crescevano in fitto rigoglio:
e boccheggiarono tutte le anguille ed i pesci, che spersi
guizzavano tra i gorghi, qua e là, per le belle fluenti,
dall’alito cruciati, dall’opera fiera d’Efèsto.
Arsa la forza del fiume struggevasi; ond’esso proruppe:
«Niuno dei Numi, Efèsto, potrebbe con te misurarsi:
né quando avvampi cosí di fuoco, potrei contrastarti.
Tronca l’offesa; e Achille via scacci i Troiani, se vuole,
dalla città: che cosa m’importa di risse e soccorsi?».
Disse: ché ardea pel fuoco, bolliano le belle fluenti.
Come un lebète ribolle, se l’urge gran vampa di fuoco,
liquefacendo il grasso d’un porco adiposo, e trabocca
tutto dattorno, e sotto s’ammucchiano l’aride legna:
bruciavano cosí pel fuoco le belle correnti,
l’acqua bolliva, né più voleva fluir, s’arrestava:
la consumava il fiato, la furia d’Efesto sagace.
E queste allora ad Era parole di prece rivolse:
«Era, perché su la mia corrente tuo figlio infierisce
più che su ogni altra? Eppure, non sono colpevole io tanto,
quanto son gli altri tutti che mosser dei Teucri al soccorso!
Io, quanto a me, poi che tu Io brami, son pronto a ristarmi;
ma dall’offesa anch’egli desista; ed inoltre io ti giuro
che più non terrò lungi dai Teucri il giorno fatale,
né pur se tutta Troia si strugga, nel fuoco vorace
arsa, e alle fiamme la diano i prodi guerrieri d’Acaia».
Ed ecco, Era l’udì, la Dea dalle candide braccia,
e al figlio suo diletto si volse con queste parole:
«Inclito figlio, Efèsto, desisti: poiché non conviene
per i mortali dar tanto martirio ad un Nume immortale».
Com’ebbe detto, spense Efèsto la furia del fuoco;
e per le belle fluenti declinò retrogrado il flutto.
Gli dei si azzuffano tra loro, mentre Giove assiste dall’alto. Poi tornano tutti all’Olimpo. Apollo va presso le mura di Troia, temendo che i Danai la espugnino quel giorno. Achille intanto continua ad uccidere Troiani.

Dunque, fiaccata che fu la furia del Xanto, i rivali
stettero: ch’Era, sebbene crucciata, li aveva frenati.
Ma divampò tremenda la zuffa fra gli altri Celesti,
impetuosa: in due schiere la furia dei cuor li spingeva.
Gli uni piombaron sugli altri con alto fracasso; e un rimbombo
corse per l’ampia terra, dal cielo rispose un clangore.
Udí Giove, in Olimpo seduto; ed il cuore gli rise
di contentezza, vedendo confusi i Celesti in battaglia.
Sparve ben presto il terreno fra loro. Die’ il segno alla zuffa
Ares, che frange gli scudi, stringendo una lancia di bronzo:
primo balzò sopra Atena, con queste parole d’obbrobrio:
«Zecca molesta, perché sospingi a contesa i Celesti,
mai di protervia sazia, ché il cuor temerario ti spinge?
Non ti ricordi quando spingesti il Tidide a ferirmi,
e tu medesima, l’asta lucente vibrando diritta,
contro di me la scagliasti, la cute ferendomi? Adesso
spero che il fio mi dovrai pagar dell’offesa d’allora».
Disse. Ed all’egida volse, di frange tutta orrida, un colpo.
Schermo tremendo è quello: neppur la saetta di Giove
lo frange: Are omicida vibrò, per colpirlo, la lancia;
ma si ritrasse Atèna, con mano gagliarda un macigno
prese, gigante, negro, tutto aspro, che al suolo giaceva,
e lo teneva, la gente d’un tempo, a confine dei campi.
Ares colpì con questo nel collo, e gli sciolse le membra.
Precipitando, copri sette iugeri: intrisa la chioma
fu nella polvere, l’armi tonaron sul corpo; ed Atena
rise, e veloci queste parole, esaltandosi, disse:
«Sciocco, non te lo sei ricordato, quanto io più gagliarda
sono di te, che ardisti venir meco a prova di forza!
Ora cosí devi tu scontar di tua madre le colpe,
che, irata, a mal consiglio s’attenne, perché degli Achivi
abbandonate le parti, difendi gl’iniqui Troiani».
E, così detto, altrove rivolse le fulgide luci.
Ed Afrodite, la figlia di Giove, preso Ares per mano,
via lo guidò, che gemeva, che appena traeva il respiro.
Era li vide allora, la Diva dall’òmero bianco,
e favellò con queste veloci parole ad Atena:
«Miseri noi, figlia invitta di Giove dell’ègida sire,
quella molesta zecca di nuovo è sul campo, e via tragge
Are omicida dal crudo furor della pugna. Or tu accorri».
Disse cosi. Si lanciò, gioendo nell’anima, Atena,
sopra le fu, la man dura protese a percòterle il seno:
e venne meno a quella lo spirto, piegar le ginocchia.
Giacquero entrambi cosi, sovresse le fertili zolle,
e sovra loro Atena parlò queste alate parole:
«Oh!, se i guerrieri tutti venuti dei Teucri al soccorso
fossero tali, quando s’azzuffan con gli uomini d’Argo,
fossero arditi cosi, cosí validi, come Afrodite
venne al soccorso d’Are, di fronte movendo al mio sdegno!
Da lungo tempo avrebbe già termine avuto la guerra,
già rovesciata avremmo la rocca saldissima d’Ilio».
Cosí parlava; ed Era dall’omero candido, rise.
E disse allora il Nume che scuote la terra, ad Apollo:
«Febo, e perché noi due ristiamo? Non bello è tale atto!
Gli altri già sono alle prese. Vergogna per noi, se torniamo
senza azzuffarci, all’Olimpo, di Giove alla bronzea dimora.
Comincia tu, che sei più giovine: a me non conviene,
ché nato sono prima di te, ch’ò più senno. Oh demente,
che smemorato cuore dev’essere il tuo! Non ricordi
quanti malanni ad Ilio d’intorno dovemmo soffrire,
soli tu ed io, quel tempo, che qui, per comando di Giove,
Laomedonte superbo servimmo — ed un anno ivi corse —
e pattuita fu la mercede, e stavamo ai suoi cenni.
D’intorno alla città dei Troiani io costrussi le mura,
belle ed eccelse, ché niuno potesse espugnare la rocca;
e tu, Febo, pei clivi, pei fondi burroni e le selve
dell’Ida, i lenti bovi dai corni lunati pascevi.
Ma quando infine l’Ore segnarono il termine lieto
della mercede, a noi diniego ne fe’ con la forza
Laomedonte feroce, che via ci cacciò con minacce:
ci minacciò che legate ci avrebbe le mani ed i piedi,
all’isole remote che schiavi ci avrebbe mandati:
e pronto era a recidere a entrambi le orecchie col ferro.
E ce ne andammo cosi, lontano, col cruccio, nel cuore
per la mercede promessa, che poi non ci volle sborsare.
Merito forse di questo tu rendi al suo popolo, invece
d’adoperarti con noi, perché muoiano i Teucri malvagi,
tutti riversi a terra, coi figli e le nobili spose?»
Ma gli rispose Apollo che lungi saetta, gli disse:
«Enosigèo, davvero mi avresti a chiamar dissennato
s’io m’azzuffassi con te, per causa degli uomini grami
simili a frondi ch’oggi fioriscon con grande rigoglio
forti del cibo pasciuto, domani li accoglie la morte.
Via, desistiam dalla pugna: combattano pure fra loro».
Disse, ed altrove si volse, perché non voleva alle mani
venir col Dio germano del padre, ne aveva rispetto.
Ma s’adirò con lui la sorella, la Dea cacciatrice,
Artèmide selvaggia, che tal vituperio gli volse:
«Saettatore, dunque tu fuggi, tu senza contrasto
tutto il trionfo, tutta la gloria a Posidone lasci?
Stolto, perché mai l’arco portare, se a questo ti serve?
Fa’ ch’io non t’oda mai più vantar nella casa del padre
come già prima solevi, nel cerchio dei Numi celesti,
ch’eri capace tu di sfidare Posidone a lotta».
Disse. Ed Apollo che lungi saetta, a lei nulla rispose.
Tutta fremente invece di sdegno, la sposa di Giove
queste parole d’obbrobrio rivolse alla Dea cacciatrice:
«Cagna sfrontata, che mai presumi di stare a me contro?
Essere dura saprò, saprò contrastar la tua furia,
sebbene destra sei nell’arco: ti fe’ leonessa
contro le donne, Giove, permise che morte a chi brami
dessi; ma meglio per te cacciare per l’alpi le fiere
ed i selvaggi cervi, che a gara venir coi più forti.
Ma, se tu vuoi, sperimenta la zuffa, ché ben tu conosca
quanto io sono più forte di te, che vuoi meco azzuffarti».
Disse. Ed al polso entrambe le man’ con la manca le strinse,
via le strappò con la dritta dagli omeri l’arco e il turcasso,
sopra le orecchie colpi le inflisse con quelli, ridendo.
Si dimenava, quella: le frecce giù caddero al suolo;
e lagrimosa sfuggi di sotto, che parve colomba
che lo sparviere fuggendo, s’appiatta nel concavo sasso
d’una spelonca: ché quivi non era suo fato esser presa.
Così la Dea fuggi lagrimosa, e lasciò la faretra.
E l’Argicida che l’anime guida, rivolto a Latona,
disse: «Non io, Latona, con te pugnerò: dura impresa
è, con le spose azzuffarsi di Giove che i nembi raguna.
Vantati pure franca, se vuoi, fra i Beati d’Olimpo,
che superato m’hai di forza nell’aspro cimento».
Disse cosi. Ma l’arco ricurvo Latona raccolse,
e le saette sparse qua e là nella polve del campo:
raccolse le saette dal campo, e seguì la figliuola.
Questa in Olimpo era corsa, di Giove alla bronzea dimora,
e, lagrimando, su le ginocchia del padre s’assise,
tutta tremando sul corpo l’ambrosia veste. E il Cronide
se la raccolse al petto, le chiese con dolce sorriso:
«Chi degli Uràni t’ha ridotta cosi, figlia mia?
E gli rispose la Dea redimita che vaga è di cacce:
«Era percossa m’ha, la tua sposa dall’omero bianco,
babbo, per cui fra i Celesti son sorte le zuffe e le risse».
Queste parole, dunque, scambiavano Artèmide e Giove.
E Febo Apollo entrò nel sacro recinto di Troia,
ché gli sovvenner gli spalti dell’ardua rocca, per tema
che contro il fato i Danai l’avesser quel giorno a espugnare.
E tutti gli altri Numi, tornati in Olimpo, crucciosi
questi, festosi quelli, s’assisero, ognuno vicino
al Padre, adunatore dei nuvoli negri. — Frattanto
Achille sterminava Troiani e solunghi corsieri.
Priamo dà ordine di aprire le porte di Troia per dar rifugio ai Troiani in fuga da Achille. Agenore non fugge, aspetta che Achille si avvicini, e lo colpisce con la lancia su una gamba, ma senza ferirlo, perché l’armatura lo protegge. Achille si avventa su di lui, ma il dio Apollo protegge Agenore, lo avvolge nella caligine e lo porta in salvo.
Poi Apollo ne prende le sembianze e si fa inseguire da Achile, per distrarlo.
Intanto i Troiani fanno in tempo a ripararsi entro le mura.

Come allorquando un fumo si leva agli abissi del cielo
d’una città che arde, ché l’ira d’un Nume lo spinge:
reca travaglio a tutti, per molti è fatale rovina:
cosi pena e rovina recava il Pelide ai Troiani.
Il vecchio Priamo stava sovressi gli spalti divini;
ed ecco giunger vide l’immane Pelide; ed i Teucri
dinanzi a lui, sgomenti fuggivano, e niuno più ardiva
stargli di contro. Il re scese sùbito ai pie’ della torre,
e delle porte ai custodi die’ ordin che stessero ai varchi:
«Le porte spalancate, le man’ su tenetevi, pronti
sin che alla rocca giunga la turba fuggiasca: ché Achille
l’incalza già da presso: ben temo l’estrema rovina.
Quando poi dentro le mura raccolti, riprendano fiato,
sùbito allor chiudete di nuovo le solide imposte;
ché quel furente non debba, lo temo, balzar nella rocca».
Disse. E dischiusero quelli le porte, levaron le sbarre;
le spalancate imposte mostraron la luce ai fuggiaschi.
E balzò fuori Apollo, per essere schermo ai Troiani.
Questi, diritti verso la rocca e l’eccelsa muraglia,
dal pian fuggivano, arsi di sete, di polvere sozzi.
E l’incalzava Achille, con l’asta tutto impeto, e fiera
l’ira gli ardeva il cuore, la brama di farne sterminio.
E qui l’eccelse mura di Troia espugnavan gli Achivi,
se non avesse Apollo sospinto d’Antènore il figlio,
Agenore divino, gagliardo, animoso, onorato.
Nel cuore il Dio gl’infuse coraggio, e vicino egli stesso
gli stie’, per tener lungi le Parche crudeli di morte:
e a un faggio s’addossò, da fitta caligine cinto.
E quegli, come Achille mirò che sul muro piombava,
stette; e nel seno il cuore gli ondava con fiero tumulto;
e, tutto cruccio, cosí nell’animo grande pensava:
«Misero me, se adesso dinanzi ad Achille possente
fuggo, pel tramite stesso che battono gli altri sgomenti,
mi prenderà, la gola mi taglierà, senza contrasto.
Forse, potrei lasciare che innanzi ad Achille Pelide
fuggano questi, ed io, lontan dalle mura di Troia,
volgere i piedi veloci di Troia sul pian, sin ch’io giunga
sopra le alture dell’Ida, mi appiatti fra i densi macchioni.
A sera poi, lavate le membra nell’acque del fiume,
via deterso il sudore, potrei ritornarmene ad Ilio.
Anima mia, che cosa tu vai fra te stessa dicendo?
Se m’allontano pel piano lontan dalle mura, mi scorge,
ed inseguendomi, ratto m’aggiunge coi piedi veloci,
né sarà modo ch’io possa le Parche evitare e la Morte:
ché troppo egli in valore si leva sugli uomini tutti.
E se dinanzi alle mura mi fermo, ed incontro gli muovo?
Anche il suo corpo si può forare col bronzo affilato;
solo uno spirito egli ha, mortale egli è pure, per quanto
dicono tutti; ma Giove lo vuole ricolmo di gloria».
Disse; ed in sé raccolto, attese il Pelide; ed il petto
suo valoroso empieva di guerra una furia e di lotta.
Come pantera che avanza dai fitti recessi d’un bosco
al cacciatore contro, né il cuore terrore le ingombra,
né sbigottisce, per quanto l’avvolga il latrato dei cani:
ché pur se quegli primo riesce a colpirla, a ferirla,
anche cosi, trafitta da cuspide aguzza, non resta
dalla sua furia, se prima noi colga, o non resti abbattuta:
similemente il figlio d’Antènore, Agènore prode,
darsi non volle alla fuga, ma prima far prova d’Achille.
E tutto quanto dietro nascosto allo scudo rotondo,
librò contro di lui la zagaglia, con alta minaccia:
«Questa speranza davvero nutrivi nell’animo, Achille,
d’oggi espugnare la bella città dei guerrieri troiani?
Stolto che sei! Molti altri cordogli t’attendono ancora:
però che molti ancora siamo uomini prodi e gagliardi,
che per i nostri figli, le spose dilette e i parenti,
difenderemo Troia. Tu poi, contro al fato di morte
muovi, benché tu sii terribile e audace guerriero».
Disse, e l’acuta zagaglia vibrò dalla mano gagliarda.
E non fallì la mira: lo stinco di sotto al ginocchio
colpiva; e lo schiniere di peltro di fresco temprato,
terribilmente squillò; ma senza ferire il Pelide
il bronzo rimbalzò: ché l’arme del Dio lo schermiva.
Ed a sua volta Achille piombò sopra Agenore prode.
Ma non permise Apollo che spentolo, vanto ne avesse;
e lo rapì, di fitta caligine cintolo tutto,
e lo mandò securo, lontano alla furia di guerra.
Con un inganno, poi, dalle turbe distolse il Pelide,
il Nume: tutte assunse le forme d’Agènore, e innanzi
gli stette; e i pie’ veloci rivolse a inseguirlo il Pelide.
E l’inseguiva cosi, pei campi feraci di biade.
Dove Scamandro i suoi gorghi volgeva, volgeva la caccia:
lo precorreva Apollo di poco; e con questa sua frode
lo lusingava, ché sempre sperasse di coglierlo al corso.
Ma sbigottiti frattanto giungean gli altri Teucri in frotta,
con ansia gioia, dentro le mura; e fu piena la rocca
dei fuggitivi; né alcuno restar fuor dei valli sostenne,
per ivi attender gli altri, vedere chi fosse sfuggito,
chi nella zuffa spento; ma trepidi ed ansi, per Ilio
si riversavano quanti scampati ne aveva la fuga.
I Troiani sono al riparo dentro la rocca; Achille si accorge dell’inganno di Apollo, che lo ha distratto, e si dirige verso la rocca. Priamo lo vede avvicinarsi e teme per il figlio Ettore; lui e la madre lo supplicano di entrare, ma Ettore aspetta Achille perché vuole battersi con lui.
Come cerbiatti quelli, fuggiti cosí ne la rocca,
tergevano il sudore, beveano, spengeano la sete,
dietro le belle bertesche sdraiati; e giungevan gli Achivi
presso alle mura, poggiando gli scudi sovresse le spalle.
Ettore solo fu dal fato di morte irretito,
si che restasse ad Ilio dinanzi alle porte Sceèe.
E Febo Apollo intanto diceva al divino Pelide:
«Figlio di Pèleo, perché le piante veloci affatichi
ad inseguirmi, se tu mortale, ed io sono immortale?
Sai che son Nume, eppure tu infuri e deliri a tal segno?
Non ti sta dunque a cuore lottar coi Troiani fuggiaschi,
che ne la rocca si sono serrati, e tu sei qui lontano?
Tanto non m’ucciderai, cader per tua mano non posso».
E Achille pie’ veloce, con grande corruccio rispose:
«Saettatore, scorno m’hai fatto, oh il più tristo fra i Numi,
che da le mura qui m’hai tratto: se no molti ancora
prima di giungere ad Ilio mordevan la terra coi denti.
Cosí questa gran gloria m’hai tolto, ed agevole è stato
mettere quelli al riparo. Temuta non hai la vendetta:
pure mi vendicherò di te, se mi bastan le forze».
Detto cosi, s’avviò, gran gesta volgendo nel cuore,
verso la rocca; e pareva corsiere che, dopo il trionfo,
agile, il cocchio traendo, s’allunga sul piano a la corsa.
Simile a questo, spingea le ginocchia e i pie’ rapidi Achille.
Priamo primo lo scorse: gli caddero gli occhi su lui,
che, via lanciandosi al piano, lucea tutto, simile all’astro
che sorge quando il grano matura, e fulgenti i suoi raggi
scintillan più di tutte le stelle nel buio notturno,
e cane d’Orione gli posero nome i mortali:
è fulgidissimo, certo; ma pure è segnacol di pene,
e insopportabile adduce calura a le misere genti.
Cosí luceva il bronzo sul seno ad Achille accorrente.
Levò gemiti il vecchio, al cielo le mani protese,
e si percosse la testa, gridando con alto lamento,
preci levando pel figlio. Ma questi, dinanzi alle mura
stava piantato: furore l’ardea di affrontarsi ad Achille.
Priamo tese le mani, levò questi miseri detti:
«Ettore, figlio mio caro, non stare ad attender quell’uomo,
solo, dagli altri lontano, che presto al destin non soccomba,
sotto le mani d’Achille prostrato: che troppo è gagliardo,
quello spietato. Oh, se i Numi bramassero quello ch’io bramo!
Cani sbranarlo, avvoltoi dovrebbero spento e insepolto!
E allor l’acerbo cruccio m’andrebbe lontano dal cuore:
ch’egli m’ha reso privo di tanti miei bravi figliuoli,
questi uccidendoli, quelli vendendoli in terre lontane.
Ed anche ora, due figli non giungo a veder, Licaóne
e Polidoro, che dentro la rocca di Troia sian giunti,
che generava a me Laotòe, mia legittima sposa.
Se degli Achei nel campo son vivi tuttora, il riscatto
noi pagheremo d’oro, di bronzo, che molto ne abbiamo:
Alte, l’illustre vecchio, gran dote alla figlia sua diede;
ma, se già spenti sono, se son nella casa d’Avemo,
grande è l’ambascia mia, della madre: ché son nostro sangue.
Pur, meno acerba sarà la doglia, pel popolo tutto,
se dalle mani d’Achille prostrato, anche tu non soccombi.
Entra, su via, fra le mura, figliuolo diletto, e fa salvi
uomini e donne d’Ilio: non dare al figliuol di Pelèo
questa gran gloria; e via non gittare la cara tua vita.
E inoltre, abbi pietà di me sventurato, che ancora
non ho perduto il senno! Ahimè!, che mi vuol su la soglia
della vecchiezza, il Cronide distrutto con duro destino,
vuol tanti mali ch’io vegga, trafitti i miei figli, le figlie
tratte lontano, schiave, i talami al suolo abbattuti,
nella feroce mischia sbattuti i pargoli a terra,
le nuore trascinate per man dagli Achivi funesti.
Me su la via, finalmente, da la porta i cani voraci
trascineran, poi che l’alma cacciata m’avrà dalle membra,
o saettando, o colpendomi alcuno col bronzo affilato:
qui li allevavo: alla mensa nutriti, custodi alle porte:
ora, bevuto il mio sangue, crucciati ed irosi, staranno
stesi dinanzi al vestibolo. A un giovane tutto dà grazia,
anche giacere sul campo trafitto dal bronzo affilato:
anche se morto, e qual sia lo strazio, pur, vedilo, è bello.
Ma quando il capo è bianco, ma quando è canuta la barba,
e le vergogne i cani deturpan d’un vecchio trafitto,
niuna più triste cosa si dà per gli afflitti mortali».
Disse il vegliardo; e di bianchi capelli ebbe piene le mani,
che si strappò dal capo. Né d’Ettore il cuore convinse.
A Priamo presso, pianto versando, la madre gemeva,
e, sollevando il peplo sul seno, mostrava la mamma,
e tra le lagrime queste veloci parole diceva:
«Ettore, figlio mio, questo seno rispetta, e ti muovi
a compassione di me, se mai la mammella io ti porsi,
quando piangevi! Figlio, ricordati, e schiva quell’uomo!
Vieni alle mura dentro, non stare ad attenderlo solo!
Misero figlio! Se mai t’uccidesse, non già sul tuo letto
te piangeremmo, né io, né la florida sposa, figliuolo
delle mie viscere, caro! Ma lungi, ben lungi da noi,
te presso i legni achei sbranerebbero i cani veloci».
Questo dicevano al figlio diletto, con molte preghiere,
con molto pianto; né pure convinsero d’Ettore il cuore:
esso attendeva l’orribile Achille, che già gli era sopra.
Ettore aspetta Achille e pensa anche di proporgli un accordo; ma poi decide che battersi con lui sia la cosa migliore. Tuttavia quando lo vede arrivare, fugge per lo spavento, e Achille lo insegue intorno alla rocca.
Giove è impietosito, vorrebbe risparmiare Ettore; ma poi dice ad Atena di agire come desidera.

Come sui monti un drago pasciuto di succhi maligni
ch’entro gli spirano atroce furore, in attesa dell’uomo,
stretto sul covo a spira, dardeggia terribili sguardi:
Ettore cosi, pieno d’inestinguibile furia,
saldo restava, poggiato lo scudo alla torre sporgente,
e nel gran cruccio cosí parlava al magnanimo cuore:
«Misero me, se attraverso la porta, se vo tra le mura,
Polidamante per primo vorrebbe coprirmi d’obbrobrio,
egli che m’esortava guidar nella rocca i Troiani,
quella funesta notte che Achille piombò nella mischia.
Io non gli diedi ascolto; e sì, meglio stato sarebbe.
Ora che tanta gente vedo io per mia colpa caduta,
io dei Troiani e delle Troiane pavento, che alcuno
malignamente, non debba cosí di me dire: — Seguendo
Ettore la sua furia, segnò la rovina di tutti. —
Cosí diranno. E allora per me molto meglio sarebbe
ch’io, fronte a fronte lottando, o Achille uccidessi, e tornassi,
o gloriosa morte da lui, per la patria, m’avessi.
E se, deposto giù lo scudo di guerra, deposto
giù da la fronte l’elmo, al muro poggiata la lancia,
solo, senz’arme, ad Achille fortissimo incontro movessi,
e promettessi ch’Elena e insieme con lei le ricchezze
tutte, quante Alessandro sovresse le navi ricurve
portò da Sparta a Troia, dond’ebbe principio la guerra,
tutto ridato agli Atridi sarà: ch’altri beni agli Achivi
distribuiti saranno, di quelli che Troia rinchiude?
Ed ai signori di Troia prestare farò giuramento
che, senza nulla celare, dividano tutto in due parti.
Ma via, che cosa in seno mi va favellando il mio cuore?
Se me gli faccio contro, ben temo che, senza riguardo,
senza nessuna pietà, mi debba ammazzar cosí nudo,
come s’uccide una donna, quand’io sia spogliato dll’armi.
Non è momento questo che intrecci colloqui con lui,
come fanciulla e garzone favellan da rupe o da quercia,
come fanciulla e garzone che intreccian colloqui d’amore.
Meglio è che quanto si può più presto, si venga a la lotta.
Vediamo a chi di noi l’Olimpio concede la gloria».
Questi pensieri, attendendo, volgeva: e vicino gli giunse
Achille, pari a Marte guerriero che crolli il cimiero.
E con il braccio destro proteso, vibrava l’orrendo
frassino pelio; e tutto cingendolo, il bronzo fulgeva
simile al raggio del fuoco che arde, del sole che spunta.
Ettore, come lo vide, tremore lo colse: né resse
quivi aspettarlo: lasciò la porta, fuggi sbigottito.
E gli fu sopra il Pelide securo dai piedi veloci.
Come sparviero sui monti, spiccando agilissimo il volo,
incalza a facil caccia colomba che trepida tutta:
essa gli sfugge di sotto, ma l’altro la preme da presso,
levando acute grida, bramoso di farla sua preda:
cosí, diritto Achille volava furente. E tremore
Ettore invase, sottesse le mura; e si diede alla fuga.
Verso la rupe ed il fico selvaggio, trastullo dei venti,
i due sottesso il muro correvano, lungo la strada;
e le sorgenti belle toccarono, dove due polle
sgorgan dal suolo, cui nutre coi vortici suoi Io Scamandro.
Tepida linfa l’una travolge, ed un fumo da lei
levasi tutto d attorno, si come di fuoco che arde;
e l’altra scorre, pure l’està, come grandine fredda,
come gelida neve, come acqua che in ghiaccio si stringe.
Qui, su le due sorgenti, vedevi una fila di vasche
tutte di pietra, belle, grandi, ove le fulgide vesti
lavare dei Troiani solevan le spose e le figlie,
quando era pace, innanzi che quivi giungesser gli Achivi.
Quivi passarono in corsa, fuggendo uno, l’altro inseguendo.
Un valoroso fuggiva, tenevagli dietro un più forte,
con ogni loro possa: che non una pelle di bove,
non un capo di gregge, che premio esser sogliono al corso;
ma d’Ettore gagliardo la vita, era posta del giuoco.
Come i corsieri dal solido zoccolo, ratti a gran furia
girano via, nell’esequie d’un prode, d’intorno alla mèta,
ed un gran premio ivi sta, d’un tripode, o vuoi d una donna:
cosi tre volte, ratti, di Priamo dattorno alla rocca,
mossero i piedi in giro. Guardavano tutti i Celesti:
e favellò cosí degli uomini il padre e dei Numi:
«Ahimè!, che un uom diletto, cacciato d’intorno alle mura
veggon le mie pupille! Mi piange per Ettore il cuore.
che tanti lombi a me di bovi solea su le vette
piene d’anfratti de l’Ida, bruciare, sovresse le mura
della città. Ma ora, di Priamo dinanzi alle mura
con i veloci passi lo incalza terribile Achille.
Su via, pensate, o Numi, volgete, a decider, la mente,
se dalla morte dobbiamo salvarlo, o se già, benché prode,
cadrà prostrato sotto le mani d’Achille Pelide».
E gli rispose Atèna, la Diva che glauche ha le ciglia:
«Padre, che il folgore lanci, che addensi le nuvole negre,
che dici! Un uomo, dunque, da tanto promesso al Destino,
anche una volta pretendi strappare alla doglia di morte?
Fa’! Ma non tutti i Celesti vorranno largirtene lode».
E a lei rispose Giove, che i nembi raduna, le disse:
«Sta di buon animo, figlia mia cara. Non parlo con cuore
tanto sicuro: e voglio mostrarmi arrendevole teco.
Non trattenerti, fa’ tu tutto ciò che il tuo cuore ti detta».
Spinse cosí la Diva, che già nell’attesa fremeva;
e con un lancio, dai gioghi d’Olimpo calò su la terra.
Achille senza tregua frattanto incalzava il nemico.
Come sui monti un cane, levato dal covo un cerbiatto,
velocemente l’insegue per gole e burroni; e se pure
sotto un cespuglio quello si rannicchia, e resta celato,
ne segue senza posa, finché pur lo trovi, le tracce:
cosi non poteva Ettore al fiero Pelide sfuggire:
ché quante volte cercava vicino alle mura dardanie
sotto le solide torri lanciarsi al riparo, se mai
dargli soccorso potesser dall’alto, lanciando zagaglie:
tante lo preveniva, dinanzi correndogli, o al piano
lo respingeva; e sempre dal lato ei correa delle mura.
Come nel sogno, quand’uno non vale a raggiungere l’altro:
l’uno non vale a raggiungere, l’altro non vale a fuggire:
cosi né quei poteva ghermirlo, né questo evitarlo.
Apollo protegge Ettore finché può, ma poi il fato decreta che Ettore debba morire.
Atena affinaca Achille e gli dice di prepararsi al duello. Poi, prese le sembianze di Deifobo, va da Ettore e lo convince a battersi con Achille.

Ora, come Ettore avrebbe schivata la sorte ferale,
se presso a lui venuto per l’ultima, I’ultima volta
Febo non fosse, che forza gl’infuse e vigore ai ginocchi?
Alle sue genti cenno faceva col capo il Pelide,
né permettea che sovra Ettore i dardi lanciassero amari,
ch’altri colpendolo avesse la gloria, ed ei fosse il secondo.
Quando la quarta volta però furon presso alle fonti,
ecco, librando il padre dei Superi l’aurea bilancia,
sopra vi pose due fati di morte e di gemiti: uno
d’Ettore prode a domare corsieri, ed un altro d’Achille:
l’alzò presala a mezzo: giù d’Ettore il giorno fatale
traboccò, verso l’Ade piombò: né più Febo lo resse.
E Atèna, occhi azzurrina, già corsa vicino al Pelide,
standogli presso, queste parole veloci gli disse:
«Fulgido Achille, adesso, diletto dei Superi, spero
che presso ai legni Achivi gran gloria otterremo noi due,
Ettore sterminando, per quanto gagliardo alla zuffa!
Ora non potrà più salvarlo la fuga, per quanto
Febo, che lungi avventa gli strali, s’adopri a salvarlo,
supplice prosternandosi innanzi a l’Egioco Giove.
Ma su, férmati, e fiato ripiglia: frattanto io lo accosto,
e lo convinco che voglia pugnare con te a fronte a fronte».
Disse la Dea cosi, l’ubbidi, lieto in cuore, il Pelide,
e si fermò, su l’asta dal cuspide bronzeo poggiato.
La Diva lo lasciò, di Déifobo assunse l’aspetto
e la gagliarda voce, per volgersi ad Ettore prode;
e presso stando a lui, gli volse veloci parole:
«Achille, o caro, troppo travaglio ti dà; ché t’incalza
con i veloci passi, di Priamo d’intorno alle mura.
Ora, su via, stiamo qui, rintuzziam di pie’ fermo l’assalto».
Ettore grande, dall’elmo corrusco, cosí le rispose:
«Già per l’innanzi, m’eri, Deifobo, caro fra tutti
i miei fratelli, figli di Priamo e d’Ècuba. Adesso
tanto di più mi penso ch’io debba onorarti ed amarti,
che t’è bastato il cuore, vedendomi, uscire al soccorso
fuor delle mura; e gli altri rimangono dentro la rocca».
E gli rispose Atèna, la Diva ch’à glauche le ciglia:
«Ettore caro, assai nostro padre e la madre diletta
me scongiuravan con fervide preci, e con essi gli amici,
che rimanessi lì, tanto era il tremore di tutti;
ma luttuoso cordoglio nel seno crucciava il mio cuore.
Ora moviamogli contro diritti, non diamo riposo
ai giavellotti, nessuno: si vegga alla prova, se Achille
noi debba uccidere, e intrise di sangue recare le spoglie
sui cavi legni, o dalla tua lancia restare trafitto».
Disse; e, per trarlo in inganno, dinanzi gli mosse a guidarlo.
Ettore promette ad Achille che non farà scempio del suo cadavere, se lo batterà, e gli chiede di fare altrettanto con lui. Ma Achille non vuole stringere patti. Gli tira la lancia, ma Ettore la schiva, e Atena la riporta ad Achille. Ettore gli scaglia anche lui la lancia, lo colpisce, ma l’armatura lo protegge. Ettore non ha altre lance; si gira verso il fratello Deifobo, ma non c’è nessuno. Allora capisce di essere stato ingannato da Atena, e che la sua ora è vicina. Tuttavia non rinuncia a battersi con onore.
Si scaglia su Achille con la spada, ma Achille lo trafigge alla gola.

E quando, un contro l’altro movendo, già eran vicini,
Ettore, il forte dall’elmo corrusco, per primo gli disse:
«Non fuggirò più, come dinanzi fuggivo, o Pelide,
che per tre volte girai di Priamo d’intorno alla rocca,
né d’aspettare l’assalto sostenni. Il mio cuore or mi sprona
a starti a faccia a faccia: ché io cada morto, o t’uccida.
Ma qui su via, gli Dei, s’invochino: ed essi saranno
mallevadori fedeli per noi, testi vigili ai fatti.
Io sconciamente non vo’ deturparti, se Giove concede
ch’io la vittoria consegua, che possa levarti la vita;
ma poi che t’abbia, Achille, spogliato de l’armi tue belle,
agli Achei renderò la tua salma: lo stesso a te chiedo».
Ma lo guardò feroce, cosí gli rispose il Pelide:
«Ettore, dimenticare non so: non parlarmi di patti:
fra uomini, e leoni non son giuramenti fedeli,
né lupi e agnelli i cuori potrebbero avere concordi,
ma senza tregua mai, l’un d’essi odia l’altro; e del pari
non si vedrà che tu ed io ci amiamo, e che patti giurati
possano stringerci, prima che l’uno dei due morto cada,
e del suo sangue sazi l’invitta ferocia di Marte.
La tua prodezza tutta, si chiama a raccolta: ché adesso
saldo a scagliar la zagaglia devi essere, e saldo alla pugna:
scampo per te più non v’è: ché subito Pallade Atèna
e la mia lancia t’avranno prostrato; e dovrai dei compagni
miei, che il tuo ferro trafisse, scontare le vite ad un colpo».
Sì detto, alta librò, scagliò la lunghissima lancia.
Ettore la schivò, ché tenea fitti innanzi gli sguardi,
e si chinò, quando giunger la vide; e la lancia di bronzo
gli volò sopra, e nel suolo s’infisse; ma Pallade Atèna
su la raccolse, e di nuovo la diede ad Achille. Né vide
Ettore; e queste parole rivolse all’invitto Pelide:
«Hai pur fallito il colpo, divino Pelide; né Giove
t’ha conceduto ancora veder la mia morte, per quanto
n’eri sicuro; ma tu ciance accozzi, e t’industri a parole,
ch’io sbigottisca, e meno mi vengano e forza e coraggio.
Ma la tua lancia nel dorso tu no, non potrai conficcarmi:
piantala a me nel petto, ché incontro diritto io ti vengo,
se lo concede un Nume. Ma or la mia lancia di bronzo
scansa a tua volta: potessi cosí tutta accoglierla in petto:
ché pei Troiani allora sarebbe più spiccia la guerra,
quando tu fossi spento: ché il massimo cruccio tu sei».
Si detto, alta vibrò, scagliò la lunghissima lancia.
Né sbagliò il colpo, e percosse nel mezzo lo scudo al Pelide.
Ma rimbalzò dallo scudo lontana la lancia; e gran cruccio
Ettore colse; ché invano scagliata ebbe l’asta veloce.
Stette confuso, ché più non aveva altra lancia; e levando
un alto grido, allora, Deifobo, candido scudo,
chiamò, chiese una lancia; ma quello non gli era vicino.
Ettore, tutto allora comprese, e fra sé cosí disse:
«Misero me, gli Dei m’han proprio chiamato alla morte!
Ben io credea che a me vicino Deifobo fosse;
ma quegli è fra le mura, ma Palla m’ha tratto in inganno.
Ora la triste morte non è più lontana, è qui presso,
scampo non v’è. Fu tempo che a Giove ed al figlio di Giove
che le saette scaglia lontano, io fui caro: eran pronti
essi, a proteggermi, un tempo: adesso m’ha còlto la Parca.
Ma non senza contrasto ma non senza gloria morremo,
ma qualche grande gesta compiendo, che ai posteri giunga».
E questo in cuor volgendo, sguainò l’aguzza sua spada,
che gli pendeva al fianco, che era massiccia e pesante,
e s’avventò, stretto in guardia, come aquila a sommo dei nembi,
che giù scoscende al piano, traverso le nuvole fosche,
a far preda d’un tenero agnello o d’un cuccio di lepre.
Ettore s’avventò, pari a quella, stringendo la spada.
Ma gli fu sopra Achille, che ardeva di furia selvaggia
dentro nel cuore. Il petto dinanzi copria con lo scudo
tutto corrusco bello: di sopra ondeggiavano all’elmo
quattro cimieri; e belle scotevansi in giro le chiome
fitte, che aveva Efesto piantate al bocciuolo dintorno.
Come di mezzo a le stelle nel cuor de la notte scintilla
d’Esperò l’astro, il più bello fra tutte le stelle del cielo:
tale un fulgore sprizzava dal cuspide aguzzo, che Achille
alto librava, cercando d’infliggere ad Ettore morte,
tutto il suo valido corpo cercando, ove ignudo paresse.
E tutte eran le membra difese dall armi di bronzo
belle, che a Patroclo aveva predate quel di che lo uccise:
sol dove le clavicole scindon dagli omeri il collo,
adito pronto alla fuga dell’alma pareva la gola.
Qui, mentre egli irrompeva, piantò la sua lancia il Pelide,
e fuor fuori passò pel morbido collo la punta;
né la trachea gli recise il frassino grave di bronzo:
si ch’egli ancor potesse rivolger parole al nemico.
Ettore, morente, supplica Achille di restituire il suo corpo ai genitori; ma Achille è implacabile. Ettore allora gli preannuncia che anche lui morirà per mano di Paride.
Achille torna alle navi sfregiando il cadavere di Ettore: ne perfora i tendini e lo attacca al carro.
La disperazione dei genitori di Ettore è immensa.

E piombò giù nella polvere; e Achille, esaltandosi, disse:
«Ettore, dunque credevi d’uccidere Patroclo, e salvo
tu rimaner, né pensiero ti desti di me ch’ero lungi.
Stolto! Ché a farne vendetta sovresse le concave navi
io rimanevo in disparte, campione di te ben più saldo,
che t’ho fiaccato i ginocchi. Gli uccelli ed i cani or faranno
turpe strazio di te: degne esequie egli avrà dagli Achivi».
Ettore, già d’ogni forza stremato, cosí gli rispose:
«Pei tuoi ginocchi, per l’anima tua, per i tuoi genitori,
non tollerar che i cani mi sbranino presso alle navi
dei figli d’Argo: accetta la copia del bronzo e dell’oro
ed i presenti che il padre ti porga e la nobile madre;
ed il mio corpo alla casa ritorna, ove al fuoco i Troiani
e dei Troiani le spose daranno le spente mie membra».
Ma bieco lo guardò, cosí gli rispose il Pelide:
«Non m’implorare pei miei ginocchi, pei mici genitori.
Cosí potessi il cruccio sfogare e la furia, sbranando
e divorando, a farne vendetta, le crude tue carni,
come non c’è nessuno che possa dai cani salvare
il corpo tuo, neppure se dieci, se venti riscatti
dinanzi qui venissero a pormi, con altre promesse.
Neppur se a peso d’oro volesse pagarmi il tuo corpo,
Priamo, neppure allora potrebbe deporti sul letto,
potrebbe lagrimarti la madre che t’ha partorito;
cani ed uccelli, a brani dovranno cibar le tue membra».
Ettore prode, a morire già presso, cosí gli rispose:
«Ben ti conosco, e già solo guardandoti, intendo che mai
ti piegherei: ché un cuore di ferro nel seno tu chiudi.
Bada però, che su te la mia morte il furore dei Numi
non susciti, quel giorno che Paride e Apòlline Febo
te prostreranno, per quanto gagliardo, alle porte Sceèe».
Cosí diceva; e un velo su lui l’ultima ora diffuse;
e dalle membra lo spirto volò verso l’Ade, gemendo
la sorte sua, la forza perduta, ed il fiore degli anni.
E sovra lui già spento, cosí favellava il Pelide:
«Muori! E la Parca mia me colga, quel giorno che Giove
e gl’Immortali tutti vorranno segnar la mia fine».
L’asta divelse, detto cosi, dall’esanime corpo,
e, postala in disparte, dagli omeri l’armi cruente
fuori gli trasse. E attorno correvano tutti gli Achivi,
che, stupefatti, l’alta statura miravan, la possa
d’Ettore: né s’accostò veruno che non lo ferisse:
e l’uno all’altro, gli occhi su lui rivolgendo, diceva:
«Ah si, davvero adesso più morbido molto a toccarlo,
Ettore pare, che quando col fuoco bruciava le navi!».
Cosí dicea ciascuno giungendo, e vibrava il suo colpo.
Ma poi che l’ebbe Achille veloce spogliato dell’armi,
fermo agli Achivi in mezzo, parlò queste alate parole:
«Datemi ascolto, amici, degli Achivi duci e sovrani.
Poi che concessero i Numi che spento giacesse quell’uomo
che più male da solo che insiem tutti gli altri, faceva,
tutti or d’intorno alle mura tentiamo la sorte dell’armi,
per indagar dei Troiani la mente, che pensino adesso:
o di migrare, lasciando la rocca, or che questi è caduto,
o se resistere ancora disegnan, sebbene sia spento.
Ma dietro quali idee si va disviando il mio cuore?
Giace di Patroclo il corpo, né già seppellito, né pianto
presso le navi; né oblio sarà che giammai me ne colga,
sin ch’io tra i vivi resti, sinché mi sostengano i piedi.
Ché pur se nell’Averno oblio sopravvenga dei morti,
io memoria anche là serberò dell’amico diletto.
Ora su via, figliuoli d’Acaia, cantando il peana,
presso alle concave navi torniamo, recando l’estinto.
Grande sarà la gloria: ché ad Ettore demmo la morte,
cui ne la rocca invocavano al pari d’un Nume i Troiani».
Disse; e una sconcia offesa pensò contro il morto nemico:
i tèndini forò, giù giù, dal mallèolo al calcagno,
dell’uno e l’altro piede, vi strinse guinzagli di cuoio,
e al carro poi l’avvinse, lasciando che il capo pendesse.
Poi sopra il carro sali, l’armi fulgide sopra vi pose,
vibrò la sferza; e pigri non furono al corso i cavalli.
Un polverio si levava dal corpo via tratto, le chiome
belle pendeano sparse, il viso, che tanto fu vago,
tutto giacea nella polvere. Giove cosí concedeva
nella sua terra materna, di lui tanto strazio ai nemici.
Tutto cosí si bruttava di polvere il capo; e la madre
si lacerava le chiome, lontano gittava il suo velo
morbido, e un ululo fiero levava, mirando il suo figlio.
Miseramente anche il padre piangeva, le turbe dattorno
per tutta la città gemevano, alzavano pianti:
pareva, a udire tanti lamenti, che tutta l’alpestre
Ilio, dai suoi fastigi crollasse, consunta dal fuoco,
E trattenevano a stento le turbe il vegliardo accorato,
che delirava, che uscire volea dalle porte Dardanie,
e rotolandosi giù nella polvere, tutti implorava,
chiamando ad uno ad uno per nome: «Non mi trattenete,
sebben di me vi dolga, lasciatemi, amici, che solo,
esca da queste mura, che ai legni vada io degli Achivi,
a scongiurar quell’uomo feroce, nemico del bene,
se l’età mia, se questa vecchiaia lo induca a riguardo,
a pietà: ché un padre vegliardo ha pur egli: Pelèo,
che gli die’vita e Io crebbe, perché della gente Troiana
ei divenisse il flagello: niuno ora soffrì tante pene
quante io ne soffro: tanti fiorenti figliuoli m’uccise!
Ma, sebben cruccio io n’abbia, non tanto di tutti io mi dolgo,
quanto d’un solo, e la pena mi trascinerà giù nell’Ade:
d’Ettore! Almeno poteva morire fra queste mie mani,
ché ci saremmo allora saziati di lagrime e pianti,
la sventurata madre, che a luce lo diede, ed io stesso!».
Questo diceva fra pianti: gemevano tutti i Troiani.
Ed Ecuba levò fra le donne il suo lungo lamento:
«Figlio, misera me, dove andrò col mio fiero dolore,
ora che tu sei morto? Tu eri, di notte e di giorno,
l’orgoglio mio, per questa città: ché il sostegno di tutti,
uomini e donne, in Troia, tu eri, che al pari d’un Nume
te riguardavano, e in te possedevan rifugio sicuro,
mentre eri vivo: adesso t’han colto la Parca e la Morte».
Andromaca, che nulla sa di quanto accaduto, ode gli acuti lamenti e immagina il peggio. Arrivata sulla rocca, vede il cadavere di Ettore trascinato dal carro, e si dispera, pensando al figlio che rimane orfano.

Cosí dicea piangendo. Ma nulla sapeva la sposa
d’Ettore ancora: ché niuno venuto era a darle l’annunzio
ch’era lo sposo suo rimasto fuor delle mura.
Ma ne le stanze inteme sedeva al telaio, e tesseva
duplice un marito di porpora, a fiori di varii colori;
ed alle anc’elle di casa ricciute avea l’ordine dato
che sovra il fuoco ponessero un tripode grande, ché caldo
fosse per Ettore il bagno, quand’ei dalla zuffa tornasse.
Misera! E il cuor non le disse che molto lontano dal bagno
spento per mano d’Achille l’avea l’occhicerula Atèna.
Ecco, ed un pianto, un ululo udí che giungea dalla torre:
onde un tremore la colse, di mano le cadde la spola;
e cosí disse alle ancelle dai fulgidi riccioli: «Andiamo,
due mi seguan di voi: vediamo che cosa è seguito.
Della mia nobile suocera udita ho la voce. Nel petto
mi balza il cuore in gola, le ginocchia un gelo mi serra.
Qualche sciagura incombe sui figli di Priamo! Oh, lontana
questa novella sempre rimanga da me! Ma poi temo
d’Ettore mio, l’ardito, che solo, lontan dalla rocca,
còlto non labbia Achille divino, ed al piano l’insegua,
e ponga fine al suo funesto valore, che il seno
sempre gli empiea: ché con gli altri restar non patia nelle schiere,
ma innanzi ognor correva, ché a niuno cedeva in ardire».
Detto cosi, si lanciò dalla casa, col cuore in tumulto,
simile a forsennata: seguiano i suoi passi le ancelle.
E come giunse alla torre, in mezzo alla gente affollata,
stette, e guardò dall’alto dei muri; e lo sposo conobbe,
cui trascinava Achille dinanzi alla rocca: i corsieri
lo trascinavano senza pietà verso i concavi legni.
Su le pupille a lei si stese una nuvola negra,
ed all’indietro piombò, lo spirto esalando. Lontano
tutte dal capo suo balzaron le fulgide bende,
il diadema, con l’alta sua mitra, e le tortili fasce,
e il velo ch’ebbe in dono dall’aurea Cipride, il giorno
che dalla casa d’Etione, offrendo gran copia di doni,
Ettore, sposa l’ebbe, l’eroe dal corrusco cimiero,
D’Ettore le sorelle, vicine le furono tutte,
e le cognate a sorreggerla, ch’ella spirata sembrava.
Ma quando poi rinvenne, raccolse gli spiriti in seno,
levò tra le Troiane, rompendo in querele, la voce:
«Ettore, misera me!, tu ed io con un solo destino
siamo venuti al mondo. Tu, dentro le mura di Troia,
dentro la casa di Priamo; ed io sotto il Placo selvoso,
nella tebana reggia d’Etione, che me pargoletta
crebbe a fatale destino! Cosi, deh, non fossi mai nata!
Giù nelle case d’Averno, nell’ime làtèbre del suolo
ora tu scendi, e me qui lasci in esoso cordoglio,
vedova nella tua casa. Né ancora favella il bambino
che generammo, infelici, tu ed io: né più dargli soccorso,
Ettore, tu potrai, ché sei morto; né questi a te darne.
Ché pur s’egli potrà sfuggir degli Achivi alla guerra,
sempre nei giorni venturi l’aspettano affanni e cordogli.
Altri vorranno certo rapirgli i suoi campi: ché il giorno
ch’orfano un pargolo rende, privo anche d’amici lo rende.
Gemere deve sempre, bagnare di pianto le gote.
Va, ché lo spinge il bisogno, da tutti gli amici del padre,
chiede un mantello a questo, a quello una tunica chiede.
E chi si muove a pietà, gli porge una piccola coppa,
che, se gli bagna le labbra, non giunge a bagnargli il palato.
E un bimbo, forse lieto fra i beni, da mensa lo scaccia,
ed a colpirlo avventa le mani, e d’ingiurie lo copre:
— Vattene via, ché tuo padre non siede a banchetto fra noi! —.
E Iagrimoso il bimbo ritorna alla vedova madre:
Astianatte, che prima sedea sui ginocchi del padre,
solo midollo cibava, sol carne di pecore pingui.
Quando poi, giùnto il sonno, cessava di pargoleggiare,
dormia nel suo lettuccio stringendolo al sen la nutrice,
entro le morbide coltri, di florida gioia il cuor pieno.
Ora l’aspettano mille cordogli, ché il padre ha perduto.
Astianatte! Ahi!, cosí ti chiamavano in Ilio: ché il padre
tuo proteggeva da solo le porte e l’eccelse muraglie.
Ora, lontan dai parenti, vicino alle navi ricurve,
di vermi un brulichio, poi che sazi saranno i mastini,
divorerà l’ignudo suo corpo. E qui son tante vesti
morbide e graziose, tessute da mani di donne.
Ora le brucerò tutte quante, sul fuoco rapace.
Ciò non ti gioverà, ché in esse non sei tu ravvolto,
ma tra le donne onore ne avrai, tra gli uomini d’Ilio».
Cosí dicea piangendo: gemevano insiem l’altre donne.
Achille torna alle navi e compiange Patroclo. Poi dice ad Agamennone di preparare il funerale per l’indomani.
Per tutta Ilio, cosi, gemevano quelli. E gli Achivi,
poscia che all’Ellesponto fùr giunti, e alle rapide navi,
si sparpagliarono tutti, movendo ciascuno al suo legno.
Ma non lasciò il Pelide sbandarsi i Mirmídoni: vólto
ai suoi compagni vaghi di guerre, cosí prese a dire:
«O di cavalli signori, Mirmídoni, cari compagni,
non si disciolgano ai cocchi di sotto i veloci cavalli,
ma coi cavalli e coi carri facciamoci a Patroclo presso,
ed il compianto leviamo: ché questo è l’onore dei morti.
E quando poi saremo ben sazi di funebre pianto,
sciolti i cavalli, tutti pensare potremo al banchetto».
Disse. E il lamento tutti levarono; e primo era Achille.
Sospinsero tre volte, gemendo, i criniti cavalli
d’intorno al corpo; e infuse nei cuori desire di pianto
Tètide; e furon tutte cosperse di pianto le arene,
tutte di lagrime l’arme: tale era il guerriero perduto.
E il pianto cominciò dirotto per primo il Pelide,
sopra l’amico spento stendendo le mani omicide.
«Patroclo, a te salute, sia pur nella casa d’Averno:
ché adesso io compierò tutto ciò ch’io t’avevo promesso:
ch’ Ettore avrei condotto per farlo sbranare dai cani,
che innanzi alla tua pira ben dodici fulgidi figli
d’Ilio sgozzati avrei, pel cruccio che tu fosti ucciso».
E, cosi detto, pensò contro Ettore sconcio un oltraggio:
ché presso il letto dove giaceva il figliuol di Menezio,
prono lo trascinò nella polvere. Intanto, ciascuno
spogliava l’armi belle, scioglieva i cavalli annitrenti.
Presso alle navi poi seder del veloce Pelide,
innumerevoli; e quello, per tutti apprestava il banchetto
lauto. Candidi buoi muggivan, trafitti dal ferro,
sgozzati, e molte capre belanti, con pecore molte;
e molti bianchi porci, di carne fiorenti, di grasso,
ardean sopra la vampa d’Efesto: d’intorno all’ucciso
tanto sangue scorrea, che coi calici attinto l’avresti.
Quindi i signori Achivi condussero al figlio d’Atrèo
il figlio di Pelèo, signore dai piedi veloci;
e lo suasero a stento, tanto era crucciato il suo cuore.
Giunti che furono poi d’Agamènnone presso alla tenda,
ordine sùbito qui fu dato agli araldi canori
che sopra il fuoco ponessero un tripode grande, se Achille
dalla lordura del sangue deterger volesse le membra.
Ma quegli ricusò duramente, ed aggiunse anche un giuro:
«No, per la fé’ di Giove, ch’è primo e supremo fra i Numi,
giusto non è che all’acqua s’appressi il mio corpo e si lavi,
prima che Patroclo io ponga sul rogo, ed un tumulo gli alzi,
e mi recida la chioma: perché tanto grave dolore
mai più crucciarmi il cuore potrà, sin ch’io resti fra i vivi.
Andiamo, via, per ora ci accolga la mensa aborrita.
Domani, poi, signore di genti Agamènnone, all’alba
manda chi legna tagli, chi tutte le cose prepari
che deve un morto avere, scendendo alle tenebre infeme,
sicché l’arda la furia del fuoco che mai non si stanca,
faccia sparire il corpo, ritornino a guerra le genti».
Cosí diceva. E quello ch’ei disse, fu tutto compiuto.
Furono senza indugio le mense apprestate, e ciascuno
prese del cibo; e niuno restò che non fosse satollo.
E poi che fu placata la brama del bere e del cibo,
ciascuno alla sua tenda movean gli altri duci, al riposo.
Dopo il banchetto tutti vanno a dormire, ma Achille piange ancora Patroclo, finché infiné il sonno non lo coglie. Patroclo gli appare in sogno e lo prega di affrettarsi a bruciare il suo corpo. E gli dice che poi le loro ossa dovranno giacere in un’unica urna.

Solo il Pelide, sopra la spiaggia del mare sonante,
giacea con grave pianto, fra molti Mirmidoni, dove
sgombro era il lido, ché sempre sovra esso battevano l’onde.
Lo colse infine il sonno, sgombrando le cure dell’alma,
in lui dolce s’effuse: ché molto pur s’era stancato,
quando Ettore inseguia sotto Ilio battuta dai venti.
E l’alma sopra lui del misero Pàtroclo giunse,
simile a Pàtroclo in tutto, le forme, le fulgide luci,
la voce; e vesti a quelle di Pàtroclo uguali cingeva.
Sopra il suo capo stette, gli volse cosí la parola:
«Dormi, e di me tu sei dimentico, Achille. Scordarmi
quando vivevo, tu non solevi: da morto mi scordi.
Dammi sepolcro al più presto, ch’io varchi le porte dell’Ade,
ch’or me ne tengono lungi gli spiriti, l’ombre dei morti,
e non permetton ch’io valichi il fiume, e con lor mi confonda;
ma presso all’ampie porte dell’Ade vagando m’aggiro.
E la tua mano dammi: piangiamo: ché mai dall’Averno
potrò tornare, quando m’abbiate affidato alle fiamme:
ché vivi, mai, più mai, dai cari compagni in disparte,
stare a consiglio noi due potremo: la Parca odiosa
m’ha colto già, che m’ebbe, quand’io venni a luce, in potere.
Ed anche a te, che ai Numi sei simile, Achille, è destino
che tu sotto le mura dei Teucri opulenti soccomba.
E un’altra cosà ancora ti dico, se ascolto vuoi darmi:
non sian deposte, Achille, lontan dalle tue, l’ossa mie;
ma insieme, come insieme ci crebbe un medesimo tetto,
quando Menezio da Opunte condusse me pargolo ancora,
a casa vostra; e fu la causa un funesto omicidio:
ché io d’Anfidamante, me misero, uccisi il figliuolo,
senza volerlo; e nacque pel giuoco dei dadi la furia.
Nella sua casa allora m’accolse tuo padre Pelèo,
che mallevò con amore, che a te volle farmi scudiere.
E dunque, un’urna sola d’entrambi le ceneri accolga,
l’anfora d’oro, che a te donava la madre divina».
E a lui rispose, Achille l’eroe dai pie’ celeri, e disse:
«Per che ragione qui sei venuto, diletto compagno?
Perché mi volgi tante preghiere? Disposto sono io
a soddisfarle, a fare che vadano tutte compiute.
Ma fatti a me più presso: gittiamoci al collo le braccia
l’uno dell’altro, e ci sazi l’amaro piacere del pianto».
E si protese, com’ebbe ciò detto, e le braccia dischiuse;
e nulla strinse: a guisa di fumo, sotterra, stridendo
l’anima sparve. E Achille dal sonno balzò sbigottito,
batté le palme, e in queste parole di pianto proruppe:
«Deh!, sciagurati noi, c’è pur, nelle case d’Averno,
l’anima e l’ombra, dunque; ma in esse ogni spirito manca.
Perché tutta la notte del misero Pàtroclo l’alma
sopra il mio capo stette piangendo, levando lamenti,
simile in tutto a lui d’aspetto; e preghiera mi volse».
Cosí diceva; e in tutti destò desiderio di pianto.
Si fanno i preparativi per la pira funebre. Achille fa sacrifici, si taglia i capelli, sgozza 12 teucri e li offre a Patroclo. Infne affida al fuoco il cadavere, e prega i venti che aiutino il fuoco a bruciare in fretta.

E a lor, mentre sul corpo defunto piangevano, Aurora
che rose ha fra le dita, comparve. Agamennone allora
uomini e muli spedì, trascelti da tutte le tende,
che raccogliessero legna. Merione ad essi era guida,
d’Idomenèo cortese scudiere, valente campione.
Mossero quelli, in pugno stringendo le scuri affilate,
le bene attorte funi: dinanzi marciavano i muli.
Mossero a lungo, di su, di giù, di traverso, di fianco:
ma, giunti infine ai piedi dell’Ida frequente di polle,
quivi l’eccelse querce tagliaron col bronzo affilato,
sollecitando il lavoro. Le querce, con alto rimbombo,
precipitarono a terra. Gli Achei le tagliarono a pezzi.,
le caricaron sui muli. La via divoravano questi,
ché dalle dense macchie sboccare volevano al piano.
E tutti i taglialegna portavano ceppi: ché questo
Merione imposto aveva. Poi, giunti alla spiaggia, le some
l’una vicina all’altra gittaron: ché un tumulo grande
qui designato Achille per Pàtroclo avea, per sé stesso.
Poi ch’ebber d’ogni parte disposti gl’innumeri tronchi,
quivi sederono tutti, raccolti in attesa. Ed Achille
sùbito impose ai suoi Mirmidoni vaghi di pugne
che si cingessero l’armi, che sotto il suo cocchio i corsieri
ponesse ognuno. E quelli, levatisi, cinsero l’armi,
e sopra i carri poi salirono aurighi e guerrieri.
I cavalieri innanzi: seguiva il gran nembo dei fanti,
innumerabile: il corpo defunto recavan gli amici,
e coi capelli tutta la salma coprian, che, recisi,
su vi gittavano. Il capo reggeva di dietro il Pelide,
pien di cordoglio: ché all’Ade spediva il suo puro compagno.
Quando poi giunsero al luogo che aveva indicato il Pelide,
qui lo deposero, e intorno gran mucchi v’alzaron di legna.
E il pie’ veloce Achille divino ebbe un altro pensiero.
Stando alla pira di fianco, recise la chioma sua bionda,
ch’egli nutriva, tutta fiorente, pel fiume Sperchèo;
e disse, pien di cruccio, rivolto al purpureo mare:
«Invano a te, Sperchèo, fe’ voto mio padre Pelèo,
che quando io quivi fossi tornato alla terra paterna,
a te la chioma avrei recisa, e una sacra ecatombe
offerta, e interi capi di greggi, cinquanta, immolati,
presso alle fonti dove per te sorge l’ara fragrante.
Cosí pregava il vecchio; ma tu non compiesti il suo voto.
Ed ora, poiché certo non torno alla casa paterna,
a Pàtroclo, ché seco la porti, io recido la chioma».
Detto cosi, fra le mani del caro compagno, la chioma
pose; ed in tutti i presenti fe’ nascere brama di pianto.
E ancor fra i pianti il sole trovati li avrebbe al tramonto,
se non avesse Achille cosí favellato all’Atride:
«Atride, poi che a te più che ad altri la gente d’Acaia
quando tu parli, obbedisce: di pianto son già tutti sazi:
mandali adesso lontan dalla pira, e comanda che il pranzo
s’appresti; e al corpo noi penseremo, che più del defunto
aver dobbiamo cura: con noi solo restino i duci».
Com’ebbe udito ciò, Agamennone sire di genti,
sùbito lungo le navi librate disperse le schiere.
Restarono li presso gli amici, ed estrusser la pira.
Estrussero una pira che avea cento piedi per lato,
e della pira a sommo, dogliosi, deposero il corpo.
E molti pingui capi di greggi e cornigeri bovi
scoiarono, apprestarono innanzi alla pira; e l’omento
prese di tutti Achille magnanimo, e il corpo cosperse
dai piedi al capo, intorno le vittime pose scoiate.
Ed anfore di miele vi pose, di liquido ulivo,
presso al giaciglio poggiate. Poi, quattro superbi cavalli
sovra la pira, a furia sospinse, con gemiti lunghi.
Aveva nove cani da mensa, il figliuol di Pelèo:
egli ne prese due, li sgozzò, li gittò su la pira.
E dodici dei Teucri magnanimi floridi figli
col bronzo anche trafisse, tanto era feroce il suo cuore.
E a pascer poi vi spinse la ferrea forza del fuoco;
e pianse quindi, a nome chiamando il compagno diletto:
«Pàtroclo, a te salute, sia pur nella casa d’Averno:
ché tutto ora ho compiuto per te quello ch’io ti promisi:
dodici io ti promisi dei Teucri magnanimi figli,
che il fuoco adesso insieme divora con te. Non al fuoco
Ettore poi darò: lo darò, ché lo sbranino, ai cani».
Queste minacce faceva. Ma d’Ettore intorno alla salma,
non contendevano i cani: da lui notte e giorno Afrodite
li discacciava, e l’ungeva con olio fragrante di rose,
ché non lo straziasse, traendolo in volta, il Pelide.
E Febo Apollo addusse sul corpo un ceruleo nembo,
sopra la terra, dal cielo, che tutto quel luogo nascose
dove era stesa la salma, perché coi suoi raggi anzi tempo
non distaccasse la pelle sui tendini e i muscoli il Sole.
Né bene ardeva ancora la pira di Pàtroclo morto.
E Achille pie’ veloce divino, ebbe un altro pensiero.
Stando in disparte alla pira, la prece rivolse a due venti,
Zefiro e Bora, ad essi promise fulgenti ecatombe.
E molto li pregò, da un’aurea tazza libando,
d’accorrer, ché più presto bruciasse i cadaveri il rogo,
e con più furia i tronchi ardessero. Ed Iri veloce
che le preghiere udí, corse ai venti, a recare il messaggio.
Stavano i venti accolti di Zefiro soffio gagliardo
dentro la casa, a banchetto. Quivi Iride giunse correndo,
stette sopra la soglia di pietra. Vedutala appena,
sursero tutti, e a sé vicina ciascun la chiamava.
Essa, però, sedere non volle; e cosí prese a dire:
«Stare non posso: devo recarmi alla terra d’Etiopia,
d’Ocèano sopra i gorghi: ché quivi prescelte ecatombe
offrono ai Numi; e parte devo io delle vittime avere.
Ma or vi prega Achille, che Borea, che Zefiro accorra
tumultuoso — compenso promette di vittime belle —
e che la fiamma eccitiate del rogo ove Pàtroclo giace,
per cui gemito adesso si leva da tutti gli Achèi».
Poi ch’ebbe detto cosi, s’involò. Si lanciarono quelli
con infinito tumulto, cacciando le nuvole in fuga.
Presto, soffiando, sul mare pervennero; e il flutto estuava
sotto lo stridulo soffio: pervennero a Troia ferace,
sopra la pira piombarono, e il fuoco rombò fiammeggiando.
Tutta la notte, insieme sferzar, della pira la fiamma,
acutamente soffiando: per tutta la notte il Pelide,
una gran coppa d’oro stringendo, da un’aurea brocca
vino attingeva, e al suolo spargeva, la terra irrigava,
lo spirito invocando del misero Pàtroclo. Come
si lagna un padre, quando d’un figlio le ceneri bagna,
fresco di nozze, ch’è morto lasciando i parenti nel pianto,
cosi, l’ossa bagnando di Pàtroclo, intorno alla pira,
si trascinava Achille, piangendo, levando alti lagni.
Arriva l’alba, e la pira si spegne. Achille dà istruzioni sulla sepoltura di Patroclo, e accenna anche alla sua sepoltura.

Quando Lucifero surse, che annunzia la luce alla terra,
e poi s’effonde Aurora dal peplo di croco sul mare,
andò languendo allora la pira, e la fiamma si spense.
Mossero tutti i venti di nuovo, tornarono a casa,
nel mar di Trada; e il flutto rigonfio gemeva furente.
Ed il Pelide allora si fece lontan dalla pira,
e stanco si chinò, sopra lui scese il sonno soave..
Si radunarono gli altri frattanto d’intorno all’Atríde,
e il loro calpestio, Io strepito, Achille riscosse.
E si levò l’eroe, sede’, cosí prese a parlare:
«Atride, e tutti voi, che principi siete d’Acaia,
tutti la pira prima spengete col fulgido vino,
dove la furia avvampò del fuoco. Di Pàtroclo l’ossa
raccoglier poi dobbiamo, del prode figliuol di Menezio,
bene scernendole: e facile è scernerle: in mezzo alla pira
giacciono quelle: gli altri bruciarono tutti in disparte,
uomini e destrieri, su gli orli confusi del rogo.
E dentro un vaso d’oro si pongan, fra duplice grasso
sinché non debba io stesso perire, nascosto nell’Ade.
Né troppo grande io voglio che il tumulo sia costruito:
tanto sia grande quanto per l’ossa di Pàtroclo basti.
Largo voi poscia un altro, potete, sublime innalzarne,
Achei che su le navi sarete quando io sarò morto».
Così! diceva; e pronti fur tutti gli Achivi ai suoi detti.
Spensero prima la pira col fulgido vino, dovunque
era avvampato il fuoco: giù fitta la cenere cadde;
e quindi, l’ossa bianche del mite compagno, piangendo,
entro una fiala d’oro raccolser, fra duplice grasso;
poi, nella tenda deposta, l’avvolser di candido lino.
Quindi tracciarono in giro la tomba, vicino alla pira,
gittàr le fondamenta, vi sparsero sopra la terra.
Achille indice i giochi funebri e stabilisce quali siano i premi per la gara dei carri, da cui lui si asterrà, perché ha cavalli divini. Nestore istruisce il figlio Antiloco.

Alzata poi la tomba, di li si partirono. E Achille
quivi trattenne le genti, dispose una lizza di gare,
ampia, dai suoi navigli recar fece i premii: lebèti,
tripodi, muli, cavalli, giovenchi di valida fronte,
donne, di zone cinte leggiadre, e cinereo ferro.
Fulgidi doni prima stabilì pei carri veloci.
A chi toccasse prima la mèta, una femmina bella,
sperta di bei lavori, e un tripode duplice d’ansa,
che ventidue misure capia. Stabili pel secondo
una giumenta, inesperta del giogo, pregnante d’un mulo,
giunta al sest’anno. Un lebète non tocco dal fuoco, pel terzo
bello, che quattro misure teneva, era candido ancora.
Poi due talenti d’oro stabili pel quarto: pel quinto,
un’urna ch’era ignara del fuoco, avea duplice l’ansa.
Poi surse in piedi, e queste parole agli Argivi rivolse:
«Atridi, e tutti voi, Achei dalle belle gambiere,
dei cavalieri in attesa schierati son qui questi premi.
Se per un altro, dunque, dovessimo correre in gara,
nella mia tenda il primo recare io potrei: ché sapete
di quanto i miei cavalli sugli altri prevalgono al corso,
perché sono immortali: Posidone in dono li diede
al padre mio Pelèo, Pelèo me li diede. Pertanto
io m’asterrò, con me resteranno anche i pronti corsieri,
poiché d’un tanto auriga perderon la nobile fama,
che mite era, che tanto sovente le loro criniere
tergea nell’onde chiare, spargeva di liquido ulivo.
Ed essi immoti adesso lo piangono, al suolo cosperse
son le criniere, entrambi stan fermi, col cruccio nel cuore.
Ma disponetevi tutti voialtri alla gara, chiunque
tra voi nei suoi cavalli confidi e nel solido carro».
Cosí disse il Pelide: si scossero i pronti guerrieri.
Primo balzò fra tutti, signore di popoli, Eumèlo,
d’Admèto il caro figlio, maestro a guidare cavalli.
E dopo lui, Diomede balzò, di Tidèo prode figlio,
che sotto il giogo i corsieri legò dei Troiani, che un giorno
tolse ad Enea: fu questi salvato per grazia d’Apóllo.
Il biondo Menelao poi surse, figliuolo d’Atrèo,
stirpe divina, al giogo legando i veloci cavalli,
Podarge, ch’era il suo, d’Agamènnone l’altra; il suo nome
era Aita; e data in dono l’aveva all’Atride Echepòlo
figlio d’Anchisia, perché Io lasciasse a godere i suoi beni,
senza condurlo a Troia: ché Giove concessa gli aveva
grande opulenza: abitava Sicione dall’ampie contrade:
or sotto il giogo l’addusse, fremente per brama di corse.
Antiloco apprestò per quarto i veloci cavalli,
di Nèstore signore, valente figliuol di Nelèo,
fulgido figlio. I suoi cavalli nati erano in Pilo,
ch’ivi traevano il carro. Vicino gli stava suo padre,
e l’ammoniva pel bene, per quanto ei già fosse assennato:
«Te prediligon, sebbene sei giovane, Antiloco, tanto,
Giove e Posidone, e sperto te resero d’ogni segreto
dell’arte equestre; e dunque, bisogno non c’è d’addestrarti.
Bene d’intorno alla mèta girare tu sai; ma son lenti
i tuoi cavalli; e temo perciò che ti facciano scorno.
Han gli altri più veloci cavalli, ma scaltri essi stessi
non sono più di te, che trovino astuzie migliori.
Orsù, diletto mio, riscuoti ogni specie d’astuzia
nel pensier tuo, perché sfuggir non ti debbano i premi.
Il boscaiòlo fa più con l’astuzia che non con la forza:
il navichier, con l’astuzia sovresso il purpureo ponto
guida la rapida nave, per quanto la sbattano i venti;
e con l’astuzia, l’auriga può vincere al corso l’auriga.
Chi nei cavalli suoi troppo invece confida e nel carro,
sbadatamente, di qua, di là, gira largo: i cavalli
sbandano al corso, fallito va l’esito. Invece, se pure
guida cavalli da meno, chi pensa al suo giòco, la mèta
sempre, tien d’occhio, e stretto fa il giro, né mai si smarrisce,
da quando prima al corso distese le briglie di cuoio,
chi lo precede sempre guardando, ed avanza sicuro.
E un segno dire poi ti voglio, e non devi scordarlo.
Un tronco secco c’è, che sporge da terra due braccia,
di quercia, oppur di pino, che mai non marcisce alla pioggia,
e da una parte e dall’altra poggiate due candide pietre,
dove s’incontran le vie: d’intorno è la via piana al corso:
la tomba essere deve d’un uomo da molto defunto,
oppure qualche mèta di gare già fu per gli antichi:
a mèta ora del corso l’ha posta il veloce Pelide.
Appressa a quella, quanto più possa, i cavalli ed il carro,
e piègati tu stesso sovressa la solida conca,
a manca dei cavalli. Un grido poi leva, e il cavallo
pungi di destra, e a lui sul collo la briglia abbandona:
passi il cavallo di manca rasente rasente alla mèta,
cosi che il mozzo sembri che v’abbia a cozzar della ruota
solida al sommo; ma vedi che urtare non debba la pietra,
ché offesi i corridori non vadano, e il carro spezzato:
ché gioia assai per gli altri, per te grave scorno sarebbe.
Dunque, diletto mio, fa’ senno, e sii bene guardingo:
perché se tu potrai passare, correndo, la mèta,
niuno sarà che, di dietro scagliandosi a te, ti raggiunga,
neppur s’egli a te dietro guidasse il divino Arfone,
d’Adrasto il pie’ veloce corsier, ch’era nato d’un Nume,
oppur quelli di Laomedonte, i migliori di Troia».
Detto cosi, sede’di nuovo il Nelide al suo posto,
poi che al suo figlio die’ d’ogni cosa precisi consigli.
Eumelo, partito in vantaggio, cade; Antiloco riesce a superare Menelao.
E Merióne aggiogò per quinto i criniti corsieri.
E poi, saliron tutti sui carri, e gittaron le sorti.
L’urne agitava Achille. Del figlio di Nèstore prima
usci la sorte: uscì seconda la sorte d’Eumèlo;
fu terzo Menelao, l’Atride maestro di lancia,
e Merióne dopo fu tratto, a guidare i cavalli:
ultimo usci Diomede, che era il migliore di tutti.
Stettero tutti in fila: la mèta del corso il Pelide
mostrò sopra l’uguale pianura, ed a guardia vi pose
Fenice, pari a un Nume, compagno del vecchio Pelèo,
perché vedesse il corso, potesse informarlo del vero.
Tutti ad un punto, allora le sferze levar sui cavalli:
le redini batteron sui dorsi, levarono gridi
per eccitarli; e quelli la via divoravano al piano,
scostandosi a gran furia dai legni. Sorgea come nube
alta di sotto í piedi la polvere, come procella,
e le criniere ondeggiavano, insieme coi soffi del vento.
E i carri, ora correvan rasenti alla terra feconda,
or si lanciavano a balzi nell’aria. Sui carri, gli aurighi
stavano in piedi; e il cuore balzava nel petto a ciascuno,
per brama di vittoria, ciascuno aizzava i corsieri:
quelli correvano a volo, coprendo di polvere il piano.
Or, quando poi del corso pervennero all’ultimo tratto,
presso il canuto mare, di nuovo palese il valore
parve d’ognuno: i corsieri lanciarono a corso disteso.
E le giumente allora balzarono prime d’Eumèlo:
secondi, del Tidide seguiano i cavalli troiani,
né eran troppo lungi da quelle, anzi molto da presso,
anzi sembrava via via che dovesser balzare sul cocchio,
e riscaldavan Eumèlo con l’alito gli omeri larghi,
poi che, correndo a volo, tenevan su lui le cervici.
E superato certo l’avrebbe, od almen pareggiato,
se non avesse Apollo rivolto il suo sdegno al Tidide:
ché dalle mani giù gli scosse la lucida sferza.
Lagrime caddero a lui lucenti dagli occhi, nell’ira,
allor ch’ei le giumente mirò sempre più dilungarsi,
e i suoi cavalli privi di stimolo, andare sbandati.
Ma non rimase ad Atena nascosto l’inganno d’Apollo,
e si lanciò veloce vicino al fígliuol di Tidèo,
ed una sferza gli die’, vigore gl’infuse ai cavalli.
Dietro al figliuolo poi d’Admèto balzò furiosa,
e il giogo alle giumente sul collo spezzò: le giumente
sbandarono qua e là, cozzò contro il suolo il timone,
e ruzzolò dal carro, lunghessa una ruota, egli stesso,
si lacerò tutte quante le gomita, il naso, la bocca,
la fronte si fendè sotto i cigli. Di lagrime gli occhi
furono colmi, in seno rimase la voce sonora.
E Diomede, alquanto da lato sviando i cavalli,
di molto innanzi a tutti si fece: ché Atena, vigore
nei suoi cavalli infuse, serbando per lui la vittoria.
Era a lui dietro il figlio d’Atrèo, Menelao chioma bionda;
e Antiloco ai cavalli del padre un comando rivolse:
«Lanciatevi anche voi! Stendetevi rapidi al corso!
lo non vi dico già che voi gareggiar coi cavalli
del figli di Tidèo guerriero dobbiate: ché Atena
infuse in quelli furia veloce, e per lui vuol la gloria.
Ma raggiungete i cavalli del figlio d’Atrèo, non vi fate
vincer da loro, no, ché non debba cospargervi d’onta
Aita, ch’è pur femmina. O cari, perché cosí tardi?
Io questa cosa vi dico, che certo vedrete compiuta:
Nèstore, il re Nelide, di voi non avrà cura alcufta,
anzi, v’ucciderà col lucido ferro all’istante,
se avremo solo un premio da poco per vostra negghienza.
Dunque, incalzate, quanto più correr potete, correte.
Io qualche accorgimento, nel punto ove angusta è la strada,
trovare ben saprò: non sarà che il momento mi sfugga».
Cosí diceva. E quelli, temendo la voce del sire,
per poco il corso precipitarono. E Antiloco, a un tratto
vide avvallare la via, vide schiudersi angusto il passaggio.
Vera una frana, dove la pioggia invernale raccolta
avea rotta la strada, scavando una fossa profonda.
Qui Menelao si diresse, schivare credendo il concorso
degli altri carri. Ma, poco traendo i cavalli di fianco,
fuor dalla strada, dietro gli corse di Nèstore il figlio.
Temé l’Atride allora, lanciò questo grido al rivale:
«Antiloco, da pazzo tu guidi: rattieni i cavalli.
Angusta è questa strada! Al largo potrai sorpassarmi:
vedi, che m’urti col carro, procacci il malanno d’entrambi».
Cosí disse. E ancor più col pungolo Antiloco al corso
spingeva i suoi cavalli: pareva che pur non udisse.
Quanto è d’un disco il tratto lanciato da valido braccio,
quando Io scaglia un uomo che prova le giovani forze:
tanto si corsero indietro l’un l’altro; ma infin, dell’Atride
stettero le giumente, ch’ei stesso rattenne le briglie,
ché non venissero al cozzo, giungendo alla stretta, i cavalli,
non ribaltassero i carri, piombar non dovessero a terra,
mentre la gloria andavan cercando, essi stessi gli aurighi.
Però questa rampogna scagliò Menelao chioma bionda:
«Antiloco, non c’è verun uomo di te più maligno.
Alla malora! A torto ti dicono saggio gli Achivi.
Ma il premio pur cosí non avrai, quando tu non spergiuri».
E, cosí detto, quindi rivolse parole ai cavalli:
«Non rallentate, non vi fermate, per cruccio che abbiate
si stancheranno prima le gambe ed i piedi di quelli,
che non i vostri: ché mancano a entrambi le giovani forze».
Cosí diceva. E quelli, del sire temendo la voce,
corser più ratti: sicché ben presto pur li ebbe raggiunti.
Stavano intanto adunati gli Argivi, guardando i cavalli;
e si lanciavano questi, coprendo di polvere il piano.
Per primo Idomenèo di Creta li vide arrivare,
ch’egli fuor della folla sedeva, più alto di tutti.
E riconobbe il grido del primo, sebbene lontano,
e riconobbe il cavallo, che agli altri correva dinanzi,
che fulvo era per tutte le membra, ed un segno rotondo
candido aveva sopra la fronte, a sembianza di luna:
onde in pie’ surse, e queste parole rivolse agli Argivi:
«Amici, e tutti voi, condottieri e signori d’Argivi,
io solo, od anche voi distinguete i cavalli all’arrivo?
Altri i cavalli sono che giungono primi, a me sembra:
il loro auriga, un altro mi sembra. O sciagura sul piano
alle giumente incolse che prime si mossero a corsa:
ché bene io l’ho da prima vedute lanciarsi alla mèta,
ed or più non le posso vedere, sebbene lo sguardo
su tutta la pianura di Troia a cercare rivolgo;
oppure al loro auriga sfuggiron le briglie, e frenarle
presso alla mèta non seppe, né il giro gli venne compiuto.
Io temo ch’egli li sia caduto, ed infranto il suo carro,
e le giumente sbandate, che furono invase da furia.
Ma su, dunque, anche voi sorgete, e guardate: ché bene
io non distinguo. Certo, d’Etolia mi sembra quell’uomo:
uno mi sembra dei re degli Argivi, il figliuol d’un eroe,
prode a domare corsieri, Tidèo: Diomede mi sembra».
E Aiace Oilèo, parole di sconcia rampogna gli volse:
«Idomenèo, che vai cianciando da un pezzo? Lontane
son le giumente ancora dal rapido pie’ su la piana:
ché non di tanto sei più giovane tu fra gli Achivi,
né del tuo capo gli occhi son tanto più acuti dei nostri.
Ma tu sempre di ciance ti pasci; e cianciar non dovresti
perché molti qui sono migliori di te: le cavalle
che vedi innanzi, sono le stesse di prima; ed Eumèlo
stesso è colui che dal carro le guida, e le redini stringe».
E a lui, pieno di sdegno, rispose il signor dei Cretesi:
«Aiace, prode in rissa, ma fiacco di testa, da meno
di tutti gli altri Argivi tu sei, perché tu sei scortese.
Su via, dunque, un lebète si metta ed un tripode in pegno,
giudice entrambi eleggiamo l’Atride Agamènnone: ei dica
quali cavalli sono mai questi, e tu impara a tue spese».
Disse. Ed in piedi balzò Aiace, il figliuol d’Oilèo,
pronto a rispondere, pieno di cruccio, parole d’oltraggio.
E fra quei due sarebbe di certo cresciuta la rissa,
se Achille stesso, surto fra loro, cosí non diceva:
«Non corrano tra voi più altre parole d’offesa,
o Aiace, o Idomenèo, né oltraggi; perché non è bene:
vi cruccereste anche voi, con un altro che questo facesse.
No, fra le turbe anche voi sedete, e restate a vedere.
Giungere qui ben presto vedrete i cavalli che al corso
contendon la vittoria: potrete distinguere allora
qual dei cavalli argivi vien primo, qual vien secondo».
Cosí disse. E il Tidide. già molto, avanzando, era presso,
sempre vibrando la sferza sul dorso ai cavalli; e i cavalli,
balzando alti dal suolo, la via divoravano in furia.
Ed investiano spruzzi di polvere sempre l’auriga,
e dietro ai pie’ veloci cavalli, giungeva, fulgente
d’oro e di stagno, il carro; né fonda restava l’impronta
delle volanti ruote sovressa la sabbia sottile,
di dietro al carro: tanto correvano a volo i cavalli.
Stette a la folla in mezzo: sgorgava in gran copia il sudore
dal collo a terra giù, dal petto ai veloci corsieri.
La gara dei carri viene vinta da Diomede; Antiloco è secondo, ma Menelao protesta perché dice che l’ha superato in modo scorretto. Poi vengono a patti.

E Diomede a terra balzò giù dal fulgido carro,
e presso il giogo poggiò la sferza. Né Stènelo prode
rimase inerte: senza tardare, balzò, prese il premio;
ed ai compagni la donna, ché via la guidassero, diede,
diede il tripode ansato: poi sciolse dal giogo i cavalli.
Antiloco Nelide secondo poi giunse col carro,
che fu di Menelao più veloce non già, ma più furbo:
eppure, anche cosi, Menelao gli era molto dappresso.
Tanto quanto è dalla ruota lontano un cavallo che al corso
per la pianura si stende, traendo il signore ed il carro,
che della ruota il cerchio la coda con gli ultimi crini
sfiora: egli corre, corre pur sempre, né cresce Io spazio
di mezzo, mai, per quanta pianura correndo percorra:
tanto l’Atride addietro restava ad Antiloco. Prima
v’era rimasto perfino quanta è la gittata d’un disco;
ma poi, l’avea ben presto raggiunto: ché della giumenta
bella del figlio d’Otrèo, d’Aita cresceva l’ardore:
ché se durava ancora di poco la gara del corso,
lo superava certo, né dubbia lasciava la gloria.
Ma Merióne, d’Idomenèo lo scudiere valente,
dietro era a Menelao quanta è la gittata d’un’asta:
ch’erano i suoi cavalli dal fulgido crine i più tardi,
e men sapea d’ogni altro guidare corsieri alla gara.
Ultimo giunse poi di tutti, il figliuolo d’Admeto,
che trascinava il bel carro, spingeva a sé innanzi i corsieri.
Lo vide Achille piedeveloce, e a pietà fu commosso,
e, tra gli Argivi surto, parlò queste alate parole:
«Ultimo il più valente sospinge i veloci cavalli.
Su, diamo un premio a lui, ché certo n’è degno, il secondo:
a Diomede il primo rimanga, al figliuol di Tidèo».
Cosí parlava; e a quanto diceva, dièr tutti consenso;
e, consentendo, gli Achei già stavan per dargli il corsiere,
se in pie’ surto non fosse di Nèstore il fulgido figlio,
che col Pelide Achille discusse, invocando il suo dritto.
«Assai mi cruccerò, Pelide, se poni ad effetto
quello che dici: ché tu t’accingi a levarmi il mio premio,
perché disgrazia offese il carro e i veloci cavalli
al valoroso Eumèlo. Pregare doveva i Celesti,
e non sarebbe allora per ultimo giunto alla gara.
Ma pur, se n’hai pietà, se tanto al tuo cuore è diletto,
nella tua tenda, d’oro c’è pure abbondanza e di rame,
greggi e cavalli sono di solido zoccolo, e schiave:
di qui prescegli, e un premio poi dagli, e sia pure maggiore,
o sùbito, se credi, se vuoi che ti lodin gli Achivi;
ma la giumenta io non cedo: con me si misuri per essa
chiunque meco voglia venire alla prova del braccio».
Cosí diceva. E Achille dai piedi veloci sorrise,
e si compiacque di lui, che gli era fedele compagno,
e a lui rispose, queste veloci parole gli disse:
«Antiloco, se vuoi che io dalla tenda ad Eumèlo
un altro dono rechi, disposto anche a questo ben sono:
l’usbergo io gli darò che tolsi ad Asteropèo:
esso è di bronzo, e un orlo vi corre di lucido stagno,
tutto d’intorno, a spire: presente sarà di gran pregio».
E, cosí detto, ad Automedonte, diletto compagno,
ordine die’ che l’usbergo recasse. Né l’altro fu tardo:
esso lo diede ad Eumelo, che molto del dono fu lieto.
Ma Menelao si levò fra loro, col cruccio nel cuore
ché contro Antiloco sempre fremeva di sdegno. L’araldo
lo scettro in man gli pose, die’ ordine poi che gli Argivi
tutti tacessero; e allora parlò quel divino signore:
«Antiloco, che prima saggio eri, che cosa facesti?
Al mio valore scorno facesti, ed impaccio ai cavalli,
gittando ad essi innanzi i tuoi che valevano meno.
Or pronunciate voi, condottieri e signori d’Argivi,
equo giudizio, senza protegger né l’uno né l’altro,
ché alcuno degli Achei loricati di bronzo, non dica:
— Con frode Menelao vinse Antioco, e torto gli fece,
e la giumenta gli prese: ché certo valevano meno
i suoi cavalli, ma più valido egli era e possente. —
Anzi, il giudizio io stesso vo’ compiere, e credo niun altri
biasimo darmi potrà dei Dànai, ché il giusto propongo.
Antiloco, su via, progenie di Dei, com’è giusto
mettiti al carro e ai cavalli dinanzi, ed in mano la sferza
stringendo, onde tu già guidasti a vittoria il tuo carro,
tocca i cavalli, e giura pel Nume che scuote la terra,
che fu senza volere l’inganno onde tu mi vincesti».
E a lui queste parole Antiloco saggio rispose:
«Abbi pazienza: ch’io di te son più giovane molto,
o Menelao: di potere mi superi tu, di prodezza.
E tu sai bene come dei giovani sono i trascorsi,
impetuose più le brame, ed il senno minore.
Dunque, il tuo cuore sia paziente; ed a te la cavalla
che m’ebbi, io renderò: ché se tu mi chiedessi altra cosa
anche maggiore, che a te regalarla dovessi del mio,
sùbito a te la darei, piuttosto che uscir dal tuo cuore
per sempre, o re, piuttosto che frangere ai Dèmoni il giuro.»
Si disse; e a Menelao di Nèstore il nobile figlio
die’ la giumenta. E allora il cuor del figliuolo d’Atrèo
si confortò, come quando rugiada s’effonde sui cólti,
quando è florida tutta la messe, irti i campi di spighe.
Si ristorò cosi, Menelao, l’alma tua nel tuo seno;
e, a lui rivolto, alate cosí le parole volgevi:
«Antiloco, ora, poi, voglio io stesso, sebbene crucciato,
cedere a te: ché stolto tu prima non eri, né folle.
La gioventù t’ha ora sviato. Ma tu d’ora innanzi,
schiva la frode con quelli che sono di te più valenti.
Niun altro degli Achei m’avrebbe si presto convinto;
ma tu molte hai durate fatiche, ed hai molto sofferto,
per causa mia, col prode tuo padre, col prode fratello.
Per questo alla tua prece mi piego; e ti do la giumenta
per giunta, ch’è pur mia: perché riconoscano tutti
che il cuore mio non è prepotente, che mai non è duro».
Disse. E a Noèmone quindi, compagno d’Antlloco, diede,
ché la recasse via, la giumenta. Egli prese il lebète:
i due talenti d’oro, li prese Merione, quarto
nel premio e nella corsa. Restava la gèmina tazza,
il quinto premio. Achille, recato lontan dagli Achivi
Nèstore, a lui la diede, volgendogli queste parole:
«Prendi, ché anche per te c’è un dono, e tu serbalo, o vecchio,
ché ti rammenti l’esequie di Pàtroclo, sempre: ché vivo
non lo vedrai mai più fra gli Argivi. Ti do questo premio,
senza far gara: ché tu né la lotta né i pubblici giochi
affronterai, né scagliare zagaglie, né gara di piedi:
ché troppo ormai su te s’aggrava la dura vecchiaia».
E, cosí detto, la coppa gli porse. Ben lieto il vegliardo
l’accolse, e a lui cosí rivolse l’alata parola:
«Si, tutto quello ch’ài detto mi parve opportuno, figliuolo,
ché salde non ho più le membra, né i piedi; e le mani
dagli omeri qua e là non più mi s’avventan leggere.
Giovine fossi cosi, cosí m’assistesse la forza,
come allorché gli Epèi sepolcro al sovrano Amarinche
dièro in Bupràsio, e gare pel re celebrarono i figli!
Qui, nessun uomo a fronte mi stette: nessun degli Epèi,
non dei magnanimi Etòli, neppure di quelli di Pilo.
Pugile io vinsi qui Clitomède figliuolo d’Enòpo,
e nella lotta Ancèo pleurònio che contro mi stette:
íficlo superai, per quanto valente, alla corsa,
e Polidoro e Filèo superai nel vibrar la zagaglia.
Coi destrieri, solo, mi vinsero d’Attore i figli:
vennero due contro uno: contesero a me la vittoria
invidiosi; ché ancora restavano i premii migliori.
Erano due gemelli: reggeva l’un d’essi le briglie,
ritto reggeva le briglie: sferzava il secondo i cavalli.
Tale una volta fui. Conviene ai più giovani adesso
tali cimenti affrontare: piegarmi all’esosa vecchiezza
ora me d’uopo: un giorno rifulsi però tra gli eroi.
Ma dunque, onora, su, con le funebri gare il compagno;
ed io con tutto il cuore gradisco il tuo dono, ed esulto,
ché dell’affetto mio sei memore; e mai non oblíi
l’onor che a me conviene prestar nell’esercito Achèo.
Possano i Numi darti compenso, qual meglio tu brami».
Cosí disse. E traverso le turbe d’Achivi, il Pelide
mosse, poi ch’ebbe tutto l’elogio di Nèstore udito.
Achille prepara i premi per la gara di pugilato. Si scontrano Epeo e Eurialo, e vince Epeo.

Qui, per la pugile gara crudele propose i compensi:
condusse, ed annodò nella lizza una mula gagliarda,
non doma, di sei anni, quand’è più penoso domarla.
E pose per chi fosse battuto una gèmina coppa;
e in piedi surse, e queste parole rivolse agli Achivi:
«Atridi, e tutti voi, Achei da le belle gambiere,
per questi premi, due campioni s’invitano a gara,
quelli che sanno meglio vibrare le pugna. E a chi Febo
dia che al cospetto di tutti gli Achivi, più a lungo resista,
torni alla tenda il mulo temprato ai travagli recando:
il vinto avrà compenso la coppa di gemine orecchie».
Cosí disse. E in pie’ surse un uomo gagliardo e membruto,
figlio di Pànope, Epèo, maestro del pugile gioco,
e su la forte mula posando la mano, proruppe:
«Dunque si faccia avanti chi brama la gèmina coppa;
ma niuno degli Achei presuma di avere la mula,
di vincerla coi pugni, ch’io sono il più forte di tutti.
Non è troppo di già ch’io sia men valente in battaglia?
Ma niuno dei mortali può essere in tutto maestro.
Ed io vi dico ciò che compiuto vedrete. Ben presto
fatto sarà ch’io gli ammacchi le polpe, e gli stritoli Tossa;
e accanto a lui raccolti rimangano tutti i suoi fidi,
perché lo portin via di qui, poi ch’io labbia atterrato».
Cosí diceva; e tutti rimasero senza parola.
Eurialo solamente si alzò, ch’era uguale ai Celesti,
figliuolo di Mecisto, del figlio del re Talaóne,
che giunse a Tebe il di che l’esequie d’Edipo defunto
si celebrava; e ottenne vittoria su tutti i Cadmèi.
Si adoperava a lui d’attomo il figliuol di Tidèo,
e gli faceva cuore, ché assai vincitor lo bramava.
Prima gli cinse al corpo d’intorno una fascia, e le guigge
poscia gli diede, bene tagliate, di bove selvaggio.
Cinte le fasce, entrambi si fecero in mezzo alla lizza,
l’uno di fronte all’altro, levando le mani gagliarde.
L’uno su l’altro piombò, si mischiaron le mani pesanti,
e orrendo un croscio fu di mascelle, e scorreva il sudore
giù dalle membra tutte. Quand’ecco, avventandosi, Epèo
mentre guatava qua e là, gli colpi la mascella; né quegli
resse più a lungo; e qui si fiaccaron le fulgide membra.
Come allorquando il mare s’increspa alla Bora, su l’alghe
balza del lido un pesce, che poi negro il flutto nasconde:
tale il colpito balzò. Ma le mani il magnanimo Epèo
per rialzarlo stese. Gli furono intorno i compagni,
e lo condussero via, che livido sangue sputava,
e strascicava i pie’, penzolandogli il capo da un lato.
In mezzo a loro, privo di sensi lo fecer sedere,
e presero, e vicino gli poser la gemina coppa.
Terza gara: lotta. Aiace e Ulisse finiscono in parità

La terza gara allora propose il figliuol di Pelèo,
della penosa lotta, mostrandone i premii agli Argivi.
Pel vincitore offerse un tripode grande, da fuoco,
a cui davano il prezzo gli Argivi di dodici buoi:
per lo sconfitto poi, come premio, una femmina pose
che sperta era di molti lavori, e valea quattro bovi.
Poi surse in piedi, e queste parole rivolse agli Argivi:
«0 voi che in questa gara volete provarvi, sorgete!».
Cosí diceva. E Aiace figliuol di Telàmone surse,
e poi lo scaltro Ulisse, maestro sottile d’inganni.
Cintisi entrambi i fianchi, si fecero in mezzo alla lizza,
e l’un l’altro nel cerchio stringea delle braccia gagliarde,
simili ai travi che a incastro connette un artefice insigne
in vetta ad una casa, chc servano a schermo dei venti.
E crepitarono i dorsi, battuti con dure percosse
dalle gagliarde mani, scorreva pei dorsi il sudore,
e lividure fitte parevano, brune di sangue,
sopra le spalle e sui fianchi. Né aveva mai tregua la lotta,
ché contendevan gli eroi per vincere il tripode bello.
Né pur poteva Ulisse scrollare né abbattere Aiace,
né pur poteva Aiace prostrare la forza d’Ulisse.
Ma quando tedio ornai vinceva i guerrieri d’Acaia,
il Telamonio Aiace cosí favellava ad Ulisse:
«Ulisse, o molto scaltro divino figliuol di Laerte,
sollevami ora, ed io te sollevo; e sia giudice Giove».
E, cosí detto, lo alzò. Né Ulisse obliò le sue frodi,
ma lo colpí sul garretto di dietro; e gli sciolse le forze,
sí che rovescio cadde. Gli cadde anche Ulisse sul petto:
stavano intanto, tutte stupite, a guardare le genti.
Ulisse poi, tentò sollevare di terra il rivale,
e lo scrollò di tanto, né pure potè sollevarlo.
Tra le ginocchia allora gli pose un ginocchio: un su l’altro
caddero a terra giù, s’imbrattaron di polvere entrambi.
E già, balzati in pie’, venivano al terzo cimento,
se non sorgeva Achille, che allor li rattenne, che disse:
«Non contendete più oltre, non vada più oltre l’affanno.
D’entrambi è la vittoria. Prendetevi uguale compenso,
ed ite; ch’altri Achei misurare si possano in gara».
Cosí diceva; e quelli facevan cosí com’ei disse;
e, via scossa la polve, di nuovo indossarono i manti.
Quarta gara: corsa.

Ed il Pelide allora propose altri premii pel corso:
bene foggiato un cratère d’argento: tenea sei misure,
e superava ogni altro su tutta la terra in bellezza,
ché con gran cura allestito l’avevano i Sidoni industri
ed i Fenici portato l’avean su l’aereo ponto,
nei porti esposto; e poi, ne fecero dono a Toante:
Eunio, poi, di Giasone figliuolo, a riscatto del figlio
di Priamo, Licaòne, a Pàtroclo dato l’aveva.
E Achille allor lo pose qual premio dei funebri ludi,
a chi più si mostrasse veloce negli agili piedi.
Un grande bove pingue di grasso fu il premio secondo:
mezzo talento d’oro fu il premio serbato pel terzo.
E in piedi surto Achille, cosí si rivolse agli Argivi:
«Vengano avanti quelli che affrontano questo cimento».
E balzò primo Aiace veloce, figliuol d’Oilèo,
poscia lo scaltro Ulisse: fu terzo di Nèstore il figlio.
Antiloco, il più pronto, fra i giovani tutti, alla corsa.
Stettero in fila, e Achille la mèta segnò della gara.
E dalle sbarre a corsa si mossero. E presto alla testa
Aiace Oilèo si mise: Ulisse veniva secondo,
che l’incalzava da presso, cosí come il pettine al seno
di femmina che tesse, quando ella a sé presso lo tira,
traendo a forza il filo lontan dalla trama, ed al petto
vicino: tanto Ulisse correva dappresso ad Aiace,
e ne calcava, pria che sorgesse la polvere, Forme.
E su la nuca il fiato Ulisse divin gli alitava,
sempre correndo in furia: gridavan gli Achivi acclamando,
e l’eccitavano, mentre già tanto era pieno d’ardore.
Ma quando erano già per compiere l’ultimo giro,
una preghiera Ulisse rivolse dal cuore ad Atena:
«Odimi, o Diva: infondi, benigna, vigore ai miei piedi».
Cosí disse pregando. L’udì l’occhicerula Diva,
e rese a lui leggere le membra, le mani ed i piedi.
E quando erano già vicini a raggiungere i premii,
Aiace sdrucciolò, ché inciampo la Diva gli pose,
dov’era in terra sparso lo sterco dei bovi muggenti,
che aveva quivi uccisi per Pàtroclo Achille divino.
Quivi di fimo di bove la bocca s’empie’ , le narici;
ed il cratère Ulisse divino tenace si prese,
ché primo giunse. Aiace fulgente si prese il giovenco.
E stette, un corno in pugno del bove selvaggio stringendo,
sputando il fimo; e queste parole rivolse agli Achivi:
«Ahimè, ché inciampo ai piedi mi pose la Diva, che sempre
come una madre ad Ulisse sta presso, e gli porge soccorso!»
Disse; e soave riso volò su le bocche di tutti.
Poscia Antiloco venne, ché l’ultimo premio fu suo;
e rise, e queste volse parole ai guerrieri d’Acaia:
«Vi posso dire, amici, sebbene già voi lo sapete,
che sogliono i Celesti proteggere gli uomini anziani.
Aiace è di pochi anni soltanto di me più maturo;
ma questi è d’un’età già trascorsa, di gente più antica:
lo chiamano vecchiotto rubizzo; ma vincerlo al corso
è prova molto dura per tutti gli Achei, tranne Achille».
Cosí diceva, glorificando il veloce Pelide.
E a lui rispose Achille, gli volse cosí la parola:
«Non sarà detto che tu lodato m’avrai senza premio:
mezzo talento d’oro per giunta tu, Antiloco, avrai».
E, si dicendo, a lui lo diede; ed ei lieto l’accolse.
Quinta gara: duello. In palio c’è la spada che Achille tolse ad Asteropeo. Se la aggiudica Diomede, che vince contro Aiace Telamonio.

Poscia il Pelide una lancia recò che gittava lunga ombra,
e nella lizza la pose, pose anche un elmetto e uno scudo,
Tarmi di Sarpedonte, da Pàtroclo un giorno spogliato;
e, stando in piedi, queste parole rivolse agli Achivi:
«Bramo che due guerrieri, quei due che si senton più forti,
l’arme indossate, il bronzo tagliente nel pugno stringendo,
facciano prova l’un dell’altro dinanzi al consesso.
E chi primo le membra dell’altro disfiori, e colpisca
le visceri, passando per l’armi e pel livido sangue,
io gli darò questa spada di Tracia, di chiovi d’argento
ornata, bella: un giorno la tolsi ad Asteropèo.
Prendano entrambi poi, si spartiscano l’armi fra loro;
e nelle tende avranno per giunta un lauto banchetto».
Disse. Ed Aiace primo balzò, di Telàmone il figlio,
e Diomede secondo, gagliardo figliuol di Tidèo.
E poi ch’entrambi armati si furon lontan da la folla,
in mezzo l’uno e l’altro si fecer, bramosi di pugna,
lanciando fieri sguardi: gli Achivi stupirono tutti.
E quando l’un su l’altro movendo, già erano presso,
tre volte si lanciarono, tre si azzuffàr corpo a corpo.
E quivi, Aiace il colpo vibrò su lo scudo rotondo,
ma non raggiunse la pelle, ché schermo faceva l’usbergo.
E Diomede, sempre, di sopra all’immane palvese,
spingeva verso il collo la punta dell’asta lucente.
E, paventando allora gli Achei per la vita d’Aiace,
gridar che fine avesse, con pari compenso, l’agone.
E poscia Achille die’ la fulgida spada al Tidide:
con la guaina a lui, col bàlteo bello la porse.
Sesta gara: lancio del disco. Vince Polipete.

Poscia un gran globo di ferro non pur lavorato, il Pelide
pose alla gara. Un tempo Etione soleva scagliarlo.
Ma poscia Achille, piedeveloce, gli diede la morte,
e nella nave portò, con gli altri suoi beni, anche il disco.
In piedi stette, e queste parole rivolse agli Argivi:
«Sorgano tutti quelli che voglion provar questa gara:
ché s’egli avrà remote di molto le pingui sue terre,
potrà di questo globo servirsi cinque anni di filo:
mai non sarà che privo di ferro pastore o aratore
debba recarsi in città: ché sempre ei potrà provvederlo».
Cosí diceva. E primo balzò Polipète guerriero:
quindi Leonte, ch’era gagliardo, che un Nume sembrava,
e Aiace Telamonio: fu ultimo Epèo, pari ai Numi.
Stettero tutti in fila. Epèo prese primo il gran masso,
lo mulinò, lo scagliò: corse un riso fra tutti gli Achivi.
Secondo lo scagliò Leonte, rampollo di Marte;
e terzo lo avventò di Telàmone il figlio possente,
dalla gagliarda mano, passando oltre i segni degli altri.
Ma quando prese poi Polipète guerriero il gran masso,
sì lo scagliò come suole scagliare un bifolco il vincastro,
che roteando vola traverso le mandre dei bovi.
Di tanto ei vinse gli altri: gridarono tutti, stupiti.
Di Polipète gagliardo levatisi allora i compagni,
il premio del sovrano recarono ai concavi legni.
Settima gara: tiro con l’arco. Vince Merione contro Teucro.

Poi, violaceo ferro depose, compenso agli arcieri.
dieci bipenni nel mezzo del campo ei posò, dieci scuri.
E l’albero piantò d’una nave cerulea prora,
sopra la sabbia lontana: pel piede a una fune sottile
trepida colombella legò, la propose alla mira:
«La trèpida colomba di voi chi riesca a colpire,
abbiasi tutte le dieci bipenni, ed a casa le rechi:
chi la colomba poi fallisca, e colpisca la fune,
poiché sarà sembrato da meno, si tenga le scuri».
cosi’ diceva’. E surse la forza di Teucro sovrano,
e Merióne poi, d’Idòmene prode scudiere.
Preser le sorti, e in un elmo di bronzo le scossero. E primo
Teucro fu dalla sorte prescelto; e lanciò con gran forza
la freccia; ma non fece promessa ad Apollo che offerta
avrebbe a lui d’agnelli pur nati una insigne ecatombe;
e la colomba fallì: ché la gloria a lui Febo contese:
colpi, rasente al suolo, la fune che il piede stringeva,
e allora, si lanciò la colomba, alta al cielo, e la fune
lenta ricadde a terra: levarono un grido gli Achivi.
L’arco di mano allora Merione in fretta gli tolse:
da un pezzo il dardo in pugno stringea, mentre l’altro tirava;
e senza alcuno indugio, promise ad Apolline Febo
che gli offrirebbe d’agnelli pur nati una insigne ecatombe.
La trepida colomba volava fra i nuvoli a spira:
Merione la mirò, la colpi sotto l’ala, nel petto.
Passò da parte a parte la freccia, ed a terra ricadde,
si conficcò nel suolo dinanzi ai suoi pie’ . La colomba
su l’albero posò della nave cerulea prora,
lasciò pendere il collo, giù caddero entrambe anche l’ali,
e dalle membra volò lo spirito presto: e lontana
poi procombe’. Mirando, stupirono tutte le genti.
E Merióne allora si prese le dieci bipenni,
e Teucro portò nei concavi legni le scuri.
Ottava gara: tiro con la lancia. Il premio viene assegnato ad Agamennone senza bisogno di gareggiare.

Ed il Pelide una lancia posò che gittava lunga ombra,
ed un lebète intatto dal fuoco, ed inciso di fuori,
premio alla gara; e in pie’ si levaron maestri di lancia.
Surse Agamènnone primo, possente figliuolo d’Atrèo,
poi Merióne surse, d’Idòmene il prode scudiere.
E allora ad essi queste parole rivolse il Pelide:
«Atride, noi sappiamo di quanto tu superi tutti,.
sappiam che tutti vinci di forza, se vibri la lancia.
Prènditi dunque, e reca sui concavi legni il lebète,
e della lancia il premio sia dato all’eroe Merióne,
se questo pure a te gradisca: ché io lo propongo».
Cosídisse; e fu lieto Agamènnone, sire di turbe:
diede egli stesso al prode Merione la lancia di bronzo:
l’eroe diede all’araldo Taltibio il bellissimo dono.
Finiti i giochi funebri, tutti vanno a riposare, ma Achille piange ancora Patroclo; infierisce ancora sul cadavere di Ettore, facendogli fare tre giri attaccato al carro. Apollo è mosso a compassione di Ettore, e alla fine convince anche gli altri dei che è meglio che Achille renda il corpo di Ettore a suo padre Priamo. Giove perciò fa convocare Teti, per comunicarle questa decisione.
Fine ebbe allor la gara, si sparsero tutte le genti,
ciascuno alla sua nave. Pensarono gli altri alla mensa,
tutti, a godere il sonno soave. Soltanto il Pelide,
pensando al suo compagno diletto, piangeva, né il sonno
che tutti vince, lui vinceva. Qua, là, si voltava,
pensando il gran valore di Pàtroclo e il baldo coraggio,
e quante imprese aveva compiute, e dolori sofferti
con lui, guerre affrontando, solcando gl’infidi marosi.
Pensando a tutto ciò, versava amarissimo pianto,
ora giacendo sul fianco, volgendosi poscia supino,
poscia bocconi; e talora, levandosi in piedi, girava,
pieno di smania, lungo la spiaggia del mare. L’Aurora
non gli sfuggiva, però, quando il mare imbiancava alla spiaggia;
ma dopo avere al giogo costretti i veloci cavalli,
Ettore dietro al carro legava; e poiché trascinato
per tre volte l’avea di Pàtroclo intorno alla tomba,
di nuovo alla sua tenda tornava, ed il corpo lasciava
steso bocconi dentro la polvere. E Apòlline allora,
mosso a pietà dell’eroe, sebbene defunto, il suo corpo
d’ogni bruttura tergea, lo cingeva con l’ègida d’oro,
mentre ei lo trascinava, perché straziato non fosse.
Nella sua furia, cosi, strazio d’Ettore Achille faceva.
E n’ebbero pietà, vedendolo, i Numi d’Olimpo,
e invito all’Argicida facevan, perché lo involasse.
Fu tale avviso a tutti gradito; ma spiacque alla sposa
di Giove, e all’occhiazzurra Fanciulla, e al Signore del ponto:
serbavano essi l’ira concetta contro Ilio, ed il sire
Priamo, e la gente d’Ilio, per colpa di Pàride, quando
egli le Dive offese, venute a cercarlo all’ovile,
e quella esso prescelse che offerta gli fe’ del piacere.
Or, poi che da quel giorno spuntarono dodici aurore,
Apollo Febo queste parole rivolse ai Celesti:
«Tristi voi siete, o Dei, maligni: non v’arse abbastanza
Ettore un giorno cosce di bovi e di capre perfette?
Or non vi basta il cuore, neppur dopo morto, a salvarlo,
si che la sposa lo veda, lo vedano il figlio e la madre,
e Priamo il padre, e tutta la gente di Troia, che il corpo
presto arderebbero, e a lui renderebbero pubblici onori.
Ma sempre aiuto, o Numi, voi date al crudele Pelide,
che pur, viscere umane non ha, non ha cuore nel petto
che si commuova: egli ha d’un leone l’istinto selvaggio,
che, come lo consiglia l’intrepido cuore e l’immane
forza, sovresse le greggi s’avventa, per farne suo pasto:
similemente, Achille pietà non ha più, né ritegno
che pei mortali è fonte di mali ed è fonte di beni.
Altri, sovente, persona più cara perde’ d’un amico,
od un fratello nato da un grembo medesimo, o un figlio,
eppur, quando esso ha pianto, gemuto, si placa alla fine:
ché paziente cuore concesser le Parche ai mortali;
Ma questi, sempre al carro legato trascina il divino
Ettore, al carro stretto, di Pàtroclo intorno alla tomba;
e questo scempio, a lui non giova, né onore gli rende.
Badi che l’ira nostra su lui, benché prode, non piombi:
ché terra muta è quella ch’ei va furioso oltraggiando».
Era crucciata rispose, la Diva dall’omero bianco:
«Certo diresti bene, signore dall’arco d’argento,
se ad Ettore e al Pelide voi date il medesimo onore;
ma Ettore è mortale, succhiò d’una femmina il latte,
e Achille è d’una Dea figliuolo, ch’io stesso allevai,
io nutricai, la diedi consorte ad un uomo mortale,
Pelèo, tanto ai Celesti diletto. E voi tutti alle nozze
foste presenti, o Numi. Tu pur banchettavi fra loro,
con la tua cetra, o tu amico dei tristi, o tu sempre malfido».
E a lei di Crono il figlio, che i nugoli aduna, rispose:
«Era, non ti crucciare cosí contro tutti i Celesti.
Uguale non sarà d’entrambi l’onore. Ma caro
Ettore anch’egli fu su tutti i Troiani ai Celesti,
caro a me fu; ché privo non mai mi lasciò dei miei doni:
mai vuota l’ara mia non restò della debita parte
di libagioni e d’ostie: ché questo è l’onor che ci spetta.
Ora io consentirò che d’Ettore ardito la salma
venga sottratta ad Achille. Ma far non si può di nascosto,
ché presso notte e giorno sua madre a lui resta, e lo assiste.
Ma su, qualcun di voi dica a Teti che venga a me presso,
perché da me riceva un saggio consiglio: che Achille
doni da Priamo accetti, disciolga dal carro il suo figlio».
Iride va a chiamare Teti, e Teti corre presso Achille per convincerlo ad accettare i doni che gli porterà Priamo e a cedere il corpo di Ettore. Achille accetta.

Cosí diceva. Ed Iri, la diva dal pie’ di procella,
corse a recare il messaggio. Tra Samo ed Imbro rocciosa,
giù negli abissi balzò del pelago, simile a un piombo
che, penduta dal corno d’un bove selvatico, scende
giù giù nel mare, ai pesci voraci recando la morte.
E Tètide trovò dentro un concavo speco; e d’intorno
stavano l’altre Dive del pelago; ed essa, nel mezzo,
del puro suo figliuolo piangeva il destino, che morte
trovar doveva in Troia ferace lontan dalla patria.
Iri dai pie’ veloci vicina le stette, e le disse:
«Tètide, sorgi! Giove ti chiama, il supremo dei Numi!».
E Tèti a lei rispose, la Dea dall’argenteo piede:
«Perché dunque mi chiama, quel Nume possente? Ho ritegno
di mescolarmi ai Numi, ch’io soffro dolori infiniti.
Ma pure, andrò; né vana sarà la parola ch’ei disse».
Detto cosi, la Dea fra le Dive, si cinse d’un velo
bruno, che veste alcuna non c’era più bruna di quella,
e mosse. Ed Iri innanzi, la Diva dai piedi di vento,
erale guida; e d’attorno s’aprivano i flutti del mare.
Sopra la spiaggia poi venute, balzarono al cielo.
L’onniveggente Cronide trovarono; e tutti d’intorno
stavano gli altri Numi raccolti, che vivono eterni.
Atena il posto allora cedette; e sede’ presso Giove
Tètide; ed Era offerta le fece d’un calice d’oro,
cortese le parlò. Bevve Tèti, poi rese la coppa.
E allora favellò degli uomini il padre e dei Numi:
«Tètide, tu sei giunta, sebbene crucciata, all’Olimpo,
inconsolabile doglia chiudendo nel cuor, lo so bene.
Ma tuttavia, ti dirò perché qui t’ho fatta chiamare.
Da nove giorni è sorto contrasto fra i Numi immortali.
D’Ettore n’è cagione la salma, ed Achille Pelide.
Alcuni all’Argicida chiedevan che il corpo involasse;
ma io ben altro vanto concedere voglio ad Achille,
ché l’amicizia sua, l’amor, vo’ che sempre mi resti.
Sùbito al campo va’, tal mònito reca a tuo figlio:
che sono irati i Celesti, ed io più di tutti i Celèsti
sono sdegnato, perché, nella furia che il cuore gl’invade,
non scioglie Ettore, e presso le concave navi lo tiene.
Vedi s’egli abbia di me reverenza, se Ettore sciolga.
Ed Iri manderò, che al magnanimo Priamo imponga
recarsi ai curvi legni d’Acaia a disciogliere il figlio,
doni ad Achille recando che possano il cuore blandirgli».
Disse cosi. Né fu tarda la Dea dall’argenteo piede,
ma con un balzo, giù s’avventò dalle cime d’Olimpo,
giunse alla tenda del figlio. Gemeva e piangeva il Pelide
dirottamente; e a lui d’intorno, i diletti compagni
erano tutti in faccende, la cena apprestando: immolata
entro la tenda una pecora avevano grande villosa.
A lui sede’ vicino vicino la madre divina,
gli fece una carezza, lo chiamò per nome, gli disse:
«0 figlio mio, sino a quando, gemendo cosi, dolorando,
il cuor ti roderai, senza al cibo pensar, né all’amore?
Con una donna è pure soave allacciarsi in amore:
ché non mi camperai troppo a lungo, figliuolo, ma presto
saranno sopra te la Morte ed il Fato possente.
Ma presto dammi retta, ché io giungo aralda di Giove.
Dice che i Numi sono crucciati e più ancora dei Numi,
egli è sdegnato, perché nella furia che il cuore t’invade,
non sciogli Ettore, e presso le concave navi lo tieni.
Su via, scioglilo, e accetta pel corpo defunto il riscatto».
E Achille, eroe dai piedi veloci, cosí le rispose:
«E sia cosi. Compensi mi rechi, e il cadavere prenda,
se veramente questo desidera e impone il Cronide».
Entro il recinto cos! delle navi, la madre e il figliuolo
stavano l’un con l’altro scambiando veloci parole.
Giove manda Iride da Priamo per dirgli di andare a riscattare il corpo di Ettore. Priamo si consulta con sua moglie Ecuba, che teme per la sua vita. Ma lui vuole partire; prepara i doni per Achille e dice ai figli di metterli sul carro.

E Giove Iri riandò, la Dea velocissima, a Troia:
«Iri veloce, va’, le vette d’Olimpo abbandona,
e, giunta ad Ilio, Priamo cuore magnanimo, esorta
che vada ai curvi legni d’Acaia, e riscatti suo figlio,
doni ad Achille recando che possano il cuore blandirgli;
e solo vada, e niuno con lui dei Troiani si rechi.
Solo un araldo vada più vecchio di lui, che i muletti
guidi, ed il carro di ruote veloci, e di nuovo alla rocca
rechi di Troia il corpo che Achille Pelide trafisse.
Né della morte accolga timore, né d’altro malanno:
tale un compagno a lui darò: l’Argicida, che guida
gli sia, finché non l’abbia condotto vicino ad Achille.
E poi ch’entro la tenda condotto l’avrà, né il Pelide
il veglio ucciderà, né ch’altri gli rechi alcun danno
consentirà: ché sciocco non è, né imprudente, né empio:
ogni rispetto avrà dell’uomo che supplice piange».
Disse. E al messaggio balzò la Diva dai pie’ di procella
e giunse a Priamo. E qui trovò solo pianto e lamento.
D’intorno al padre, i figli sedevano dentro la corte,
bagnavano di pianto le vesti; e fra loro il vegliardo
tutto ravvolto stava, nascosto nel manto; e bruttava
molta lordura il collo, la testa del vecchio: egli stesso
con le sue mani raccolta l’avea, voltolandosi a terra.
E per la casa, le figlie, le suore, levavano pianto,
per la memoria dei loro diletti, che molti, che prodi,
giacean caduti, spenti per man degli argivi guerrieri.
Vicina a Priamo stette di Giove l’aralda, e parole
gli volse a bassa voce: d’un trèmito il vecchio fu còlto.
«Fa’ cuore, Priamo figlio di Dàrdano. A che ti sgomenti?
Non vengo io qui per danno ch’io veda che debba seguirti,
ma cerco il bene tuo. Di Giove io ti reco un messaggio,
che ha cura e pietà di te, benché tu sei lontano.
T’impone ora l’Olimpio che Ettore a scioglier tu vada,
doni ad Achille recando che possano il cuore blandirgli,
e solo vada, e niuno con te dei Troiani si rechi.
Solo un araldo venga più vecchio di te, che i muletti
guidi, ed il carro di ruote veloci, e di nuovo alla rocca
porti di Troia il corpo che Achille Pelide trafisse.
Né te di morte colga timore, né d’altro malanno:
tale un compagno a te darà: l’Argicida, che guida
ti sia, finché condotto non t’abbia vicino ad Achille.
E poi ch’entro la tenda condotto t’avrà, né il Pelide
a te morte darà, né ch’altri alcun danno ti rechi
consentirà: ché sciocco non è, né imprudente né empio:
ogni rispetto avrà d’un uomo che supplice giunge».
Detto cosi, parti la Diva dai piedi veloci.
Ed esso ai figli impose che un carro da muli veloce
mettessero in arnese, ponesser sovra esso una cesta.
Ed egli poi discese nel talamo tutto fragrante,
alto, di legno di cedro, che molti chiudeva tesori,
ed Ecuba chiamò, la diletta sua sposa, e le disse:
«0 poverina, da parte di Giove me giunto un messaggio,
ch’io degli Achivi ai legni mi rechi e riscatti il figliuolo,
doni ad Achille recando che possano il cuore blandirgli.
Or questo di’: che cosa ti par che decidere io debba?
Per me, troppo la brama, la smania che m’arde, mi spinge
ch’io nell’esteso campo d’Acaia alle navi mi rechi».
Si disse. E in pianto ruppe la donna, e cosí gli rispose:
«Ahimè!, dove il tuo senno svaní, che pur celebre un giorno
te fra gli estranii rese, fra quei che ti chiamano sire?
Andar come vuoi tu soletto alle navi d’Acaia,
andare sotto gli occhi dell’uomo che tanti figliuoli
giovani e prodi t’uccise? Davvero, il tuo cuore è di ferro!
Ché s’ei ti piglierà, non appena ti avrà sotto gli occhi,
crudo ed infido qual’è, di te non avrà compassione,
rispetto non avrà. Piangiamolo, via, da lontano,
restando entro la casa: ché quando lo diedi alla luce,
per lui fiero Destino tal sorte segnò, ch’ei dovesse
sfamare i pronti cani, lontano dai suoi genitori,
presso ad un uomo feroce. Il fegato a mezzo azzannargli
potessi, e divorarlo! Compiuta così la vendetta
del figlio mio sarebbe. Ché questi non cadde da vile,
ma pei Troiani pugnò, per le femmine belle troiane,
senza che a fuga pensasse, pensasse a schivare la morte».
E il vecchio Priamo a lei rispose con queste parole:
«Non trattenermi quand’io voglio andare, non fare l’uccello
del malaugurio in casa, ché già, non puoi farmi convinto.
Se consigliato a me l’avesse qualcun dei mortali,
quanti indovini, sono, o aruspici, oppur sacerdoti,
creder potremmo a un inganno, staccarci dai loro consigli;
ma or ch’io stesso ho udita la Dea, con questi occhi l’ho vista,
andrò, né invano avrà parlato; e se vuole il destino
ch’io muoia presso ai legni d’Acaia, a morire son pronto:
subitamente Achille m’uccida, quando io tra le braccia
stretto abbia pur mio figlio, sfogata la brama del pianto».
Cosí disse; e i coperchi dischiuse dei cofani belli.
Di qui dodici pepli, fra tutti i più belli, trascelse,
con dodici mantelli d’un doppio, e altrettanti tappeti,
dodici manti grandi, con dodici tuniche; ed oro
su la bilancia pose, ne prese ben dieci talenti,
e due tripodi, tutti fulgenti, con quattro lebèti,
e una bellissima tazza che data g’i avevano i Traci,
un di che ad essi ei giunse messaggio; e valeva un tesoro;
ma neppur questa volle serbare il vegliardo: tal brama
avea di riscattare suo figliolo. E scacciò dalla corte
tutti i Troiani; e ad essi rivolse parole d’oltraggio;
«Andate via di qui, svergognati importuni! Vi manca
forse da piangere a casa, che qui mi venite a crucciare?
O non vi basta forse che Giove mi die’ questo strazio
che il figlio mio perdessi, che era fra tutti il più prode?
Ben presto lo dovrete sapere anche voi: ché agli Atridi
preda sarete, adesso ch’è spento, più agevole molto.
Ma io prima che debba veder con questi occhi distrutta
e messa Troia a sacco, vo’ scendere ai regni d’Averno».
Dicea cosi, con lo scettro facendosi largo; e la turba
usci dinanzi al vecchio che andava di furia. Ed ai figli
questi die’ un grido, ad Èleno, a Paride, al divo Agatone,
a Pàmmore, ad Antifone, prode guerriero, a Polite,
a Deifobo, a Divo mirabil di forme, ad Ippòte.
A questi nove il vecchio die’ ordini, alzando la voce:
«Tristi figliuoli, infingardi, sbrigatevi, su! Deh, se invece
d’Ettore, tutti voi foste morti vicino alle navi!
Oh, poveretto me, che diedi alla vita figliuoli
nell’ampia Troia insigni, né in vita pur uno è rimasto,
Mèstore simile ai Numi, e Tròilo, signor di segugi,
ed Ettore, che un Dio parea tra i mortali, che figlio
no, non pareva d’un uomo mortale, bensí d’un Celeste.
Marte li uccise tutti, sol restano questi codardi.
tutti menzogna e balli, ché sono maestri a danzare,
maestri a fare preda, fra il popol, d’agnelli e capretti.
Non vi volefe dunque sbrigare? Allestitemi il cocchio,
e tutta questa roba metteteci: io debbo affrettarmi».
Disse cosi. Sbigottiti pei gridi del padre, i figliuoli
trassero fuori il carro da muli di ruota veloce,
bello, costrutto da poco, sovr’esso legarono il cesto.
Via dal puntello poscia sfilarono il giogo da muli,
umbilicato, bello, provvisto d’un duplice anello,
e insiem trasser la cinghia del giogo, che avea nove braccia.
Poscia, sul ben levigato timone posarono il giogo,
sopra la punta estrema, il cerchio infilar nel puntale,
su l’umbilico tre volte legaron da entrambe le parti
la cinghia, in tutto punto, piegarono indietro il fermaglio.
Poscia, dal talamo fuori recato il riscatto infinito
d’Ettore, sopra il carro lucente lo posero, e al giogo
strinsero i muli poi, gagliardi, dall’unghia robusta,
che a Priamo un giorno i Misii recarono, doni fulgenti.
Quindi i cavalli per Priamo legarono al giogo che il vecchio
solea di propria mano nutrir nella fulgida greppia.
Nella dimora eccelsa facevano i carri aggiogare
cosi Priamo e l’araldo, assorti nei gravi pensieri.
Ecuba dice al marito di offrire libagiorni e preghiere a Giove. Giove fa apparire un’aquila come segno di buon auspicio, e Priamo allora parte.

Ed ecco, presso a loro si fece, col cuore crucciato,
Ècuba; e vin più dolce del miele in un calice d’oro
con le sue mani offrì, ché libassero pria di partire.
Stette dinanzi ai cavalli, parlò queste alate parole:
«Tieni, ed a Giove liba, perché dalle genti nemiche,
tornar ti faccia a casa, se pur ti sospinge il tuo cuore
che tu vada alle navi d’Acaia, per quanto io non voglia.
Su via, la prece volgi a Giove che i nuvoli aduna,
ch’abita I’Ida, e Troia col guardo suo domina tutta,
e chiedi a lui che, pronto messaggio, egli l’aquila mandi,
che prediletta da lui, fra tutti i pennuti il più forte,
e che da destra la invii, ché bene tu possa vederla,
e, confidando in lui, raggiunga le navi d’Acaia.
Ché poi, se non vorrà l’auspicio accordarti il Cronide,
davvero io non potrei consigliare che tu t’avviassi
verso le navi argive, per brama che tu possa averne».
E a lei Priamo cosi, che un Nume sembrava, rispose:
«Al tuo consiglio, o donna, restio non voglio essere: a Giove
le mani alzare è bene, ch’egli abbia di me compassione».
Alla dispensiera, ciò detto, diede ordine il vecchio
ch’acqua purissima sopra le mani versasse. Ed apparve
presto l’ancella, e in mano reggeva un catino e una brocca.
E Priamo si lavò, poi chiese alla sposa la coppa,
e, stando in mezzo all’atrio, al cielo volgendo lo sguardo,
libò purpureo vino, le labbra alla prece dischiuse:
«O Giove re, signore dell’Ida possente ed illustre,
fa che ad Achille io giunga diletto, e a pietà lo commuova;
e a me l’aquila manda, veloce messaggio, diletto
a te su quanti sono pennuti, e fra tutti il più forte,
e mandalo da destra, ché bene io lo possa vedere,
e, confidando in lui, raggiunga le navi d’Acaia».
Cosí dicea pregando. L’udí l’alto senno di Giove,
e l’aquila mandò, perfetta fra tutti gli alati,
la cacciatrice, bruna di penne, cui chiamano fosca.
Quanto è grande la porta di duplice imposta, ben chiusa,
del talamo dall’alto soffitto d’un uomo opulento,
tanto eran grandi l’ali da un lato e dall’altro. Ed apparve
lanciandosi da destra sopra Ilio. Gioirono tutti,
come la videro, a tutti s’effuse conforto nel cuore.
E il vecchio in tutta fretta salì sopra il lucido cocchio,
e spinse il carro fuori dal portico e l’atrio sonoro.
Ivano innanzi dunque le mule, e tiravano il carro
di quattro ruote: Idèo lo guidava, Io scaltro; e i cavalli
ivano dietro, che il vecchio spingea con la sferza a gran possa,
traverso la città: seguivano tutti i suoi cari,
dirottamente piangendo, cosí come andasse alla morte.
Giove manda Hermes a proteggere Priamo durante il viaggio. Ermes si presenta a lui come un mirmidone e si offre di scortarlo.

E poi che, dunque, usciti da Troia, pervennero al piano,
i generi ed i figli, di nuovo rivolto il cammino,
tornarono in città. Ma i due non sfuggirono a Giove,
come comparvero al piano. Li vide, e pietà del vegliardo
ebbe, e a suo figlio Ermète si volse con queste parole:
«Ermète, o tu che godi, fra tutti i Celesti, compagno
farti dell’uomo, e ascolti, se alcuno li chiami, e se vuoi,
muovi ora, e Priamo adduci vicino alle navi d’Acaia,
cosi che niuno possa vederlo né averne sentore
degli altri Dànai, prima che giunga vicino al Pelide».
Disse; né tardo fu l’Argicida che l’anime guida.
Sùbito sotto le piante si strinse i leggiadri calzari
d’oro, immortali, che via lo rapivan su l’umido gorgo,
via per l’intermine terra, insieme coi soffi del vento:
anche la verga prese, onde gli occhi degli uomini sfiora,
questi, se vuol sopirli, se dormono questi, a destarli:
quella stringendo in pugno, volava il gagliardo Argicida.
A Troia, all’Ellesponto cosí rapidissimo giunse;
e mosse, e avea l’aspetto di giovane principe, quando
gli ombra le gote la prima pelurie, e più fulgono gli anni.
Or, come furono d’Ilio passati oltre il tumulo grande,
quivi i cavalli ed i midi fermar su le rive del fiume,
per beverarli; e già su la terra sceso era il tramonto.
E allor, vide l’araldo, s’accorse, scorgendolo presso,
d’Ermète; e a Priamo tosto si volse con queste.parole:
«Figlio di Dàrdano, attento; ché vigile mente ora occorre:
io vedo un uomo; e temo che presto c’infligga la morte.
Su via, dunque, fuggiamo coi nostri cavalli, o cadiamo
dinanzi ai suoi ginocchi, se avesse di noi compassione».
Qui si turbò la mente del vecchio, e lo invase terrore:
sopra le curve membra d’orror s’arricciarono i peli,
e sbigottito stette. Ma presso gli venne il Benigno,
le mani prese al vecchio, gli volse cosí la parola:
«0 padre, dove spingi cosí le tue mule e i cavalli
per la divina notte? Già dormono tutti i mortali.
Timore tu non hai dei feroci guerrieri d’Acaia,
che son vicini a te, che t’odiano e son tuoi nemici?
Se nella notte negra veloce qualcuno ti vede,
portar tanta ricchezza, che cosa tu fare potresti?
Giovine tu non sei più, troppo vecchio è costui che ti segue,
per tener fronte ad un uomo, se primo venisse a investirvi.
Ma io farti non vo’ nessun male; e se altri t’assalta,
dare ti vo’ soccorso: ché tu rassomigli a mio padre».
E a lui rispose allora con queste parole il vegliardo:
«E tutto vero quello che dici, figliuolo diletto;
ma sopra noi la mano tien pure qualcun dei Celesti,
che in tale viatore mi diede ch’io qui m’imbattessi,
quale tu sei, benigno, mirabil di viso e d’aspetto;
e saggio sei di mente, figliuolo di genti beate».
E l’Argicida a lui rispose che l’anime guida:
«Si, le parole che dici son tutte opportune, buon vecchio:
ma questo ancora dimmi, rispondimi senza menzogna:
tanti tesori si belli, li rechi tu forse lontano,
presso straniere genti, ché lì ti rimangan sicuri,
oppur la sacna Troia lasciate oramai tutti quanti,
per il timore, perché spento è l’uomo più prode di tutti,
il figlio tuo? Ché certo non era egli scarso alla guerra».
E il vecchio Priamo a lui rispose con queste parole:
«O buono, e chi sei tu? Da che genitori sei nato?
Con che dolcezza parli del mio sventurato figliuolo!».
E l’Argicida a lui rispose, che l’anime guida:
«D’Ettore divo tu mi chiedi, buon vecchio, e mi tenti:
io molte volte, nella battaglia che prova le genti,
l’ho con questi occhi veduto, quando egli, spingendo alle navi
gli Achei, li sterminava, struggeva, col lucido bronzo.
Ad ammirarlo noi stavamo; ché in collera Achille
contro l’Atride, a noi proibiva che andassimo a zuffa:
ch’io suo scudiere sono, qui sola una nave ci addusse.
Io dei Mirmidoni sono, mio padre è Polittore: è ricco
di molti beni, ed ha sei figli, ed il settimo io sono.
Tratto fra questi a sorte, venuto qui sono alla guerra.
E dalle navi al piano mòvo ora: ché all’alba dimani
gli Achivi occhi rotondi daranno l’assalto alla rocca,
ché troppo a lungo inerti restare, li tedia; e tenere
più non li possono i re degli Achei: tanto braman la pugna».
E Priamo, il re che un Nume sembrava, cosí gli rispose:
«Se tu sei veramente scudiere d’Achille Pelide,
esponi tutto a me, senza nulla nascondermi, il vero:
presso le navi ancora si trova mio figlio, od Achille
l’ha fatto a brani già con la spada, l’ha dato ai suoi cani?».
E l’Argicida che l’anime guida, cosí gli rispose:
«No, divorato ancora non l’hanno né cani né uccelli,
ma giace ancora, o vecchio, vicino alla nave d’Achille,
tuttor presso alla tenda. Già sorte son dodici aurore,
e il corpo ancor marcito non è, né lo vorano i vermi
che pur rodono i corpi degli uomini spenti in battaglia.
Sempre, d’intorno al corpo del suo prediletto compagno,
appena è l’alba, senza pietà lo trascina il Pelide;
ma pur non lo deturpa: veder lo potrai da te stesso,
come rorida ancora la salma, e detersa dal sangue,
né punto lorda; e tutte si sono richiuse le piaghe,
quante ne aveva; ché molti su lui spinto avevano il ferro.
Tanto del figlio tuo si dàn cura i Beati Celesti,
sebbene egli sia morto: tanto essi l’amavan d’amore».
Cosí diceva; e, lieto, cosí gli rispose il vegliardo:
«O figlio, è saggia cosa le debite offerte ai Celesti
porgere. Il figlio mio, quando era ancor vivo, oblioso
non fu mai, nella reggia, dei Numi signori d’Olimpo,
perciò, pure nel fato di morte, han memoria di lui.
Orsù, dalle mie mani tu or questa coppa gradisci,
e me proteggi, e guida mi sii, con l’aiuto dei Numi,
sin ch’io presso la tenda d’Achille Pelide sia giunto».
E l’Argicida che l’anime guida, cosí gli rispose:
«Me che son giovine, o vecchio, tu tenti; né farmi convinto
potrai che accetti, senza che Achille lo sappia, il tuo dono.
Possibile non è, tanto io lo rispetto e Io temo,
ch’io Io defraudi; e poi, potrebbe colpirmi sciagura.
Ma per guidare te, verrei sino ad Argo l’eccelsa,
sopra una rapida nave movendo, movendo anche a piedi:
niun, s’io ti guido, potrà sprezzarti né offenderti, o vecchio».
E, cosí detto, il Nume benigno balzò sopra il carro,
rapidamente, in pugno stringendo la sferza e le briglie.
ed impeto gagliardo spirò nei cavalli e le mule.
Hermes infonde sonno alle guardie, e apre il recinto che conduce alla tenda di Achille; poi svela a Priamo la sua vera identità e si congeda.
Priamo entra nella tenda di Achille e lo supplica di ridargli il corpo di Ettore.
Achille ne ha pietà, riconoscendo che ha molto sofferto. Acconsente e fa preparare la salma.

Quando alle torri e al fosso poi giunsero, presso le navi,
dove da poco stavan le guardie, allestendo la cena,
sonno su tutti versò l’Argicida che l’anime guida,
e d’improvviso schiuse le porte, rimosse le sbarre,
e Priamo introdusse, col carro e coi fulgidi doni.
Cosí giunsero presso la tenda d’Achille Pelide.
Alta era questa. Al signore l’aveano i Mirmidoni estrutta,
tronchi tagliando d’abete: di sopra costrussero il tetto,
con le villose canne che avevan recise nei prati.
E attorno un gran recinto levaron pel loro signore,
tutto di fitti pali: chiudeva la porta una sbarra
sola d’abete: in tre la solevano spinger gli Achivi;
ed erano anche in tre quando aprire volevan la porta,
gli altri Mirmidoni: Achille bastava a sospingerla ei solo.
E allora Ermète, il Nume benevolo, al vecchio la schiuse,
e fece entrare i doni fulgenti pel divo Pelide,
e giù dal cocchio a terra balzò, tali detti gli volse:
«O vecchio, io sono a te venuto d’Olimpo: immortale
io sono, Ermète: a te per guida mandato m’ha Giove.
Ma ora io me ne vo di nuovo: al cospetto d’Achille
io non verrò: sarebbe davvero odioso, che un Nume
cosi palesemente largisse favori a un mortale.
Ma entra, e abbraccia tu le ginocchia al Pelide, e pel padre
pregalo, e per la madre divina dal fulgido crine,
e pel suo figlio, se mai potessi commovergli il cuore».
Poi ch’ebbe detto cosi, di nuovo si volse all’eccelsa
vetta d’Olimpo, Ermète. E Priamo balzò giù dal carro
al suolo, e Idèo lasciò. Rimase egli quivi, a tenere
muli e cavalli; e il vecchio andò difilato alla tenda
dov’era Achille, stirpe di Superi. E qui lo rinvenne,
ed i compagni eran tutti lontani da lui. Due soltanto,
Automedonte l’eroe, con Àlcimo prole di Marta,
s’affaccendavano. Aveva da poco lasciata la cena,
i cibi, le bevande: la mensa era ancora imbandita.
Senza esser visto, giunse qui Priamo; e, fattosi presso,
strinse, abbracciò le ginocchia d’Achille, le mani omicide,
terribili baciò, che trafitti gli avean tanti figli.
Come allorché sopra un uomo s’abbatte la grave sciagura,
che in patria un uomo uccise, che giunge fra genti straniere,
presso un possente signore: lo guardano tutti stupiti:
similemente Achille stupí, come Priamo vide.
Stupirono anche i due, guardandosi l’uno con l’altro.
E Priamo, ad Achille parlando, cosí favellava:
«Del padre tuo ricordati, Achille simile ai Numi,
annoso al par di me, su la soglia di trista vecchiezza;
ed i vicini, forse, che intorno gli stanno, anche lui
crucciano, e alcuno non v’è che allontani da lui la sciagura.
Ma pure, quegli, udendo parlare di te che sei vivo,
certo s’allegra nel cuore, sperando, ogni giorno che spunta
di rivedere il figlio diletto che torni da Troia,
lo non ho che sventure: ché tanti valenti figliuoli
ho generato in Troia, né alcuno più vivo mi resta.
Cinquanta, io, si, n’avea, quando giunsero i figli d’Acaia,
che dieci e nove a me nati eran dal grembo d’Ecùba,
avean gli altri le donne concetti nell’alto palagio.
Ai più di loro, Marte feroce fiaccò le ginocchia:
quello ch’era da solo presidio alla rocca e a noi tutti,
tu l’uccidesti or ora, mentre ei combattea per la patria,
Ettore: ed ora io vengo d’Acaia alle navi per lui,
per riscattarlo da te, recandoti doni infiniti.
Achille, abbi rispetto dei Numi, ricorda tuo padre,
abbi di me compassione: di lui molto più n’ho bisogno,
ché io patito ho quanto niun altri patì dei mortali,
io che alle labbra appressai la mano che il figlio m’uccise».
Cosí disse. E una brama gl’infuse di pianger pel padre.
La man gli prese, e il vecchio da sé dolcemente respinse.
E, nei ricordi immersi, l’uno Ettore prode piangeva
dirottamente, steso dinanzi ai piedi d’Achille:
ed il Pelide anch’egli piangeva, or pensando a suo padre,
ora a Pàtroclo; e tutta suonava di pianto la casa.
Ma poscia, quando Achille divino fu sazio di pianto,
e via dal seno, via dalle membra ne sparve la brama,
presto balzò dal seggio, levò di sua mano il vegliardo,
ch’ebbe pietà del capo canuto, del mento canuto,
e a lui si volse, queste veloci parole gli disse:
«O poveretto, molti dolori ha patito il tuo cuore.
Ma come, dunque, solo venire, alle navi d’Acaia
osasti ora, al cospetto dell’uomo che tanti tuoi figli
trafisse, e tanto prodi? Davvero, il tuo cuore è di ferro!
Ma via, su questo trono siedi ora, e, per quanto crucciato,
lasciamo che la doglia riposi per ora nel seno,
poiché nessun vantaggio deriva dal gelido pianto:
ché ai miseri mortali tal sorte largirono i Numi:
vivere sempre in pena: solo essi son privi d’affanni.
Perché sopra la soglia di Giove son posti due dogli
dei loro doni: due di tristi, ed un terzo è di buoni.
E quegli per cui Giove, del folgore sire, li mischi,
or nella mala sorte s’imbatte, ora poi nella lieta.
Ma quello a cui soltanto largisce i funesti, lo aggrava
d’ogni onta; e cruda fame lo incalza per tutta la terra,
e va randagio, e onore né uomo gli rende, né Nume.
Cosí dièro a Pelèo, da quando egli nacque, i Celesti
fulgidi doni: il primo fra gli uomini egli era: ricchezza
avea, felicità, dei Mirmidoni aveva l’impero,
e a, lui ch’era mortale, concessero sposa una Diva.
Ma il Nume, ai beni un male gli aggiunse: ché a lui nella casa
non nacquero figliuoli che fossero eredi del regno.
Un figlio solo, fuori di tempo, gli nacque, né quando
vecchio sarà, di lui potrà cura avere: ché lungi
a Troia io me ne sto, te vecchio, crucciando, e i tuoi figli.
Ed anche te sappiamo che un giorno eri, o vecchio, felice.
Fra quante genti nutre la sede di Màcare, Lesbo,
e sopra noi la Frigia, col pelago d’Elle infinito,
tu, dicono, eri, o vecchio, per figli e ricchezze beato.
Ora, poiché gli Uranii t’inflissero questa sciagura,
e guerre e stragi hai sempre di genti d’intorno alla rocca,
tollera; e il cuore tuo non affligger di pianto perenne.
Nulla guadagnerai, piangendo il tuo figlio diletto,
non lo resusciterai: chiamerai qualche nuovo malanno».
E a lui Priamo, il sire che un Nume pareva, rispose:
«No, non volere ch’io segga, progenie di Superi, mentre
Ettore giace insepolto vicino alla tenda; ma presto
scioglilo, ché questi occhi lo vedano; e i doni tu accetta,
ch’io t’ho recati, tanti. Goderli tu possa, e alla patria
tua ritornare, poiché compassione di me prima avesti,
si ch’io vivessi, e ancora godessi la luce del sole».
Ma bieco lo guardò, cosí gli rispose il Pelide:
«Vecchio, non fare, adesso, ch’io m’irriti. A scioglier tuo figlio
sono disposto: a me venuta è, mandata da Giove,
la madre mia diletta, la figlia del vecchio del mare.
Ed anche te, so bene, né, Priamo, tu mi deludi,
che qualche Nume t’ha guidato alle navi d’Acaia,
ché non avrebbe osato venire alcun uomo, per quanto
giovane fosse, al campo: sfuggir non poteva alle guardie,
né smover facilmente la sbarra potea della porta.
Non voler dunque, o vecchio, più oltre eccitare il mio cuore;
ché io disobbedire non debba al comando di Giove,
e te scacciar, sebbene tu supplice sei, dalla tenda».
Cosí diceva Achille. E il vecchio obbedí sbigottito.
Ed il Pelide balzò dalla tenda, che parve un leone:
solo non già: ché insieme moveano con lui gli scudieri,
Automedonte, l’eroe, con Àlcimo, ch’erano entrambi
cari su tutti, dopo la morte di Pàtroclo, al sire.
Essi di sotto al giogo disciolser le mule e i cavalli,
condusser nella tenda l’araldo del vecchio sovrano,
lo fecero sedere. Dal carro di solida ruota
tolsero poscia il riscatto ricchissimo d’Ettore. Solo
lasciaron due mantelli, lasciarono un càmice fino,
perché potesse il corpo coprire portandolo a casa.
Quindi, chiamate le ancelle, die’ ordine ch’unto e lavato
fosse; ma lungi: ché Priamo veder non dovesse suo figlio,
ché poi, crucciato in cuore frenar non potesse lo sdegno,
vedendo il figlio, e Achille dovesse a sua volta crucciarsi,
e morte dare al vecchio, frustrare di Giove i comandi.
Or, poi che l’ebber lavato, cosperso con olio le ancelle,
gli ebbero cinto alle membra un manto e una tunica bella,
allora Achille stesso lo prese e sul letto lo pose,
ed i compagni insieme con lui lo portaron sul carro.
E pianse Achille allora, chiamando il compagno diletto:
«Pàtroclo, non adirarti con me, se tu vieni a sapere
anche laggiù nell’Ade, che Ettore simile ai Numi
resi a suo padre; ché dato me n’ha non indegno riscatto.
Anche di questi doni la parte avrai tu che ti spetta».
Achille fa preparare la cena, e poi un letto per Priamo. E gli chiede quanti giorni dureranno i funerali di Ettore; Priamo dice che dureranno 11 giorni, e il 12esimo torneranno alla zuffa. Per tutto quel periodo Achille promette che non attaccherà i Troiani.

Così disse. E alla tenda di nuovo tornato, il divino Pelide,
sul trono istoriato sede’ donde prima era surto,
dal Iato opposto a Priamo, cosí favellando al vegliardo:
«Vecchio, tuo figlio è sciolto, cosí come tu pur bramavi,
sopra la bara giace. Diman, come sorga l’aurora,
quando lo porterai, lo vedrai. Si pensi ora alla mensa.
Niobe dal crine bello, anch’essa pensava a cibarsi,
a cui pur, nella casa morti eran ben dodici figli,
sei giovanette, e sei garzoni negli anni fiorenti.
Le uccise i figli Apollo, coi dardi dell’arco d’argento,
ch’era adirato con Niobe: Artèmide uccise le figlie
perché Niobe osò sé stessa uguagliare a Latona.
Disse che questa avea generati due figli, essa molti:
e quelli, solo in due, i suoi sterminarono tutti.
Giacquero nove giorni cadaveri; e alcuno non c era
per seppellir: ché in pietra le genti avea Giove converse:
li seppellirono infine nel decimo giorno gli Olimpi.
Ma, sazia infin di pianto, del cibo ebbe anch’essa ricordo.
Ora, conversa in rupe, fra gioghi deserti di monti,
nel Sipilo, ov’è fama che sia delle Ninfe la cuna,
che intorno all’Achelòo contesson, divine, le danze,
pur nella pietra, soffre la doglia voluta dai Numi.
Dunque, a nutrirci anche noi pensiamo, o divino vegliardo.
E piangere il tuo figlio diletto potrete più tardi,
quando in Troia l’avrai condotto; e sarà lungo pianto».
Disse. E sgozzò, balzato sui piedi, una pecora bianca.
La scorticarono poi, l’acconciarono bene i compagni,
fatta con arte a pezzi, l’infissero poi negli spiedi,
la fecero arrostire con cura, allestirono tutto.
Automedonte, dentro canestri eleganti, dispose
sopra la tavola il pane: divise le carni il Pelide.
Su le vivande imbandite gittarono tutti le mani:
e poi che fu placata la brama del bere e del cibo,
Priamo, di Dàrdano figlio, mirava, stupendone, Achille,
quale era, e quanto grande, che un Nume sembrava a vederlo.
E Achille anch’ei guardava, stupito, di Dàrdano il figlio,
il bello aspetto suo vedendo, ascoltandone i detti.
E poi che furon sazi cosí di guardarsi l’un l’altro,
Priamo a parlare prese per primo, che un Nume sembrava:
«Lascia che a letto io vada, progenie di Numi: ché presto
prendiam ristoro entrambi, sopiti nel sonno soave:
ché non si chiusero mai sotto í miei sopraccigli questi occhi,
da quando è per tua mano caduto il mio figlio diletto;
ma sempre gemo, sempre mi cruccio d’innumeri affanni,
nel mio cortile sempre mi voltolo fra la lordura.
Invece, adesso ho pane mangiato, purpureo vino
m’è per la gola sceso: finora non mero pasciuto».
Disse. E ai compagni e alle ancelle die’ ordine allora il Pelide
che sotto il portico un letto ponessero, e sopra, le coltri
belle, di porpora; e sopra stendessero ancora i tappeti
ed i villosi mantelli, ché il vecchio potesse coprirsi.
Quelle, stringendo in pugno le fiaccole, uscir dalla tenda,
e con sollecita cura fùr sùbito pronti due letti.
E disse allora Achille, di téma pungendogli il cuore:
«Dormi qui fuori, o caro vegliardo, ché alcun degli Achivi
giunger non debba qui, di quelli che son consiglieri.
che qui vengono a farmi proposte, ché n’hanno diritto.
Se nella buia notte qualcuno di lor ti vedesse,
lo ridirebbe al pastore di genti Agamènnone; e indugio
nascer potrebbe allora che tu riscattassi la salma.
Ma questo dimmi adesso, rispondimi senza menzogna,
per quanti giorni pensi che debba durare l’esequie
d’Ettore; e anch’io frenerò, tratterrò dalla pugna le genti».
E Priamo ad esso, il veglio che un Nume sembrava, rispose:
«Se d’Ettore divino tu vuoi ch’io provveda al sepolcro,
questo dovresti fare, se farmi tu vuoi cosa grata.
Tu sai che nella rocca siam chiusi, e lontana è la selva
da trasportare legna, ché invade terrore i Troiani.
Vorrei che nove dì nella casa durasse il compianto:
nel decimo vorrei seppellirlo, e alle genti un banchetto
funebre offrire: l’undecimo il tumulo alzar su la salma.
il dodicesimo poi, torneremo, se occorre, alla zuffa».
E Achille, eroe divino, dai piedi veloci, rispose:
«Ed anche questo, sia, vecchio Priamo, come tu brami:
sospenderò pel tempo che tu m’hai richiesto, la guerra.
E, cosí detto, schiuse la mano, e la destra del vecchio
strinse, perché non dovesse nel seno restargli timore.
E della casa cosí nel vestibolo presero sonno,
l’araldo, e Priamo, entrambi volgendo assennati pensieri.
E’ notte e tutti dormono. Ma Hermes sveglia Priamo e lo invita a fuggire via, perché è troppo pericoloso per lui passare la notte tra gli Achei. Lo aiuta ad allontanarsi inosservato.
Cassandra è la prima che vede avvicinarsi suo padre Priamo con il corpo di Ettore. Ecuba e Andromaca lo piangono.

E nel recesso Achille dormi della solida tenda,
e accanto a lui la figlia di Brise dall’omero bianco.
E tutti gli altri Dei, tutti gli uomini d’arme coperti,
dormian la lunga notte, domati dal dolce sopore.
Ma non aveva il Sonno ghermito il benevolo Ermète,
che con la mente andava cercando in che modo potesse
Priamo lungi dai legni recar, deludendo i custodi.
E a lui sul capo stette, cosí la parola gli volse:
«0 vecchio, al tuo periglio non pensi, che ancora tu dormi
fra genti a-te nemiche? Benigno fu adesso il Pelide:
hai riscattato adesso, con molti tuoi doni, tuo figlio;
ma per aver te vivo, riscatto tre volte maggiore
dare dovrebbero i tuoi figliuoli che vivono ancora,
se ti sapessero qui Agamènnone e tutti gli Achivi».
Cosí diceva. E il vecchio destò, sbigottito, l’araldo.
Al giogo strinse Ermète le mule e i cavalli, e pel campo
velocemente egli stesso li spinse; né alcuno li vide.
Ma quando al passo poi pervenner del rapido fiume,
del vorticoso Xanto, figliuolo di Giove, immortale,
Ermète si parti di qui verso i picchi d’Olimpo.
Sopra la terra tutta l’Aurora dal peplo di croco
già s’effondeva; ed essi spingean nella rocca i cavalli
con gemiti, con pianto: la salma portavano i muli.
Né alcun altro li vide, né uomo né donna elegante;
ma solamente Cassandra, che bella era come Afrodite.
Pergamo ascesa, vide da lungi il suo padre diletto
venir sul cocchio, e seco l’araldo di voce possente,
e vide Ettore sopra la bara, tirato dai muli.
E un ululo levò, mandò grido per tutta la rocca:
«Venite tutti voi, Troiani e Troiane, e vedete
Ettore! Un di’ vi piaceva vederlo tornar dalla pugna,
ch’era della città l’amore, e del popolo tutto!».
Cosí diceva. E niuno rimase, né uomo, né donna,
nella città; ché piombò su tutti dolore infinito;
e su la porta incontrarono il re che la salma recava.
Prima la sposa sua diletta e la nobile madre,
balzate sopra il carro, la salma diletta abbracciando,
si Iaceravan la chioma: la turba assisteva piangendo.
E qui l’intero giorno, sin quando giungesse il tramonto,
Ettore avrebbero pianto, gemendo dinanzi alle porte,
se non avesse il vecchio parlato dal carro alle turbe:
«Fatemi largo, ch’io passi coi muli: satolli di piànto
farvi potrete, quando condotto l’avrò nella reggia».
Cosí disse. E la turba s’apri, fece largo al suo carro.
Giunti alla reggia eccelsa, deposero quindi la salma
su traforato letto, chiamaron qui presso cantori
per intonare i lagni. Levaron con flebile voce
quelli la funebre nenia, seguiano coi lagni le donne.
Lamenti e cerimonia funebre

E Andromaca fra loro levò per la prima il lamento,
fra le sue mani il capo stringendo del prode suo sposo:
«Dai giovani anni, o sposo, tu parti, e me vedova lasci
entro la casa: il bimbo tu lasci, che ancóra non parla,
che generammo tu ed io, sventurati! Né credo ch’ei giunga
a giovinezza: ché prima sarà dalle cime distrutta
questa città, ché morto sei tu che a difenderla stavi,
la difendevi, guardavi le spose ed i teneri figli.
Esse dovranno ben presto partir su le concave navi,
ed io fra loro. E tu dovrai pur seguirmi, o mio figlio,
dove ti sarà forza piegarti a un indegno lavoro,
penare innanzi a un duro padrone; o qualcun degli Achivi
ti ghermirà, scaglierà, morte orribile, giù dalle torri,
crucciato perché forse tuo padre gli uccise un fratello,
oppure il padre, o un figlio: ché molti guerrieri d’Acaia
d’Ettore sotto ai colpi caduti, già morsero il suolo,
ché nella pugna funesta non era, no, dolce, tuo padre.
Perciò nella città lo piangono adesso le turbe.
Ettore, ai tuoi genitori tu lasci ineffabile pianto.
ma più che a tutti, a me rimangono affanni funesti:
ché tu non mi porgesti la man dal tuo letto di morte,
non mi dicesti una saggia parola di cui ricordarmi
potessi notte e giorno, versando l’amaro mio pianto!».
Cosí dicea piangendo, gemevano tutte le donne.
Ed Ecuba fra loro levava per prima il lamento:
«Ettore, al cuore mio diletto su tutti i miei figli,
sinché tu fosti vivo, tu fosti diletto ai Celesti:
essi si diedero cura di te, pur nel fato di morte.
Gli altri miei figli, Achille dai piedi veloci, vendeva,
come li avesse presi, di là dallo sterile mare,
condotti a Samo, ad Imbro, ai lidi nebbiosi di Lemno:
te, poi che t’ebbe tolta la vita col lucido bronzo,
ti trascinò lungamente di Pàtroclo intorno alla tomba,
che tu spengesti: e pure cosí non gli ese la vita.
Ed ora, tutto fresco mi stai nella casa, ed intatto,
simile in tutto ad uomo che Apollo dall’arco d’argento
abbia con le sue frecce benigne colpito ed ucciso».
Disse piangendo cosi, suscitando lamenti infiniti.
Elena terza poi, fra loro levava il lamento:
«Ettore, al cuore mio diletto fra tutti i cognati,
— ché Paride è mio sposo, che sembra all’aspetto un Celeste,
egli m’addusse a Troia: cosí fossi morta quel giorno! —
è questo l’anno già ventesimo ch’io sono a Troia,
da che di là partii, lasciando la terra materna,
né udito ho mai da te parola scortese o d’oltraggio;
anzi, se mai qualche altro rampogna mi fe’ nella reggia,
fratello tuo, sorella, cognata, o mio suocero stesso,
— ché mite ognor con me mio suocero fu come un padre —
tu con le tue parole solevi esortarlo e frenarlo,
con la mitezza tua, le tue concilianti parole.
Perciò col cruccio in cuore te lagrimo adesso, e me stessa.
Perché niun altri c’è nell’ampia città dei Troiani
mite e benigno con me, ché anzi mi aborrono tutti».
Cosí dicea piangendo, gemeva la turba infinita.
E il vecchio Priamo, queste parole al suo popolo volse:
«Troiani, alla città recate ora legna: ché Achille
quando mi congedò, promise che a darci molestia
non penserà, se prima non brillino dodici aurore».
Disse. Ed ai carri quelli giovenchi aggiogarono e muli,
e innanzi alla città s’adunarono sùbito tutti.
Per nove dì dalla selva recarono legna infinite;
ma quando apparve poi, fulgente, la decima aurora,
Ettore prode allora portaron piangendo, la salma
a sommo della pira deposero, accesero il fuoco.
Quando l’Aurora appari mattiniera, ch’a dita di rose,
d’Ettore intorno al rogo si venne accogliendo la gente.
E quando intorno poi qui furono tutti, e raccolti,
spensero prima tutta la pira col fulgido vino,
dovunque spinta s’era la forza del fuoco, poi l’ossa
bianche, versando pianto, raccolser fratelli e compagni,
e per le loro guance cadevano lagrime fitte.
Poi dentro un’urna d’oro racchiusero il cuore, e sovr’essa
morbidi, a ricoprirla, disteser purpurei pepli.
Dentro una cava fossa di poi la deposero; e sopra
immani e fitte pietre vi posero, e il tumulo in fretta
poi v’innalzarono. Intanto, vegliavano in giro le scolte,
se mai prima del tempo venisser gli Achivi all’assalto.
Poi, quando il tumulo fu levato, tornarono indietro,
e celebrarono tutti raccolti, un solenne banchetto,
di Priamo entro la reggia, del sire nutrito dai Numi.
D’Ettore questa fu, domator di corsieri, l’esequie.